Sangue sulle presidenziali americane

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Difficilissimo capire chi è veramente pericoloso quando si esaminano delle semplici intenzioni e non crimini già commessi. Ricette semplicistiche (oltre che illegali e controproducenti) come quella di Donald Trump che vorrebbe proibire l’ingresso negli Usa ai musulmani, rivelano tutta la loro inconsistenza in un caso come quello del massacro perpetrato da Omar Mateen che era a tutti gli effetti un cittadino americano: nato nel Paese, lavorava nel campi della sicurezza e aveva tutte le licenze necessarie per detenere le armi con le quali ha fatto strage. L'editoriale di Massimo Gaggi sul Corriere della Sera.

Presidenziali Usa, è allarme terrorismo

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I rimestatori di torbidi

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Di recente, il ministro degli esteri saudita, Adel el Jubeir, ha affermato a Vienna che se il governo siriano non rispetta gli sforzi per giungere a una tregua bisognerà ricorrere a un “piano B”, piano che prevederebbe un più massiccio intervento anche saudita in Siria. Voci e dichiarazioni sempre più insistenti confermano che le sue minacce sono condivise dallo stesso governo americano, che ha recentemente inviato altre centinaia di uomini in Siria e progetta di fornire armi più potenti ai ribelli.    

 

       Balzerà subito agli occhi un fatto significativo: atteggiamenti e dichiarazioni un tempo tipici delle Grandi Potenze sono adesso espressi da quella che di fatto è una comparsa dell’ultim’ora nell’annosa storia del Vicino Oriente. Almeno nominalmente, fino alla prima guerra mondiale i territori della Penisola Araba erano sotto la sovranità ottomana. La monarchia saudita nacque nel 1932 col beneplacito della Gran Bretagna e ancora fino agli anni precedenti la seconda guerra mondiale viveva del commercio dei datteri e dei cammelli.

 

       La disinvoltura con cui il summenzionato ministro degli esteri si è ritenuto in grado di far sentire la sua voce in modo così severo odora inconfondibilmente di petrodollari. Tutti sanno che l’Arabia Saudita possiede le maggiori riserve petrolifere conosciute ed è il secondo più grande produttore di petrolio al mondo dopo gli USA. Basta dunque solo la potenza economica per inserirsi nei giochi della politica mondiale? Vedremo più avanti che non è esattamente così.

 

       Ora, sull’oggetto delle dichiarazioni, e cioè, sul dramma a puntate siriano si potrebbero dire parecchie cose, alcune delle quali sono state già rimarcate dallo scrivente, ma che rimangono sempre attuali e senza risposte soddisfacenti. Per cui, rimane la domanda: per quale motivo tanto accanimento verso il governo di Bashir Assad, accusato di essere dittatoriale e poco democratico, quando sempre i ragazzi sanno che un regime come appunto quello rappresentato dal ministro saudita supera di anni luce qualsiasi autocrazia siriana ed è la quintessenza del nepotismo familiare più esteso? Anche la facile accusa che in Siria una minoranza alawita (sciita) controlla un paese a maggioranza wahabita (sunnita) non rappresenta un motivo sostenibile, visto che proprio nella patria del suddetto ministro una famiglia controlla e possiede addirittura un intero Paese con un regime fra i più oscurantisti del mondo, senza nessun tipo di libertà religiose o politiche, un regime senza parlamenti, dove le donne continuano ad essere abitanti di grado inferiore – se fossero  infatti cittadini, potrebbero votare - e dove ancora si possono decapitare persone per apostasia o per supposte stregonerie (vedi a quest’ultimo proposito l’esecuzione del farmacista egiziano Mustafa Ibrahim nel 2007, di Muri Bin Ali BIin Issa al-Asiri nel 2012 e di Abdul Hamid Bin Musta al-Fakki nel 2011). Certo, cose simili le facevano anche gli Europei e gli Americani (vedi Salem), ma fortunatamente sono passati svariati secoli, il che dimostra che uno degli alleati di ferro degli USA vive ancora nel Medio Evo più buio.

 

       Questo curioso anacronismo feudale, praticamente senz’acqua, a parte quella del mare poi desalinizzata, con 8 milioni di lavoratori stranieri che sostanzialmente fanno funzionare il Paese, senza altre attività produttive al di fuori del petrolio, proprietario di immense quantità di riserve monetarie dagli impieghi speculativi ma per questo anche destabilizzatrici dell’economia mondiale, accanito importatore di armi, detentore geografico dei luoghi sacri dell’Islàm e paladino delle sue interpretazioni più restrittive e inflessibili, insomma, questo Paese, l’Arabia Saudita, assomiglia per molti aspetti a un gigante con i piedi d’argilla, la cui esistenza e sopravvivenza sono state fin qui garantite non tanto dalle sue enormi ricchezze ma dal rapporto privilegiato e strettissimo (e quindi a dir poco scandaloso) con i democratici Stati Uniti in particolare, che non a caso ne sono anche i principali fornitori d’armi e alleati.    Detto ciò, mentre le ragioni apparenti sarebbero la solidarietà con la ancora non ben definita “opposizione” siriana (di fede sunnita, mentre il governo è alawita) - questo sarebbe il motivo ufficiale -  in realtà, la vera ragione è l’inasprirsi della  rivalità con l’Iràn, non solo culla dell’Islàm sciita ma soprattutto potenza con ambizioni geo-politiche nel Golfo Persico. Non è dunque un caso che anche gli sciiti dello Yemen siano diventati bersaglio di attacchi sauditi.

