Giapponismo. Venti d’Oriente nell’arte europea

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Fino al 26 gennaio 2020, a Rovigo, a Palazzo Roverella, va di scena la mostra Giapponismo. La matita e tempera su carta dal tono trasparente grigio azzurro, simile ai colori di un cielo nuvoloso visto dall’oblò di un aereo e che possiamo ammirare all’ingresso della mostra che reca con sé il mistero e il fascino dell’Oriente. L’opera è del pittore Antonio Fontanesi e rappresenta l’Ingresso di un tempio giapponese. L’artista era stato chiamato ad insegnare assieme allo scultore Vincenzo Ragusa e all’architetto Giovanni Cappelletti all’Istituto d’Arte di Tokyo dopo la fine del periodo Edo, un’epoca durata dal 1603 al 1868, durante la quale il Giappone aveva limitato i suoi rapporti con l’esterno: nell’unico porto aperto di Nagasaki potevano entrare solo navi cinesi ed olandesi. La nuova epoca Meiji diversamente mostra interesse al mondo europeo: alla sua cultura e alle sue scoperte in campo scientifico. La rassegna: Giapponismo. Venti d’Oriente nell’arte europea. 1860-1915 che rimarrà aperta al pubblico fino al 26 gennaio 2020, nel gioco delle reciproche influenze fra paesi europei e Giappone, illustra la bellezza della contaminazione di stilemi orientali nelle opere pittoriche, nella ceramica, nella porcellana, nella scultura, nelle stampe e nell’arredamento del nostro continente. Il momento clou è contemporaneo allo sviluppo del Modernismo e del gusto Liberty, nella tendenza ad una maggior volontà di semplificazione delle forme che si alleggeriscono ed acquisiscono morbidezza. Le grandi esposizioni internazionali come la  r del 1862, quelle di Parigi nel 1867 e nel 1878, poi quelle in Europa Centrale a Monaco, Berlino, Vienna e Praga e per completare la mappatura dei luoghi, quelle in Italia, a Torino nel 1902 e a Roma nel 1911 sono il punto di partenza ma soprattutto d’osservazione del progetto espositivo di Palazzo Roverella. L’iniziativa promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo in sinergia con il Comune di Rovigo e l’Accademia dei Concordi ha la curatela, assieme al catalogo edito da SilvanaEditoriale, del dott. Francesco Parisi. Attraverso le grandi Fiere internazionali, ma anche grazie a figure come Siegfried Bing, proprietario della galleria Art Noveau, il quale aveva organizzato all’Istituto Nazionale delle Belle Arti di Parigi L’Exposition de la gravure Japonaise e aveva promosso la pubblicazione trilingue (in inglese, francese e tedesco) della rivista Le Japon Artistique, si diffonde il fascinosottile per l’arte giapponese che ritroveremo nella pittura di Vincent van Gogh, Paul Gauguin, nei pittori Nabis, negli artisti di area mitteleuropea come Gustav Klimt o ancora nell’arte del manifesto o fra i pittori italiani, soprattutto quelli residenti a Parigi. Kimoni, porcellane e ventagli giapponesi cominciarono ad essere acquistati dagli artisti e poi inseriti nei loro quadri. Il primo fu il pittore americano James Whistler che risiedeva a Parigi dal 1855 e poi i più famosi Claude Monet, Edouard Manet e Pierre-Auguste Renoir. Gli