Renzi propone i suoi candidati al Colle

Il gioco, la partita per il Colle si é riaperta. La conseguenza dell’unità ritrovata in casa Pd è che appunto il partito tratterà con tutti, e con nessuno in via privilegiata, con una rosa di nomi da cui alla fine dovrà essere estratto il nome del candidato più gradito ai Grandi Elettori. Prodi è dunque - meglio sarebbe dire è tornato ad essere - uno dei candidati, ma non sarà certo l’unico. Se Grillo e il Movimento 5 stelle avessero voglia di far politica, basterebbe che lo indicassero come il loro preferito (tra l’altro era uno di quelli usciti dalle «Quirinarie» tenute sulla rete), per farlo eleggere. Ma con la confusione che regna nel M5s non è facile che questo avvenga. Le considerazioni di Marcello Sorgi su La Stampa.

Al Quirinale sfida tra Padoan, Bersani e Prodi

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Il muro di Matteo è a Bruxelles

Renzi, il rottamatore: finirà che qualcuno rottamerà anche lui. D’altronde la pugnalata alle spalle del povero Enrico Letta l’ha inferta lui in modo inaspettato per non dire proditorio, con l’acquiescenza del vecchio presidente della Repubblica, il quale non avrebbe dovuto consentire un cambio della guardia a Palazzo Chigi in modo così violento. Perché è accaduto tutto questo? Qualcuno ha sbagliato e dovrebbe onestamente riconoscerlo. In primis Napolitano, che già nel 2010 avrebbe dovuto sciogliere le Camere e interpellare il corpo elettorale. D’altronde, in Spagna lo hanno fatto e non è successo niente di traumatico. Anzi, la Spagna, dal passaggio da Zapatero a Rajoy ci ha pure guadagnato. In Grecia sono andati ben due volte alle urne ed il Paese ellenico è ancora lì, agganciato alla moneta unica, quando tutti (o quasi) in Europa si preconizzava una fuoriuscita di Atene dall’euro. Addirittura fra qualche settimana i partiti greci saranno nuovamente chiamati ad esprimersi sia sulla nomina del presidente della Repubblica sia, molto probabilmente, sulla scelta della coalizione governativa che dovrà confrontarsi con Troika e affini. I mercati finanziari sono già in ebollizione. In Europa si trema per il probabile successo della lista di estrema sinistra Tsipras. In Italia si tira a campare, seguendo i dettami andreottiani. Con il Paese in caduta libera. Con una classe politica che non riesce a trovare la quadra per favorire l’uscita da una pericolosa stagnazione (per essere benevoli). Il premier sta a Palazzo Chigi da nove mesi e non ha ancora partorito una riforma accettabile. Si è insediato alla guida del governo, scalzando il povero in maniera ignobile Enrico Letta, promettendo mirabilie, 80 euro a tutti i lavoratori (trascurando chi ne avrebbe avuto maggior bisogno, ossia i disoccupati, gli esodati ed i pensionati), ma ancora oggi risultati pari a zero. Hanno ragione i critici ad evidenziare il gap tra le mille promesse fatte e quel che è riuscito a portare a casa. Adesso si briga per l’Italicum, per le nuove provincie che sarebbero state cancellate, anzi no, per uno strano Senato proposto e che però non piace a nessuno. I responsabili degli insuccessi di Renzi sembrano appollaiati tra le diverse anime del Pd (gruppo Fassina, gruppo Civati, gruppo Bersani, gruppo Bindi, gruppo D’Alema, etc.). A mio avviso il maggior responsabile del rallentamento della nostra economia è, invece, proprio l’ex sindaco di Firenze. Che non accetta il dialogo, parla di gufi e di vecchie pratiche partitiche ormai stantìe. Lui è l’innovatore e metterà le cose a posto. Per ora non ci sta riuscendo. Gli indicatori economici sono tutti avversi, Standard & Poor’s ci ha nuovamente declassati, il nostro debito è spazzatura o quasi. La spesa pubblica continua a crescere, di spending review neanche a farne cenno, le tasse salgono. Non c’è da esserne entusiasti. In questo drammatico scenario Renzi che fa? Insulta i leader sindacali, mette a tacere quelli che non la pensano come lui, amoreggia con Berlusconi, strapazza il Movimento 5 Stelle. Intanto Roma brucia. Ce la farà il nostro baldo eroe a superare indenne i tanti, troppi, ostacoli, che si frappongono tra i suoi desiderata e le realizzazioni concretizzatesi? Se continua di questo passo, la risposta è no. Se riconosce che ha preso diverse cappellate, probabilmente riuscirà  a sopravvivere (politicamente). Sembra che, però, non sia capace di autocritica. Non solo lui, anche Debora Serracchiani non scherza. La smetta di vedere nemici dove invece potrebbe avere amici e di vedere amici dove invece conta un numero pazzesco di nemici. A mio avviso Matteo è un novello dictator che, prima o dopo andrà a sbattere. Troverà, sulla sua strada, qualcuno che gli dirà: “Matteo, stai sereno!”. Lo meriterebbe. E’ troppo sbruffone. La politica è anche confronto, dialogo, contestazione, quindi sintesi. Renzi non sembra un epigono di Giorgio La Pira, cui vorrebbe ispirarsi. E il patto del Nazareno è un ostacolo sul suo cammino. Lui non lo sa ma i nodi vengono sempre al pettine. Durante il semestre europeo a guida italiana le aspettative erano tante, risultati fallimentari. La Mogherini al Pesc, un altro flop. La politica estera è fatta dagli Stati membri dell’Unione. La battaglia con Juncker è già stata persa prima di combattere. Al posto di Renzi non saremmo orgogliosi. Almeno avesse seguito Hollande che ha sbattuto in faccia a Frau Merkel che il tetto del 3% non lo rispetterà né per quest’anno né per il prossimo. Ci vuole carattere per combattere certe battaglie ed il nostro premier non da la sensazione di sapersi opporre allo strapotere della Germania. Per fortuna abbiamo Mario Draghi che qualcosa sta facendo, anche a costo di procurare forti dispiaceri a Merkel e Weidmann, quest’ultimi presidente Buba.

Marco Ilapi

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La bufala della cancellazione delle provincie

A distanza di otto mesi dalla legge il processo di riordino delle 105 provincie è ancora tutto per aria, l’assorbimento delle funzioni da parte di Regioni e Comuni procede in forte ritardo sulla tabella di marcia. Se tutto va bene, se ne parlerà nella primavera 2015. E così, mentre le vecchie Province continuano ad assolvere la loro missione, si naviga a vista. L’ultimo pasticcio è uscito dalla Legge di Stabilità approvata alla Camera che ha definito tagli lineari alle risorse delle province per 1,2 miliardi nel 2015 e altri 2 nel 2016, ma senza la contestuale riduzione delle loro funzioni fondamentali che ne costano 3,1. La ciliegina è poi un emendamento (art. 35 bis) che impone il taglio del 50% del personale, senza però aver preventivamente indicato quali funzioni sopprimere e a chi affidarle dopo aver messo alla porta gli attuali dipendenti. Così Thomas Mackinson su Il Fatto Quotidiano.

Le provincie abolite? Ma quando mai!

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