 

        Quale che sia la ragione, il risultato è che anche l’esponente di un regime feudal-familiare si unisce al coro dei faccendieri e dei rimestatori di torbidi che da anni sconvolgono la Siria. Ovviamente, qui qualcuno potrebbe ironizzare e sostenere che in fondo fra l’Iràn shiita e l’Arabia saudita wahabita vi sono solo contrapposizioni teologiche e che entrambe sono caratterizzate dallo strapotere di un élite religiosa. In realtà, le differenze esistono e sono profonde. La più significativa è che l’Iràn, al contrario del vicino arabo, è l’erede di un’antica e ricca civiltà, il cui passato precede anche quello di Roma antica. Il tempo mostrerà che alla fine queste cose contano.

 

        Ma in fondo i veri iniziatori del radicalizzarsi della situazione siriana sono stati gli USA, che fin dal 2011 appoggiarono e armarono i locali gruppi di opposizione, così come in Egitto appoggiarono inizialmente Morsi e in Libia gli oppositori di Gheddafi. Qualsiasi regista di Hollywood noterebbe che si tratta di un canovaccio piuttosto logoro e che può continuare ad essere sfruttato solo grazie al generale intorpidimento delle intelligenze. Ciò che sorprende è che, nonostante i plateali fallimenti dei progetti di democratizzazione e pacificazioni di Iràq e Libia, esattamente la stessa cosa sta ora avvenendo per la Siria. Gli errori del passato non sono serviti a nulla.

 

        Fra i vari rimestatori che mettono mano nel pasticcio, ognuno a suo modo, esistono naturalmente anche quelli di notizie. Quello che molto probabilmente è oggi il canale televisivo più agguerrito e sofisticato al mondo e con un’insuperata rete di corrispondenti locali, la BBC, vera e unica erede dell’Impero britannico, sta da anni perseguendo una martellante campagna anti-governo siriano e pro-opposizione. La decana dei corrispondenti esteri, la canadese Lise Doucet, ha fatto di questo martellamento quasi giornaliero uno dei suoi fiori all’occhiello. Anche a costei bisognerebbe dunque chiedere chi è l’opposizione siriana e di che stoffa è fatta e quali reali garanzie esistono che essa non sia della stessa stoffa della famigerata opposizione libica, che dopo aver fatto fuori il patetico Colonnello (che perlomeno garantiva un po’ di ordine), adesso si sta dilaniando in una feroce rissa intestina, aiutata in questo da infiltrazioni IS e al-Caida. Quanto dunque risulta oggi sempre più prematuro e velleitario il trionfalismo con cui il primo ministro inglese Cameron affermava nel settembre 2011 a Bengasi che “it is great to be here in free Benghazi, and free Libya.”! I fatti avrebbero impietosamente contraddetto le sue affermazioni allo stesso modo di quanto avvenne per quelle di George Bush sull’Iràq o di Tony Blair sulla liberazione del Kosovo.

 

       Mentre quindi il martellamento mediatico siriano ha proseguito per anni, anche con melodrammatiche riprese in loco, non risulta che siano state esplorate con servizi ad hoc le misteriose ma sicuramente affollatissime vie dei rifornimenti di armi nella regione. Chiunque avrà notato che la petulanza e solerzia degli inviati speciali e corrispondenti esteri di solito evita di occuparsi di questo imbarazzante (e verosimilmente pericoloso) argomento: chi produce armi? Chi sono gli intermediari? Quali sono i canali? Quali le somme e le quantità in ballo? In mancanza di armi, tutti i belligeranti in Siria, nonché i guerriglieri e militari di mezzo mondo, sarebbero al massimo costretti a battersi all’arma bianca, tipo di duello ormai in disuso e non molto ambìto, se non da qualche Rambo.

 

       Per cui, a parte il noto scenario colpevolizzante dell’Iràn e della Russia che sostengono la Siria, come si sostiene l’opposizione? Cui prodest? E soprattutto, “chi” sono costoro? Dato il supporto prestato ai cosiddetti “ribelli” siriani dai rigoristi religiosi della Penisola, sarebbe alquanto irrealistico credere che le inclinazioni di fondo dei primi siano molto diverse da quelle dei loro sostenitori. Ineffabile complemento emotivo e implicita dimostrazione delle malvagità governative di Damasco sono le folle di fuggiaschi che cercano rifugio in Europa e in cui le infiltrazioni terroristiche non sono certo un’ipotesi fantasiosa. Del resto, chi non fuggirebbe i bombardamenti ormai incrociati di tutti contendenti in lizza? Con subdola abilità, la destabilizzazione della Siria – fenomeno ben più articolato e onnicomprensivo dell’opposizione che lotta col regime - finisce per passare inosservata grazie al flusso emigratorio causato non dal regime al potere ma dalle devastazioni delle parti in causa.