echi orientali nei quadri di Monet sono tanti: da quelli con figura come nella Japonaise, che ritrae la moglie, ai paesaggi come nella veduta marina La terrasse à Saint-Adresse del 1867, vicina alle stampe di Katsushika Hokusai o Il ponte giapponese sul laghetto delle ninfee del 1899che si ispira alla pittura di Utagawa Hiroshige. Si citano due dei maggiori artisti giapponesi vissuti a cavallo tra la seconda metà del Settecento e la prima metà dell’Ottocento. Il Giapponismo in quell’epoca alimenta anche una serie di pubblicazioni come ad esempio La maison d’un artiste di Edmond De Gouncourt. Si hanno letture di questa corrente differenti in letteratura come in arte: nell’Impressionismo, nel Simbolismo o nel Decadentismo. Alcune volte è evidente come nel Giardino dei susini di Van Gogh altre volte più celato. Il giapponismo lo possiamo rintracciare nei tagli obliqui delle composizioni come nella Donna che pulisce la tinozza o Donna che si pettina, visibile in mostra di Edgar Degas e nelle linee o nei colori dell’impressionista americana Mary Cassatt. Un influsso straordinario ebbero sicuramente le stampe ukiyoe sui manifesti del francese Henri de Toulose-Lautrec. Fra il gruppo degli artisti Nabis, avanguardia post-impressionista di fine Ottocento, in mostra sono visibili opere di Pierre Bonnard e Paul Ranson che furono battezzati dai loro colleghi le nabi japonard e le nabi plus japonard … Gli appellativi spiegano quanto fossero attratti dalla cultura giapponese. Le silhouettes di Bonnard si muovono infatti su spazi vuoti dove la profondità viene resa dalle minori dimensioni delle figure mentre per Ranson quella cultura diventa una fonte inesauribile per spunti d’arabeschi e suggerimento per distese di colore à plat. Si respira un’atmosfera reale d’Oriente nel Paesaggio con il monte Fuji in lontananza, che è anche il più grande vulcano del Giappone, nel dipinto di Emil Orlik, pittore praghese che andò in Giappone due volte per apprendere le tecniche tradizionali della xilografia ukiyoe, la quale permette di ritrarre persone che contemplano paesaggi sublimi e/o apparizioni celesti. In area italiana sono suggestive le opere Pioppi nell’acqua e Betulle in riva al fiume di Giuseppe de Nittis che nelle sfumature del fogliame, dell’acqua e dei rami sembra conoscere la tecnica antica del tarashikomi che prevede la stesura di uno strato di pittura su un altro non ancora asciutto e mentre sgocciola, produce particolari effetti di colore. Nelle ultime sale dell’esposizione i manifesti a colori E.&A. Mele del 1907 di Marcello Dudovich e Corriere della Sera del 1898 di Vespasiano Bignami, entrambi di grande effetto, esprimono una diversa consapevolezza e recezione della cultura orientale. Cultura che possiamo apprezzare mediante il diretto confronto grazie alle presenza in mostra di opere di autori giapponesi assai famosi come Utamaro e Hiroshige a cui sono state dedicate importanti rassegne in Italia e artisti spesso a noi meno conosciuti, ma sicuramente interessanti anche per lo scambio di idee e di stilemi che ha favorito la loro conoscenza nei secoli passati.

