I veri numeri del salva-Stati

Cosa spinge alcuni politici a usare termini mai utilizzati prima, come «alto tradimento» (Salvini) o «sangue degli italiani» (Meloni), per una vicenda come il fondo salva-Stati?

Da un lato la risposta è ovvia: è un tema che evoca paure e rabbie profonde, con tutti gli ingredienti che già fecero la fortuna dell’impresa di Fiume un secolo fa, e poi di Mussolini: le altre potenze europee che ci umiliano, i nostri politici che ci svendono allo straniero, la plutocrazia internazionale che ruba ai poveri per dare ai ricchi.

Ma non è solo opportunismo: molti, e forse in parte gli stessi politici, ci credono veramente. Semplificando molto, sono due i punti più roventi della polemica.

Il primo: "Il Mes è servito e servirà solo per salvare le banche francesi e tedesche". Per Salvini queste hanno ricevuto il 95 per cento dei fondi per la Grecia; per l’onorevole Borghi (Lega), in un intervento alla Camera in luglio, queste hanno ricevuto 60 miliardi dall’Italia. Il secondo: "L’Italia paga per aiutare gli altri ma non potrà accedere ai prestiti se ne avrà bisogno".

In realtà, il contributo netto dell’Italia alle banche francesi e tedesche fu di meno di 3 miliardi, un ventesimo dei 60 miliardi di cui parla Borghi; e l’Italia può accedere ai prestiti più importanti del Mes. Non solo, ma è facile mostrare che proprio il Mes che vorrebbero Salvini e Meloni farebbe ciò che essi giustamente criticano: utilizzerebbe i soldi del contribuente per ripagare in pieno tutte le banche.

Tra il 2010 e il 2015 l’Eurozona fece due prestiti alla Grecia (il terzo intervento ha riguardato solo minimamente le banche). In totale, 206 miliardi (inclusi 10 miliardi del Fmi) che il governo greco utilizzò per acquistare il proprio debito detenuto da vari creditori, per pagare interessi, per indurre i creditori ad accettare la ristrutturazione, e per ricapitalizzare le banche domestiche.

Escludiamo le risorse affluite a creditori pubblici, alle banche greche; e alle banche fuori dell’Eurozona. Rimane un aiuto alle banche dell’Eurozona di 56 miliardi, e a quelle francesi e tedesche di 36 miliardi: il 17 per cento degli aiuti totali, non il 95 per cento di cui parla Salvini.

Per i trattati, l’Italia è "responsabile" al massimo per il 18 per cento dei prestiti Mes, quindi l’aiuto italiano alle banche francesi e tedesche fu di 6,5 miliardi. Ma anche le banche italiane detenevano titoli greci, e hanno beneficiato per circa 8 miliardi, di cui Francia e Germania sono "responsabili" per quasi la metà. L’aiuto netto dell’Italia alle banche francesi e tedesche è stato quindi meno di 3 miliardi (i dettagli di tutti questi calcoli in un mio contributo a lavoce.info).

I 56 miliardi alle banche dell’Eurozona sono comunque troppi. Sono il frutto soprattutto del primo prestito del 2010, che ripulì i bilanci delle banche del debito greco a spese del contribuente. Nel 2012 l’Eurozona decise di far pagare anche alle banche il costo dell’intervento, con la ristrutturazione del debito greco. Ai critici dell’operato passato del Mes questo dovrebbe piacere, eppure essi continuano a criticare il nuovo Mes perché prevede (come il vecchio, peraltro) la possibilità di ristrutturare il debito, e obbliga a estrarre dalle banche stesse tutte le risorse possibili prima di utilizzare soldi del contribuente per aiutarle. Insomma, proprio Salvini e Meloni di fatto vorrebbero usare i soldi del contribuente per ripagare in pieno tutte le banche.

Veniamo alla seconda critica: "L’Italia paga per aiutare gli altri ma non potrà accedere ai prestiti se ne avrà bisogno". Il Mes può fare tre tipi di prestiti. Per i casi meno gravi c’è la ormai famosa "linea di credito precauzionale", per cui è necessario rispettare certi parametri di bilancio e altre condizioni (al contrario di quanto molti credono, tutto ciò era già nel vecchio Mes, anche se non nel trattato, ma nelle linee guida di applicazione). Al momento, l’Italia non soddisfa almeno una di queste condizioni; ma neanche la Francia e forse la Germania le soddisfano tutte e, strettamente parlando, sarebbero tagliate fuori! Ma gli altri due tipi di prestiti, molto più importanti, non sono sottoposti a queste condizioni e sono accessibili all’Italia.

Certo, tutti e tre i prestiti richiedono che il debito del Paese sia "sostenibile" (anche questa clausola c’era già nel vecchio Mes, anche se ancora una volta per due tipi di prestiti bisognava leggere le linee guida di applicazione per scoprirlo). Ma "debito sostenibile" non significa affatto che debba essere sotto il 60 per cento del Pil, come credono in molti: se fosse così, solo Estonia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Olanda e Slovacchia potrebbero accedere ai prestiti. È perfettamente possibile che oggi la Commissione (cui, al contrario di quanto hanno scritto molti, spetta ancora l’ultima parola in materia) giudichi il debito italiano sostenibile.