 

       Le derive lontane di questo progetto – la pressione ai confine sud dell’Europa - sono sotto gli occhi di tutti, ma incredibilmente se ne percepiscono solo gli aspetti melodrammatici, così come si percepiscono quelli delle miriadi di barconi che partono dalle coste libiche e turche. Anche qui, complici solerti registi di spettacoli mediatici, si trascura il fatto che è in corso un’esportazione di tragedie umane senza che nessuno intervenga a impedirla alla fonte. E’ semplicemente ridicolo e vergognoso che nazioni che si accaniscono a potenziare le loro flotte non abbiano concertato una massiccia e regolare attività di perlustrazione e presidio del Mediterraneo in modo da dissuadere i faccendieri e industriali della nuova tratta degli schiavi. In tal modo, innumerevoli benpensanti e uomini politici che evidentemente non hanno il senso del futuro si preoccupano solo delle quote e di come e dove accogliere gli emigranti, incuranti del fatto che ben presto i cittadini di quei luoghi vedranno le loro periferie invase da profughi segregati, donne velate, moschee improvvisate e mullah.

 

      Imprevedibile esportazione di disordini, i cui soggetti sono ad un tempo vittime e inevitabilmente anche propagatori di nuovi disordini.

 

      Poiché analogo martellamento è stato propinato urbi et orbi dalla BBC anche a proposito delle questioni ucraine e della secessione della Crimea ed è noto l’allineamento di posizioni di Londra e Washington su molte questioni strategiche, non è azzardato considerare anche il suddetto martellamento  come parte di una pianificata strategia  d’impressioni negative e denigratorie concertata con oltre Atlantico. Un elemento accomuna entrambe le suddette ostinazioni mediatiche: l’avversario incriminato è sempre lo stesso, e cioè, la Russia. Non l’Unione Sovietica, che ormai non esiste, si badi bene, ma la Russia. Non quindi un regime dall’ideologia tendenzialmente destabilizzante a livello mondiale, ma solo l’imborghesita Russia come zona geografica e come potenza regionale, al punto che, con sfacciate estensioni territoriali la Dottrina Monroe, che gli ingenui avrebbero creduto fosse solo valida per il Sud America, è stata trasferita addirittura sotto i balconi di Mosca. Detto fra parentesi, proprio avendo in mente quella stantìa dottrina, il disinteresse americano per i disastrosi effetti di regimi come quello di Maduro in Venezuela appare perlomeno misterioso. Verosimilmente, qualcuna delle teorie cospirative oggi così alla moda potrà attribuire agli intrighi di servizi segreti l’attuale catastrofica situazione di quel paese ma, come tutti i facili manicheismi, dimenticherebbe che già da sola la demagogia populista di partiti e presidenti improvvisati può produrre disastri.

 

        Ritornando alla Russia, parlando di fronte a un comitato difesa della Camera dei Rappresentanti nel febbraio di quest’anno, l’ex comandante supremo della Nato, generale Philip Breedlove, ha affermato che “la Russia ha scelto di essere un avversario e costituisce una minaccia esistenziale di lungo termine per gli Stati Uniti”. A chi non disdegna frequentare, per diletto e istruzione, il filone di fantascienza politica del moderno cinema americano e conosce, per esempio, la fortunata trilogia dedicata alle vicende di Jason Bourne, le affermazioni del generale americano suoneranno stranamente familiari. Anche lì i solerti funzionari dei servizi segreti parlano a più riprese di “minacce alla sicurezza nazionale”. In realtà, come è stato acutamente osservato, “L’esagerazione della vulnerabilità americana – nel suo senso base di vulnerabilità del territorio nazionale ad attacchi provenienti dall’esterno – è stata un tratto ricorrente nei dibattiti  di politica estera americana per almeno cento anni.”1

 

     Insomma, lo spettro delle minacce dall’esterno non è nuovo e fa parte di un complesso coltivato nel tempo. Il fatto di essere antico non aiuta comunque a capire come e in che modo la Russia abbia fatto la scelta di essere un avversario - a meno che essa non sia il referendum della Crimea di ritornare in braccio alla santa madre Russia - e neanche come possa essere una minaccia esistenziale per gli USA una nazione che sta a circa 8.000 chilometri di distanza e non a ridosso delle coste americane, come è invece la NATO ai confini russi. Il fatto che gli originari 12 membri fondatori dell’alleanza siano oggi 28, e diventeranno 29 quando vi entrerà a pieno titolo anche il Montenegro, suggerisce che USA e nazioni europee continuano a scambiare Putin per Stalin. D’altro canto, anche Georgia, Bosnia e Herzegovina e Macedonia hanno chiesto di poter entrare nell’alleanza militare.