Patrizia Lazzarin, 30 settembre 2019

 

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Natalia Goncharova, donna e artista rivoluzionaria

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Per la prima volta in Italia viene dedicata un’ampia retrospettiva a Natalia Goncharova, artista rivoluzionaria, esponente di spicco delle prime avanguardie russe del 900’, visibile dal 28 settembre al 12 gennaio 2020 nelle sale di Palazzo Strozzi a Firenze che per l’occasione sono state allestite con la carta da parati che trae ispirazione dalle opere della pittrice. Chi è Natalia Goncharova? Forse non tutti sanno che questa donna forte, come essa stessa ama dipingersi disegnando una mano gigante sproporzionata nel suo Autoritratto con gigli gialli, ha saputo inventare e poi ancora inventare, ma soprattutto lottare con la sua pittura per degli ideali di progresso. Ha tenuto sempre nel suo cuore la Russia, la terra d’origine, innamorata della sua storia e del suo folclore, dei colori accesi, delle tinte degli uomini che la abitavano e del paesaggio che la circondava. Natalia nasce nel governatorato di Tula, nella Russia centrale, nel 1881, dove vive fino all’adolescenza prima di trasferirsi a Mosca. Appartiene ad una famiglia della piccola nobiltà: il padre è il pronipote della moglie bellissima del poeta Alexander Pushkin che perderà la vita in un duello causato dalla presunta infedeltà della compagna, mentre la madre è figlia di un professore di Teologia all’Accademia moscovita. Le foto la ritraggono ragazza nei primi anni del Novecento mentre trascorre le vacanze in campagna con addosso le tipiche vesti russe. La stessa persona che qualche anno più tardi nel 1910 esporrà i primi dipinti di nudi eseguiti in Russia da una donna. Modella su sfondo blu viene sequestrata come la Dea della fertilità e la pittrice accusata di pornografia e d’immoralità. La resa dell’anatomia nel quadro viene ad essere esplicita a differenza di nudi più accademici di pittori contemporanei. Goncharova allora venne assolta dall’accusa di offesa alla pubblica morale. A distanza di più di cento anni quest’immagine, in particolare la parte superiore del dipinto che era stata scelta come trailer per la mostra a Firenze è stata giudicata da Instagram non adeguata perché raffigurava nudità e parti della pelle eccessive. Ora l’immagine è stata sbloccata. Natalia Goncharova con la scelta di dipingere quei nudi rivendicava ieri ed anche oggi gli stessi diritti degli uomini ai quali era lecito. L’esposizione a Palazzo Strozzi s’intitola Natalia Goncharova tra Gaguin, Matisse e Picasso e già nel titolo ha il merito di ricostruire le relazioni e gli influssi che Natalia Goncharova e il compagno Mikhail Larionov, con cui condividerà una vita dedita all’arte, riceveranno e metabolizzeranno a partire dalle loro tradizioni, sia dal contatto con artisti occidentali sia dalla visione dei loro quadri. A Firenze i paesaggi e le nature morte di Cezanne e di Gauguin, le forme di Picasso dialogano in maniera serrata con le invenzioni di Natalia che coglie le novità dell’Occidente con la ferma volontà di conservare la bellezza delle tradizioni russe e del mondo orientale. Il percorso della mostra ospita centotrenta opere provenienti da musei russi e internazionali: la Galleria Tretyakov di Mosca e il Museo Statale di San Pietroburgo, le collezioni della Tate, della National Gallery, dell’Estorick Collection, del Victoria and Albert Museum, del Museo del Novecento di Milano, del Gabinetto dei Disegni del Castello Sforzesco e del Mart di Rovereto. Tutto questo permette di ottenere una panoramica su una figura che è stata la prima artista, non solo donna, ad avere dedicata nel 1913 a Mosca una mostra personale che ebbe non solo un vernissage strepitoso, come venne recensito all’epoca, ma venne visitata da