Due liberalismi a confronto. Il duello tra Felice e Mingardi

E se non ci fossero i partiti estremisti, come sarebbe il Belpaese?

Come sarebbe bello un mondo senza estremismi e senza autoritarismi. Come sarebbe bello un mondo segnato dall’illuminismo e non dal fanatismo. Come sarebbe funzionale una democrazia caratterizzata, in prevalenza, dal confronto tra quelli che una volta venivano classificati come lib-lib (liberali-liberisti) e come lib-lab (liberali-laburisti). Di sicuro se ne gioverebbe la libertà dei singoli e delle moltitudini, nonché il benessere generale. Anche perché, come sottolineava Luigi Einaudi (1874-1961), negli Stati stabili le somiglianze tra socialismo e liberalismo superano le dissomiglianze (...) Il vero liberale, sottolinea Mingardi, non chiede nulla al sovrano, vuole essere lasciato in pace. Non chiede nulla perché sa che la società "statale", ossia la fascia dei detentori del potere, non è intellettualmente superiore alla popolazione governata, non foss'altro perché non possiede tutte le informazioni indispensabili per una decisione razionale e non foss'altro perché più il comando è spersonalizzato più liberale e democratica risulta una comunità umana. Il commento di Giuseppe De Tomaso.

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Come si batte un male

Se ci sentiamo scoraggiati di fronte all’epidemia odierna, vale la pena e dà coraggio, e insegna molto, pensare a un’altra epidemia, non così lontana. Per introdurla dovete pensare o alla Bella Addormentata o a Cenerentola: così era definita l’Italia 150 e passa anni fa. La carta geografica della malaria, quella delineata nel 1882 dal senatore Luigi Torelli, parlava chiaro: delle 69 province della penisola solo Imperia (allora si chiamava Porto Maurizio) e Macerata non erano colpite. Fatti i conti degli allora 25 milioni di abitanti, 11 erano costantemente a rischio, e ancora, di questi ultimi, 2 milioni ogni anno contraevano il morbo e 15 mila morivano (anche se Giovanni Battista Grassi ritoccò questo dato in eccesso, 100 mila vittime). Un disastro. Le aree colorate indicavano le 3.300 aree malariche, e più o meno c’erano tutte: dalla valle del Po alla costa adriatica, poi l’Abruzzo fino alla Puglia, lungo tutta la costa tirrenica da Livorno alla Campania (con esclusione del golfo di Napoli), la Calabria e l’intera Sardegna, un terzo della superficie continentale. I costi erano altissimi, tanto che lo stesso senatore Torelli, appunto, parafrasò la fiaba della Bella Addormentata: quella era l’Italia e bisognava risvegliarla. Altri medici però la paragonarono a Cenerentola, costretta a una miserevole esistenza da una matrigna cattiva: insomma l’Italia non tanto tempo fa.

C’è stato un altro momento nella nostra storia, durante il quale abbiamo patito una sofferenza (non da virus ma da plasmodio) e pur non affacciandoci ai balconi e nemmeno organizzando flash mob, siamo stati insieme e abbiamo sconfitto (con qualche aiuto esterno e chimico) la malaria. E sì, questa è la storia di una modernizzazione italiana (per rubare il titolo al bel libro di Frank M. Snowden, La conquista della malaria. Una modernizzazione italiana 1900-1962, Einaudi, su cui si basa questo articolo). Il fatto è che le cronache dei viaggiatori del tempo raccontavano davvero di un paese addormentato, persone afflitte dal morbo, sdraiate ai bordi delle strade, incapaci di alzarsi, e poi alta mortalità infantile e bassa aspettativa di vita, specialmente delle fasce più povere, cioè una buona parte degli italiani (anche se pure il conte di Cavour morì di malaria, e i salassi che gli praticarono in piena febbre peggiorarono le cose).

Giusto per delineare un quadro socio-economico, se prendiamo il sud ed esaminiamo l’anno in cui i Borbone furono (finalmente) deposti (1861) è interessante esaminare alcuni parametri che lasciarono in eredità: l’86 per cento di analfabeti (dato 1861, che si avvicina a quello della Russia zarista). Nella Spagna la quota di analfabeti era del 75, mentre il Piemonte e la Lombardia stavano sul 50 per cento e la Liguria al 35: si poteva intravedere sul nascere il triangolo industriale. Sapevano leggere e scrivere solo preti aristocratici e qualche borghese. Nessuna donna sapeva leggere e scrivere. “In una società – scriveva Emilio Sereni – in cui l’agricoltura costituisce la fondamentale attività produttiva, l’esclusione della donna dal lavoro dei campi comporta una sua netta inferiorità sociale. Questa si manifesta chiaramente nel regime ereditario e soprattutto nella totale subordinazione della donna all’uomo, il marito è difatti non solo il capo incontestato della famiglia ma il signore, il padrone della donna”.

Mettiamoci, visto che ci siamo, anche le famose ferrovie: i Borbone avevano costruito la prima linea, la Napoli-Portici (1839), lunga sette chilometri e prolungata, negli anni seguenti, fino a Castellammare e Pompei. Perché fu costruita? Perché nel 1738 Carlo III di Borbone – il più illuminato, stando a Benedetto Croce – aveva deciso di edificare la sua residenza estiva a Portici, ora sede di Agraria. Nella pratica appena un secolo dopo si diede il via alla linea ferroviaria così che la famiglia reale si potesse spostare verso il mare. Insomma: la ferrovia serviva ai ricchi (nel 1859 la rete ferroviaria del Regno delle due Sicilie era di 99 chilometri, quella di Piemonte e Liguria di 850; di Lombardia e Veneto 522, della Toscana di 258. Pure il papato superava i Borbone, con 101 chilometri). “La metà degli abitanti del Regno delle due Sicilie – scrive Emanuele Felice – viveva sotto la soglia della povertà, le classi popolari lottavano per sopravvivere, se non potevano mandare i loro figli a scuola, non avevano neppure speranza di riscatto, tanto meno si poteva avviare un qualche meccanismo virtuoso di crescita economica. Ma al sud viveva anche una minoranza agiata, doveva essere molto agiata, se è vero che innalzava il pil medio su livelli più alti di quanto ci si aspetterebbe dagli indicatori sociali. Specie in Campania, dove si concentrava nei palazzi dell’antica capitale. E non pare che questa élite di aristocratici e borghesi fosse particolarmente viva sul piano imprenditoriale e sociale”.

Antonio Pascale – Il Foglio - 13 aprile 2020

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