 

         Per quanto di solito ignorate o dimenticata, alcune significative caratteristiche strutturali della NATO rimandano alle ineffabili cause della sua ostinata sopravvivenza. I suoi membri, ad esclusione del Canada e degli USA e della Turchia, sono Stati europei. Già la presenza di queste eccezioni, fra l’altro così profondamente diverse fra di loro, suona come una nota stonata. In generale, a parte le suddette eccezioni e alcuni Stati membri dell’Unione Europea (Austria, Cipro, Finlandia, Malta e Svezia), che non sono nella NATO, tutti gli altri sono membri di entrambe le organizzazioni. In altre parole, NATO e Unione Europea sostanzialmente coincidono. Tenuto contro della presenza delle tre suddette eccezioni, la coincidenza significa solo una cosa: dal punto di vista strategico, l’Unione Europea è di fatto uno strumento della NATO, e quest’ultima è a sua volta uno strumento a distanza degli USA, ancora essenzialmente diretto a contenere, a quanto sembra ad aeternum, gli eredi dell’ex- Unione Sovietica.

 

         Mentre quindi l’accerchiamento della Russia non è stato un fenomeno momentaneo o casuale, quest’ultima, a cui sono stati progressivamente sottratti tutti i precedenti cuscinetti geografici, starebbe cercando, sempre secondo il sopra menzionato generale, “di riconquistare un ruolo da protagonista nello scacchiere mondiale.” Questo dunque sarebbe il peccato originale della Russia: quello di cercare di avere un ruolo da protagonista

 

        Le pagine dei libri di storia abbondano di catastrofi provocate dallo zelo di abili demagoghi e generali bellicosi. Naturalmente, qui il patriottismo c’entra ben poco e l’elemento più esilarante rimane la pretesa di sentirsi minacciati a 8.000 chilometri di distanza. Anche questa nozione è stata più volte ribadita dallo scrivente, ma anch’essa non sarà mai troppo sottolineata: queste dichiarazioni sono frutto degli strabismi e di confusioni ottiche - il fantasma bolscevico - o il banale mascheramento di un’imperterrita volontà di supremazia militare a tutti i costi? In realtà, i principi essenziali di una grande strategia imperiale americana risalgono a prima della seconda guerra mondiale, quando una ristretta cerchia di pianificatori e analisti giunse alla conclusione che nel mondo posto-bellico gli USA avrebbero dovuto cercare di detenere “un indisputato potere” in modo da assicurare “la limitazione di qualsiasi esercizio di sovranità da parte di Stati che avrebbero potuto interferire con i suoi disegni globali, e cioè: “una politica integrata mirante alla realizzazione di una supremazia militare ed economica degli USA.” Il progetto di quegli analisti continua ad essere perseguito alla lettera a distanza di 75 anni dalla sua formulazione.

 

        Mentre le ansie dell’ex- comandante in capo della NATO sono quindi, da ligio militare americano, almeno teoricamente coerenti, quelle analoghe espresse di recente da Jens Stoltenberg, segretario Generale della NATO e norvegese di nazionalità, lo sono un po’ meno. “Le azioni russe in Ucraina” - egli ha sostenuto in occasione della sostituzione del Generale Breedlove con il Generale Scaparrotti – “hanno modificato il nostro panorama di sicurezza”. Già, ma nessuno dei due ha avuto l’onestà di dire che di fatto la NATO si sta accampando sotto i balconi del Cremlino e che dietro i disinteressati sostegni all’Ucraina di Poroshenko vi è il meno nobile disegno di sfruttare la situazione per giustificare ulteriori dispiegamenti di forze attorno alla Russia. Del resto, la NATO ha continuato a crescere e ad espandersi ben prima che iniziassero le tensioni fra Russia e Ucraina.

 

      Che direbbero a Washington, se i Russi, in mancanza di postazioni missilistiche o basi terrestri, tenessero portaerei e sottomarini al largo del Maryland e della Virginia? La domanda è banale, e la risposta anche. Meno banale e incomprensibile è la docile passività con cui un intero continente continua a sposare e sostenere strategie che sono chiaramente di un altro, e non le sue, salvo non ammettere una banale verità, e cioè, che l’Europa non potrebbe comunque, anche se lo volesse, avere delle sue strategie, a meno di non tagliare l’insistente cordone ombelicale americano.

 

      L’arroganza delle militaresche dichiarazioni sopra citate non è tuttavia necessariamente prova di bieche cospirazioni o di gratuite cattiverie né il denunciarle corrisponde a innamoramenti di parte, come un McCarthy si sarebbe precipitato a sostenere. In realtà,  entrambe sono frutto di situazioni più grandi degli individui che le hanno formulate e che fanno parte di un fatale percorso inclinato di eventi. Il segretario generale della NATO è espressione di un’Europa in buona parte evirata sotto il profilo militare, politicamente divisa e amministrata da un gigantesco e farraginoso organismo burocratico, ogni giorno sempre più frazionata in economicamente precarie e minuscole entità di tipo quasi ottocentesco  (come non ricordare qui l’esotica Zenda degli omonimi films?) e insidiata da smanie separatiste (Brexit e quant’altro) e in ogni caso da lunga data (1945) protettorato neanche tanto larvato degli USA, così come il Giappone, nonostante le visite di amicizia, continua ad essere una zona occupata, anche se fisicamente Okinawa è sperduta nel Mare Cinese Orientale  e distante millecinquecento chilometri da Tokyo. Non sarà una coincidenza che vi siano ancora stazionati ben 50.000 soldati americani e 40.000 lo siano in in Germania: a che titolo? La visita di Barack Obama a Hiroshima, il suo discorso imbevuto di ovvie esortazioni alla comprensione fra i popoli e al disarmo nucleare ma senza un briciolo di scuse per la bomba a suo tempo scagliata proprio dagli USA e fra l’altro senza neanche nominarla – i fantasmi sempre imbarazzano e vanno esorcizzati – sembra confermare che il passato non si tocca, come non si tocca l’esercito di stanza a Okinawa.