dodicimila persone e furono vendute trentuno delle sue opere per 5000 rubli, come racconta, nel catalogo edito da Marsilio, Evgenia Iliukhina del Tate Modern di Londra. Il creatore dei Balletti Russi, Serge Diaghilev, per cui Natalia progetterà i costumi di varie opere dirà di lei: questa donna trascina tutta Mosca e tutta San Pietroburgo dietro di sé; non si imita solo la sua opera ma anche la sua personalità. Goncharova non fu solo pittrice, grafica, illustratrice, ma anche costumista, scenografa, decoratrice, attrice cinematografica e performing artist gia all’inizio del Novecento. Fu una donna d’avanguardia: la sua passione la porto a studiare per i balletti di Diaghilev i mosaici ravennati e i trecentisti toscani per Liturgie e per Triana il flamenco e le atmosfere e l’abbigliamento spagnolo. Queste opere, a differenza di Le Coq d’or e Oiseau de feu che le diedero la fama e che affascinarono i parigini perché il mondo russo viene interpretato in chiave moderna, non andarono in scena per i costi elevati. Le ispirazioni ricevute si tradurranno tuttavia in opere da cavalletto, come possiamo vedere in mostra, con Le donne spagnole, dove si leggono gli influssi delle icone russe anche se i colori sono smorzati: bianchi, marroni, neri, mentre le forme mostrano una frammentazione di matrice cubista. Ludovica Sebregondi curatrice della rassegna ha spiegato durante la conferenza stampa come Natalia Goncharova abbia avuto un ruolo trainante nelle avanguardie e sia riuscita unire la tradizione popolare e russa alla modernità. La studiosa ha poi raccontato di come l’esposizione si articoli in sezioni che fanno focus su tappe e temi importanti del suo percorso artistico come la Grande Guerra quando il suo compagno Larionov verrà gravemente ferito o la Religione. In questo campo ancora per prima, come donna, dimostrerà con le sue opere contro la tradizione ortodossa che voleva che solo gli uomini potessero eseguire icone, perché solo loro creati ad immagine di Dio, che tutti, le donne comprese, non avessero limiti né alla loro volontà né alla loro mente. Alcuni dei suoi lavori come gli Evangelisti vennero sequestrati anche perché raffigurati con stile moderno così da essere giudicati delle parodie. Per questo venne accusata di blasfemia e poi per fortuna assolta. Una vita intensa appare la vita di Natalia Goncharova, ma vissuta con compostezza. Una figura forte, come si diceva, che rivendica l’originalità dell’arte russa anche nei confronti del Futurismo che criticò anche per l’esaltazione della guerra e per il maschilismo. Nei primi anni dieci del Novecento lei e Larionov inventano il Raggismo che crea le forme dal gioco dei riflessi luminosi prodotti dagli oggetti. I raggi dei quadri catturano l’attenzione mettendo in secondo piano la riconoscibilità di ciò che viene rappresentato muovendosi in questo modo nella direzione di una progressiva astrazione. In comune con il Futurismo c’è l’idea del movimento, manca invece l’indiscussa esaltazione del progresso e della modernità di cui i movimenti russi d’avanguardia vedono i limiti. Dall’energia e dagli studi sulla trasformazione della materia Goncharova soprattutto procede, in maniera originale, nel suo percorso verso l’astrazione. Arturo Galansino, Direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi ha spiegato sempre durante la conferenza stampa come questa mostra su Natalia sia dopo Marina Abramovic una seconda occasione per celebrare in questo palazzo un’altra donna che ha unito in modo anticonformista e spesso provocatorio culture diverse. L’esposizione che si apre al pubblico il 28 settembre a Firenze ha avuto prima luogo a Londra e dopo sarà ospitata a Helsinki in Finlandia con l’obiettivo di fare conoscere un’artista ancora poco nota per il suoi meriti nella storia dell’arte e nel mondo della cultura.

