Il cuneo Verdini spacca il Pd

L’operazione del premier che, contemporaneamente è anche segretario del partito democratico, ha un rischio, quello di scoprirsi troppo a sinistra, di intaccare un’identità, di far perdere riconoscibilità al Pd. La lezione del 40,8% delle europee è che il partito cresce solo se non perde il suo elettorato ma amplia la base elettorale. E Renzi deve trovare temi forti per restare ancorato all’area del centro-sinistra. Temi che anche in Europa restano nel “patrimonio” identitario: immigrazione, Ue e diritti civili. L'editoriale di Lina Palmerini su Il Sole 24 Ore.

Renzi rischia di spaccare il partito di cui è segretario

Leggi tutto...

Riforme costituzionali, il referendum farà tremare il premier

Il governo è giustamente soddisfatto di avere fatto approvare, sia pure in maniera rocambolesca, il disegno di legge sulla riforma del Senato. Maria Elena Boschi esulta. Matteo Renzi fa compilare l’ennesimo tweet, dando la sensazione che la strada verso il definitivo approdo verso la terza Repubblica sia ormai in discesa. Errore che l’entourage che lo circonda e lo protegge dovrebbe indurlo ad una serena riflessione. Poniamo pure che i suoi progetti di stravolgimento della carta costituzionale vadano in porto, c’è un particolare da non sottovalutare: il referenum confermativo a cui oltre 44 milioni di italiani saranno chiamati a dare la propria valutazione. Ricordiamo che la Costituzione stabilisce l’obbligatorietà del referendum qualora non si sia raggiunta la maggioranza dei 2/3 dei componenti di Camera e Senato. Così recita la Costituzione:

Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi. Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti.

C’è poco da scherzare o da gridare al successo dell’èquipe renziana. Con le maggioranze ridicole, nettamente inferiori a quelle che Palazzo Chigi riesce ad avere come supporto (patto del Nazareno prima, appoggio dei verdini ani oggi), non si a da nessuna parte. Il rischio è dell’ennesimo flop. Dopo l’insuccesso della devolution di Berlusconi-Bossi-Fini di dieci anni fa, sicuramente nel 2016 ci sarà un altro flop, quello di Matteo Renzi. Il popolo italiano si esprimerà in dissenso su una riforma variamente pasticciata e voterà no. Le provincie non sono state di fatto abolite. I politici di scuola renziana hanno aumentato il proprio potere di indirizzo, con la scelta degli uomini da mandare a prendere decisioni in ambito provinciale. Anche queste sono elezioni di secondo livello con esproprio della possibilità di scelta da parte dei cittadini. Inoltre alle nuove provincie sono state sottratte risorse. Si sta andando verso una ri-centralizzazione delle decisioni. Fa tutto Roma. Renzi avrebbe potuto percorrere un’altra strada, verso un federalismo caratterizzato su un minore numero di regioni (ha senso una regione come la Valle d’Aosta con poco più di 100 mila abitanti? O il Molise con soli 300mila abitanti? O la Basilicata con 500mila anime?). Si è discusso sovente di macroregioni. Lo stesso Roberto Maroni aveva promesso in occasione delle elezioni regionali lombarde l’istituzione di una macroregione comprendente Piemonte, Lombardia e Veneto. Grazie a quell’impegno è riuscito ad  insediarsi al Pirellone. Renzi avrebbe dovuto proporre una riforma dell’assetto regionalistico del paese. Quattro o cinque macroregioni, mantenimento delle provincie con qualche accorpamento, e la struttura federalista dell’Italia avrebbe potuto assumere una configurazione più agile (pensate, solo 4 o 5 governatori anziché venti, 4 o 5 consigli regionali anziché venti), i costi pubblici sarebbero calati immediatamente e in modo più rapido di quando non stia capitando con le  pasticciate riforme renziane. Probabilmente, anzi sicuramente, il nostro focoso premier avrebbe avuto il sostegno dell’opinione pubblica e quello della classe politica nel suo complesso. Chi è causa del suo mal pianga se stesso. Un ultima considerazione: l’attuale riforma l’avrebbe dovuta proporre il Parlamento e non subirla. Poi i ricatti lasciano il tempo che trovano. Il fatto che i verdiniani siano diventati determinanti per il raggiungimento del quorum necessario per il via libera, beh, fa nascere qualche sospettaccio. Non è che ci sia qualche Nazareno bis nascosto in qualche scartoffia racchiusa in un cassetto di Palazzo Chigi? Lo capiremo quando sarà indetto il referendum confermativo. Ricordiamoci che, promessa di Renzi-Boschi o meno, il referendum avrebbe avuto ugualmente luogo, visto che si è lontani mille miglia dalla maggioranza dei 2/3 prevista dalla Costituzione. Renzi ha i giorni contati. O i mesi. Il che fa lo stesso.

Marco Ilapi, 4 ottobre 2015

Leggi tutto...

Meglio nessun Senato che un Senato figlio di nessuno

Nel nostro Paese si tentano riforme costituzionali da trent’anni, senza cavare mai un ragno dal buco. Questa è l’ultima spiaggia. Falso: dal 1989 in poi sono state approvate 13 leggi di revisione costituzionale, che hanno corretto 30 articoli della nostra Carta e ne hanno abrogati 5. Se il sistema, nonostante le medicine, non guarisce, significa che la cura era sbagliata. Dunque le cattive riforme procurano più danni del vuoto di riforme. Le considerazioni del costituzionalista, il prof. Michele Ainis, sul Corriere della Sera.

Riforme, le bugie del premier

Leggi tutto...
Sottoscrivi questo feed RSS

Newsletter

. . . .