 

          I suddetti numeri diventano ancora più significativi e sintomatici, se si pensa che in Afghanistan, zona di guerriglia e quindi con atti di ostilità, ve ne sono 10.000. Anche le due ovvie spiegazioni - presidio militare anti-russo in Europa e presidio militare nel Pacifico – non diminuiscono l’anacronismo e lo scenario di protettorato militare.

 

         In quanto al patriotico generale americano, egli è in fondo l’espressione di una sorta di schizofrenia che affligge la politica americana fin quasi dai suoi albori. E se il termine psichiatrico spaventa o appare offensivo, lo si può sostituire con quelli di doppia morale o di anima conflittuale. Il risultato non cambia, ma questa caratteristica esige una piccola digressione, dalla quale dovrebbe poi apparire fino a che punto le dichiarazioni del ministro saudita a Vienna, le truppe stazionate a Okinawa e le poco convincenti preoccupazioni di un generale sulle presunte minacce esistenziali siano collegate fra loro e tali da rendere patetica l’indifferenza o abulìa con cui molti assistono al modo con cui certi eventi cruciali sono mistificati e edulcorati ad arte.

 

        Si sa che l’inclinazione umana alla fabbricazione dei miti è inesauribile.  Loro immancabile caratteristica è l’abbellimento degli eventi e la loro strisciante deformazione o addirittura travestimento. Quello di un’America incondizionatamente paladina delle libertà e dei diritti e nemica di ogni tirannia ha, come noto, origine nella Dichiarazione d’indipendenza americana e nella redazione di un documento, la Costituzione, che generazioni di registi cinematografici non hanno cessato di trasformare in una specie di sacro graal che ispirerebbe da allora e nutrirebbe la vita e la politica di quel Paese. Nonostante gli scenari misticheggianti, vale la pena di notare che, anche se la maggior parte dei 55 firmatari di quel documento così tecnico e asettico avevano studiato leggi, molti di essi esercitavano in realtà professioni del tutto prosaiche e affaristiche. Molti erano infatti mercanti, speculatori terrieri o di titoli, mentre vi erano anche grandi proprietari di schiavi, inclusi Washington e Franklin, che però dopo li affrancò tutti. I discendenti dei “Padri pellegrini” del mitico Mayflower univano dunque al loro rigore protestante anche uno sviluppato senso degli affari.

 

       Il profilo dei firmatari di quel famigerato documento non ci interesserebbero molto, se non fosse che da allora l’ideologia portante dei governi americani di ogni denominazione, memore dell’ancestrale ribellione nei confronti della Gran Bretagna, è stata la parità dei diritti, la libertà di espressione e il principio dell’auto-determinazione, che si trattasse di comunità o interi popoli. Di fatto, questi nobili criteri furono clamorosamente violati quasi subito, a cominciare dall’impedita auto-determinazione degli Stati del Sud e dall’inesorabile decimazione della nazione indiana per arrivare a vere e proprie disinvolte (e non richieste) occupazioni territoriali come quelle delle Hawaii, Guam, Filippine e Puertorico sul finire del XIX secolo.

 

        Curiosamente, l’immaginario collettivo americano, che emerge nel cinema almeno da Griffith in poi, ha sempre ignorato queste tendenze e le ha riprodotte al contrario. Così, da Intolerance fino a quel retorico ma potente film che sono I dieci comandamenti di De Mille, per non parlare di tutti i film della propaganda bellica degli anni ’40 – ’60, normalmente gli imperi sono dipinti come entità malvagie e tiranniche (quello di Roma incluso) e i ribelli come eroi e patrioti degni di miglior sorte e che è doveroso sostenere. Va qui sottolineato che, se a più riprese utilizziamo paragoni cinematografici, è perché, contrariamente alla retorica e falsità di tante dichiarazioni politiche o pretestuosamente ideologiche, il cinema ha finito per diventare un’attendibile cartina di tornasole e sintomo di certe inquietudini e auto-identificazioni della mentalità collettiva.

 

         Ovvero, le ribellioni altrui sono tendenzialmente legittime (salvo alcune specifiche eccezioni) e vanno quindi appoggiate, se non anche attivamente stimolate. In quanto alla parità dei diritti e alla mai estinta tensione fra bianchi e negri, un dato statistico suggerisce che la giustizia - anche quella sommaria dei linciaggi - fu particolarmente dura con i negri e molto meno con i bianchi. Su un totale di 5.112 individui linciati fino al 1937, per esempio, 3657 erano negri e il resto bianchi. I recenti ripetuti episodi di violenza della polizia nei confronti d’individui negri e gli eccidi di massa così frequenti negli USA confermano che questo Paese non ha ancora risolto le sue tensioni razziali e che le pulsioni aggressive d’individui isolati sembrano curiosamente speculari a quelle della sua politica estera. Poiché entrambi i fenomeni sono sconosciuti o di gran lunga più deboli in altre nazioni europee – Hitler, Mussolini e Stalin sono defunti da svariati decenni - inevitabile giungere alla conclusione che esistano alcuni germi che li favoriscono. Del resto, neanche le tradizionali monarchie europee hanno conosciuto in tempi moderni l’inquietante frequenza degli assassinii presidenziali (veri e propri regicidi) americani, cosa che spiega le ossessive misure di sicurezza che circondano la persona dei presidenti americani e i loro spostamenti. 