Patrizia Lazzarin, 28 settembre 2019

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Dentro la pancia della Balena

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Il “racconto” di Moby Dick è  la lavagna magnetica dove si leggono il  patrimonio di idee di un artista originale che  ha scelto come medium per esprimersi la cancellazione.  Sembra un paradosso il leit motiv  da cui nasce l’arte di Emilio Isgrò, pittore, poeta, ma anche romanziere, drammaturgo e regista in mostra alla Fondazione Cini con un’antologica delle sue opere che vanno dagli anni Sessanta  ad oggi e che rimarrà aperta  fino al 24 novembre. Libri, volumi, codici, carte geografiche, chiazze di colore rosso, giallo, verde, mappamondi con poche parole perché il resto è stato tutto cancellato o coperto. Secoli di saperi rivisitati con mente e arte  nuova. Perché?  Da dove  inizia, forse dentro la pancia della balena, metafora di altri spazi, e dove ci conduce questo viaggio? Grazie al progetto del critico d’arte Germano Celant, che ha curato anche il catalogo,  le sale dell’Ala Napoleonica della Fondazione Cini a Venezia  sono state dotate per la mostra di Emilio Isgrò,  di alte pareti diagonali e trasversali dove sono state appese le opere dell’artista. Ognuna di esse provoca un vorticare dei nostri neuroni diventando  punto di partenza per una nuova avventura della mente.  Osserviamo una delle  creazioni che incontriamo all’inizio della prima sala, Weltanschauung: una monumentale carta geografica dove non si leggono più i nomi di  città, regioni e nazioni. Sicuramente mentre rimaniamo stupiti ci  poniamo  degli interrogativi. Nell’enciclopedia della Treccani, che è anche la casa editrice che cura il catalogo della mostra, leggiamo una definizione del termine Weltanschauung: concezione della vita, modo in cui singoli individui o gruppi sociali considerano l’esistenza e i fini del mondo, e la posizione dell’uomo in esso. Proviamo a riflettere: a quale idea del mondo si avvicina questa carta geografica? Tranne le didascalie  non troviamo, se escludiamo l’ingresso della mostra,  pannelli illustrativi  delle opere e allora dobbiamo sforzarsi  a ricostruire i significati di oggetti e di libri noti a cui  sono state cancellate la maggior parte delle parole che li identificano. Le opere di Emilio Isgrò diventano un punto di partenza per un pensiero diverso …, per una rivisitazione del nostro sapere e per una concezione non dogmatica ma critica di quanto conosciamo da tempo. E’ una sfida a pensare di più, a rifuggire gli automatismi psichici e certamente per noi individui, in prossimità del  2020, impegnati a lavorare su piattaforme digitali buona parte della nostra giornata è un suggerimento per riconsiderare il concetto stesso di Umanità. Isgrò,  nato a Barcellona di Sicilia, è uno dei nomi più noti a livello internazionale. Il suo linguaggio estremamente curioso ha segnato le tappe della seconde Avanguardie degli anni Sessanta. Accanto alle numerose partecipazioni alle Biennali di Venezia dagli anni Settanta agli anni Novanta, si può citare il primo premio  ottenuto nel 1977 alla Biennale di San Paolo. Le sue sono creazioni che  già nei loro titoli diventano un manifesto di poetica e/o di critica a volte ironica della nostra contemporaneità. Isgro nel 2011 costruisce per l’Università Luigi Bocconi l’opera Cancellazione del debito pubblico, un consiglio pregnante per le nuove matricole e laureandi in Economia in un istituto universitario che è stato il primo in Italia ad offrire la possibilità di laurearsi in questo indirizzo.  Il Cristo Cancellatore del 1969 appartiene insieme ad altre opere alla collezione permanente del Centre George Pompidou di Parigi. E ancora il nome di un’altra sua creazione artistica famosa Fondamenta per un’arte civile alla Triennale di Milano nel 2017, in cui la parola Fondamenta ci riporta anche a Venezia che vive da due millenni in un magico equilibrio fra acqua e terra e indica armonia che vuole essere anche suggerimento delicato  di una pace sociale per lo sviluppo delle arti. Ecco poi quei nomi sulle chiazze di colore rosso: Rosa Luxemburg, Fidel Castro, Che Guevara, Engel, Marx,  ognuno di essi impegnati  in azioni su quel colore, tranne forse Che Guevara che sembra subire l’azione di cadere. Luoghi ma soprattutto persone che hanno segnato intere epoche. Pensiamo al mito di Che Guevara, l’eroe boliviano che è entrato nell’immaginario occidentale. Un Occidente e in particolare l’Italia  che  negli anni Sessanta e Settanta si prodigano  nel creare  un ponte di solidarietà  verso le popolazioni dell’America Latina. E poi  le negazioni: Non sono Giotto, Non sono San Giorgio che uccide il drago, quel drago che si legge a malapena perché in parte nascosto dalla righe che lo cancellano. Alla fine del percorso espositivo compare una grande vela che sembra veleggiare verso nuovi lidi che non sono quelli romantici dell’isola di Citera del pittore francese Antoine Watteau,  ma sono ricchi di una nuova luce di conoscenza. Poche parole in greco sembrano fornire la soluzione dell’enigma di questa tela intitolata DNA. In essa è scritto  il primo verso del poema di Omero: l’Odissea che è anche un invito all’oracolo dentro di noi   e dice: parlami Musa dell’uomo.  I vocaboli  di Isgrò di idiomi differenti: greco, inglese ... Le parole sono chiavi. Forse nella loro etimologia, nella storia della loro origine un’opportunità per interrogarci sul significato delle tradizioni del mondo in cui viviamo. Da segnalare nell’elaborazione del progetto scientifico e per la collaborazione l’Archivio Emilio Isgrò.

Patrizia Lazzarin, 15 settembre 2019         

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