 

       A confermare questi ultimi aspetti contradditori, contribuisce il fatto che, dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, ogni movimento rivoluzionario e ogni tentativo di auto-determinazione colorata di rosso (comunista) sono stati in realtà sempre aspramente osteggiati con armi alla mano. Cioè, vi sono rivoluzioni che vanno combattute – il Sud America insegna - così come vi sono secessioni che vanno represse. E’ quindi potuto accadere che quella della Crimea sia stata considerate illegittima, mentre tutte quelle dei lillipuziani Stati balcanici, no.

 

      Dato il cupo fanatismo colorato di rosso di certi regimi sud-orientali nei decenni successivi alla seconda Guerra mondiale, la diffidenza concettuale nei loro confronti - ma non le avventure militari  - sarebbe ineccepibile, se non fossero state proprio l’insipienza o cinismo dei governanti americani del tempo a permettere all’Unione Sovietica, madre e culla dei messianismi comunisti, non solo di sopravvivere all’invasione tedesca ma anche di dilagare in Europa grazie agli immensi aiuti americani. La successiva guerra fredda fu uno dei più surreali esempi d’inondazioni causate proprio da chi aveva distrattamente o furbescamente aperto i rubinetti per innaffiare meglio. Il risultato paradossale fu che Stalin riuscì a incassare ed ereditare in Europa orientale i blitz hitleriani e bisognò attendere la fine degli anni ’80 per assistere al tramonto di un’ideologia comunista ormai anchilosata e decrepita da decenni. Cosa incassò? Se si guarda con attenzione, più che dei territori invasi o da sfruttare economicamente, Stalin incassò dei cuscinetti geografici. Bisognerà fargli credito e pensare che, a parte la disinvolta ferocia e durezza con cui amministrava le varie sedicenti e forzosamente sovietizzate “repubbliche” al di là degli Urali, non gli sfuggiva il fatto che gli Americani sarebbero rimasti a lungo in Europa e qualcosa andava fatto per contrastarli e guardarsi le spalle. L’esperienza hitleriana gli aveva insegnato che i cuscinetti servono a proteggere i confini. Del resto, i comunismi europei furono paradossalmente auto-prodotti dall’interno. La vera occupazione, esclusa la Polonia, fu di tipo infettivo e ideologico, e non militare.    

 

        Ironicamente, la maggior parte delle crociate anti-comuniste americane nel sud-est asiatico si risolsero in disfatte e vergognosi ritiri, mentre quelle medio-orientali e in nord-Africa, mirate all’instaurazione di governi legittimi sono state coronate da traballanti e incompiuti successi militari nonché da immani distruzioni e catastrofi sociali. Questo tipo di crociate, assieme all’erratico vagare dei petrodollari arabi dal 1973 in poi e la concomitante reviviscenza del fondamentalismo islamico sono i tre principali fattori mondiali destabilizzanti dalla seconda guerra mondiale in poi, oltre al già menzionato dilagare dell’ideologia comunista. Che essa meritasse di essere presa con le pinze fin dagli inizi, non solo dagli abbienti ma semplicemente dalle persone di buon senso, lo dimostra il semplice fatto che un borghese (Marx), che non fu mai un operaio o minatore e verosimilmente non visitò mai una fabbrica inglese, pretendeva di parlare in nome dei proletari. Evidentemente, i suoi innumerevoli adepti non guardavano molto per il sottile. In quanto alla reviviscenza del massimalismo islamico, solo ai presbiti sfuggirà l’intima relazione esistente fra  l’improvviso arricchimento di alcuni Stati produttori di petrolio e il dilagare di quest’ultimo.

 

        Ma dietro tutti questi fattori ve ne è un altro che probabilmente li esacerba ancora di più. La scomparsa delle Grandi Potenze europee, l’emasculazione militare del Giappone e la contrazione geografica della Russia attuale rispetto alle sue versioni zarista e sovietica hanno praticamente lasciato gli USA come unica super-potenza, tallonata a oriente  da una Cina paziente e che per il momento utilizza come arma strategica quella dell’invasione commerciale. L’incauto e solitario ruolo che gli USA si sono addossati dalla fine della seconda guerra mondiale in poi presenta due svantaggi: innanzitutto, è in flagrante contraddizione col pluralismo democratico invocato dalle loro origini costituzionali; secondo, l’assenza di co-protagonisti stimola e rinforza la convinzione di tutti quegli agenti dell’establishment americano a cui tale posizione di supremazia assicura vantaggi economici, di ruolo e di potere.

 

         Se ora ritorniamo alle minacce del ministro saudita e a chi o cosa costui rappresenta, ci stupiamo meno della contraddizione fra l’ideologia americana della libertà e dei diritti e un regime così poco tollerante e democratico di cui essi sono alleati. Lo stesso potrebbe dirsi dell’alleanza strategica con altri Stati della Penisola come il Qatar e l’Oman ma anche col Pakistan, Stati anch’essi che non brillano – ma si tratta di un cortese eufemismo - per l’applicazione di principi democratici e di tolleranza religiosa.

 

        Certe palesi contraddizioni nell’immagine e negli atteggiamenti degli USA hanno dunque delle origini antiche e stratificate e sono persistenti. Nel corso del tempo, grazie anche a imprevedibili sviluppi e opportunità, fatalmente esse si sono accentuate. Checché ne pensasse Parmenide, il suo più realista collega Eraclito sosteneva che le cose non sono ma diventano. Man mano che gli USA sono usciti dal loro isolamento geografico e hanno preso coscienza delle loro enormi potenzialità economico-militari, e più la tentazione della supremazia, ha avuto buon gioco sulla moderazione di chi ammette anche un salutare gioco delle parti e non solo il proprio monologo.

 

         Vale qui la pena di osservare come sia tipico di molti adolescenti o individui tendenzialmente egocentrici ambire a essere dei capi-gruppo. In questo caso, la nozione di adolescenza non ha nessuna connotazione derisoria, ma descrive semplicemente uno stadio esuberante e volitivo di crescita non ancora opportunamente moderato dall’esperienza e dalle lezioni degli anni. Individui e nazioni non si sottraggono a questi meccanismi così naturali e osservabili. Ora, queste tentazioni ad assumere un ruolo di predominio furono stimolate o risvegliate da eventi distanti ed estranei alla vita di tutti i giorni degli Americani in particolare del periodo precedente la seconda guerra mondiale, periodo che costituisce un essenziale spartiacque senza del quale è impossibile capire lo sviluppo degli eventi successivi e la stessa situazione mondiale attuale.

 

       E’ un fatto ormai acquisito che l’America uscì realmente dalla grande depressione solo con l’entrata in guerra e che Roosevelt e l’establishment economico-politico-militare, che in particolare percepiva le immense opportunità della situazione, riuscirono a guadagnarsi il consenso di un elettorato restio e recalcitrante grazie a un regalo giapponese: l’attacco di Pearl Harbor nel 1941. La disparità di potenziale produttivo e quindi anche militare fra i due Paesi era tale che anche un superficiale esame avrebbe potuto mostrare che svegliare e provocare l’orso americano poteva provocare micidiali conseguenze per il Giappone. Di fatto, quell’esame non fu effettuato o non fu preso in considerazione dal governo di Hideki Tojo, e poiché l’arroganza del potere ha la caratteristica di non ascoltare voci moderate o prudenti quell’attacco fu lanciato. Il suo risultato più distruttivo fu di galvanizzare un’intera nazione, consentendo così ai governanti americani di pianificare e realizzare la più spettacolare e gigantesca macchina militare di tutti i tempi. I dati facilmente reperibili circa le rispettive produzioni belliche mostrano un divario di quantità a dir poco impressionante.

 

         La scriteriata decisione della casta militare nipponica fu un classico esempio dei disastri che dei generali guerrafondai possono provocare a un Paese, anche se per onestà va detto che il monopolio di materie prime gelosamente detenuto da Gran Bretagna, Olanda e Francia nel sud-est asiatico e l’embargo petrolifero degli USA costituivano un nodo scorsoio e di fatto una strisciante bomba a tempo. Ma mentre l’invasione delle Indie Orientali incontrava un nemico dalle potenzialità produttive infinitamente più limitate, l’attacco di Pearl Harbor – in base ad alcune teorie, previsto e in un certo senso addirittura sperato – doveva interrompere la trionfale ascesa del Giappone da nazione feudale e arretrata a indiscussa potenza militare regionale. L’unica strada da allora percorribile sarebbe stata quella dello sviluppo industriale. In cambio del disarmo militare, furono così progressivamente aperti al Giappone i mercati: anche quello americano.

 

       Gli eventi successivi alla seconda guerra mondiale, nonostante gli abbellimenti propagandistici sul mondo libero, il trionfo della democrazia e simili, hanno sostanzialmente visto il tendenziale insediarsi degli USA come unico sostituto di quelle Potenze che prima si erano spartite vaste zone del mondo, ovvero Gran Bretagna, Francia e Olanda. Anche la sostituzione fu paradossalmente contradditoria. Al precedente sistema di dominio palesemente militare e coloniale si sostituì un più opportuno ma velato sistema di protettorati e basi militari dislocate ai quattro angoli del pianeta, velato ma non meno capillare ed esigente.

 

        Quale lo scopo? Se gli USA uscirono dalla crisi grazie all’irreggimentazione bellica di un’intera nazione, né più né meno di quanto accadde in Germania, in Gran Bretagna o in Giappone, un ritorno ai precedenti livelli produttivi era l’ultima cosa che il sistema industriale poteva auspicare o permettersi. Ancorché con differenti miscele – meno carri armati o portaerei e più coca-cola e drones – le inesorabili leggi del sistema economico attuale imponevano il protrarsi a tutti i costi di alti livelli non solo produttivi ma anche di esportazioni. E’ più facile distribuire i beni o produrli in mercati dove la manodopera costa meno e garantirsi dei traffici privilegiati quando si detengono capacità di deterrenza tali da prevenire eventuali instabilità o rivendicazioni o turbolenze in intere nazioni o aree geografiche. Ma adeguate capacità di deterrenza a livello planetario presuppongono anche un’adeguata produzione bellica, anch’essa nevralgica per l’industria americana degli armamenti. Lo scenario è in fondo banale.

 

        La grande e incommensurabile differenza fra l’espansionismo americano del dopo guerra e quello delle Potenze europee nei secoli precedenti è il modo brusco e repentino con cui gli USA si trovarono catapultati nell’arena mondiale. In mancanza di un’iniziale ma secolare presenza di mercanti e (nel caso della Gran Bretagna) di cosiddetti “residenti politici”, che se non altro permise di acquisire sensibilità e capacità di valutazione in loco e non di tipo libresco, nel caso degli USA, il compito di custodire e proteggere le zone d’influenza ormai acquisite fu affidato fin dall’inizio a dei militari o ibridi presidi d’intelligence (CIA e simili). Tutto ciò non significa ovviamente giustificare a priori il precedente colonialismo europeo, che fu in alcuni casi (vedi Congo Belga o la Cina della guerra dell’oppio) sfacciatamente spietato e avido.  Né significa che la politica estera britannica nel corso dei secoli sia stata esemplare ed esente da viscerali errori. Uno di essi è stato il secolare e interessato protrarsi dell’agonia dell’Impero ottomano e le sue caotiche derive – la famigerata Questione d’Oriente – dovuti alla cocciuta volontà britannica d’impedire a qualsiasi costo uno sbocco ai mari caldi della Russia zarista. Ancora la Russia! Di fatto, quel protrarsi e le sue confuse conclusioni continuano ad influenzare ancora oggi lo scenario del Medio Oriente. Tuttavia, il mix di strumenti, le sue forme e i suoi tempi furono più graduali e meno precocemente unilaterali. Nonostante siano passati ben 70 anni dall’approdo americano in varie zone del pianeta, sembra che gli USA non abbiano ancora trovato delle alternative di tipo meno aggressivo e risolutamente militare, come mostrano le citate esortazioni dell’ex- comandante in capo della NATO.  

 

        Detto ciò, vale la pena sottolineare come il denunciare certe tendenze o comportamenti della politica estera americana può essere scambiato per “anti-americanismo” solo se si applicano criteri tipicamente  totalitari. Ovvero, se si parte dall’implicita idea che una società e una nazione siano automaticamente equivalenti al regime politico che governa queste ultime. Ovviamente, quest’identificazione è assurda e pretestuosa. Del resto, esistono folti e significativi segnali che le suddette tendenze e pretese imperiali dell’establishment americano non rappresentano affatto tutta l’anima dell’America. A parte critici esterni all’Amministrazione, e quindi non politici come un Noam Chomsky e tanti altri, che hanno a più  riprese denunziato l’arroganza e disinvoltura della doppia faccia e del predicar bene e razzolare male, ancora più significative sono  le critiche proprio di personaggi con ruoli di governo. Valgano qui per tutte certe recenti affermazioni del senatore democratico Tim Caine della Virginia durante un’audizione del comitato difesa del Congresso tenutasi alla fine di Aprile.

 

       Riferendosi alle operazioni militari effettuate dagli Usa in Siria senza nessun invito o autorizzazione da parte del governo siriano, contrariamente a quelle russe, specificamente richieste da Assad, il senatore ha ironizzato sulle accuse fatte alla Russia per i suoi interventi, non richiesti, in Crimea e Ucraina, quando gli US fanno poi lo stesso in Siria e altrove. Criticando duramente l’Amministrazione Obama e il Pentagono per condurre in vaie occasioni una politica senza alcuna giustificazione legale, egli ha affermato: “ Io credo che abbiamo fatto un pasticcio – e questa è un’espressione diplomatica – delle dottrine di guerra, sia dal punto di vista interno che internazionale […] Così, alla fine di quest’Amministrazione, con la complicità del Congresso, siamo di fatto arrivati a una dottrina di guerra che dice ‘in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento’ ogni volta che il presidente pensa che sia una buona idea, senza che il Congresso neanche abbia bisogno d’intervenire.”

 

        Per quanto ovviamente l’atteggiamento del senatore tradisca una vecchia querelle fra le prerogative del Congresso e le tendenze dei presidenti a scavalcarlo se e quando possono, rimane il fatto che esiste una parte di America che non si fascia la testa con le presunte minacce esistenziali a cui sarebbe esposta secondo l’apparato militare. Si spera che questa parte e il coraggio politico di un Tim Caine continuino a crescere e a diffondersi.

 

   Antonello Catani, in Atene, 29 maggio 2016

 

      

 

 


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  • Pubblicato in Esteri

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