Questi sono i numeri e i fatti. Non mi illudo che servano a molto, ma non fa bene lasciar passare tutto.

Roberto Perotti – la Repubblica – 4 dicembre 2019

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Dove porta il declino del M5S

Venezia devastata diventa una tragica metafora del declino italiano nella sua evidente accelerazione. È un pensiero che hanno fatto in tanti nel corso della giornata, man mano che arrivavano le immagini della città sommersa e si ascoltavano le solite parole vuote. L’unico punto certo è che il Mose, la diga mobile che ha divorato 6 miliardi di euro ed è ancora in attesa di collaudo dopo anni, rappresenta il secondo tassello della stessa metafora, mentre il cortocircuito sull’Ilva di Taranto è il terzo. Tutti e tre stanno a simboleggiare l’inerzia, l’inefficienza e la retorica di un Paese in cui le classi dirigenti hanno smarrito, e certo non da oggi, il senso del bene comune e delle responsabilità istituzionali.

La sensazione è che il tessuto civile si stia sfaldando. Si approfondisce la frattura politica tra il governo, il Parlamento e un’opinione pubblica sconcertata, in particolare nel Nord produttivo. Nel 2013 e poi ancora nel 2018 il malessere già esistente prese la forma della marea che arrivò a fare dei Cinque Stelle il partito di maggioranza relativa, mentre cresceva la nuova Lega non più secessionista ma "sovranista".

Oggi che il movimento ha fallito in modo clamoroso ma non imprevedibile la prova del governo, la deriva spinge a destra. Si sconta fino in fondo l’errore della scorsa estate, quando si è preferito mettere insieme un esecutivo trasformista privo di nerbo e di sostanza politica invece di tentare la battaglia elettorale contro un Salvini in quel momento debilitato dai suoi passi falsi.

Due mesi dopo i sondaggi indicano la triade Salvini, Meloni, Berlusconi intorno al 50 per cento, una percentuale mai vista, figlia del mediocre governo dell’altra triade: Pd-5S-LeU.

I sondaggi dicono anche altro, in particolare fotografano le incognite nell’area della maggioranza. Con un interrogativo cruciale: fino a che punto il collasso dei Cinque Stelle trascina con sé il Partito democratico? Rispondere alla domanda è essenziale per capire quanto può durare ancora il governo Conte 2 — la cui agonia peraltro è evidente — e quale destino avrà la legislatura. Ebbene, i sondaggi più recenti, con poche differenze, indicano da un lato il precipizio del movimento di Di Maio e dall’altro una resistenza non scontata da parte del Pd. Si poteva immaginare che pagassero entrambi la semi-paralisi dell’esecutivo, invece il partito di Zingaretti per ora tiene e addirittura guadagna qualcosa.

S’intende, sullo sfondo c’è il successo virtuale del destra-centro, tuttavia il Pd si attesta tra il 19 e il 21 per cento, mentre i 5S sprofondano verso il 17-16, forse meno. Significa che il centrosinistra sta recuperando qualche voto ai "grillini", perlomeno una parte dei consensi ceduti negli ultimi anni.

Il dato non è trascurabile. Vuol dire che il Pd, se gli riesce di rovesciare sull’alleato le contraddizioni, è incoraggiato a far valere la sua maggiore solidità senza piegare le ginocchia di fronte al partner (come pure è accaduto). Ma significa anche che i 5S sono a un passaggio decisivo: l’idea di cambiare alleanze per governare fino al termine della legislatura si è rivelata un’illusione. Il movimento sta scomparendo nel Paese come la neve al sole, al punto di rinunciare alla lista per le regionali. Questo è il fattore destabilizzante per eccellenza: nessun governo può durare a lungo in tale squilibrio.

Stefano Folli –la Repubblica – 14 novembre 2019

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Si può fare

I sovranisti italiani sono inebriati dall'affermazione dei colleghi spagnoli di Vox. Il più inebriato è Salvini, ma Salvini è ebbro di suo: sta con i centralisti di Vox, che vogliono mettere fuori legge gli indipendentisti catalani, e sta anche con gli indipendentisti catalani, che reputano il centralismo di Vox di tendenza Adolf. Non così trottolina amorosa, però è inebriata pure Giorgia Meloni, forse ignara degli ambiziosi traguardi individuati dai Fratelli di Spagna: deportare (testuale) gli immigrati che violano la legge, togliere l'aborto dal sistema sanitario nazionale, sottoporre a terapia i figli omosessuali. Lo si dice perché da qualche tempo Giorgia Meloni è impegnata a correre dietro a qualche suo falangista un po' troppo ortodosso: il vicepresidente del Consiglio comunale di Vercelli che risolverebbe con un sano eccidio il problema di lesbiche, gay e pedofili (si apprezzi il parallelo), i Fratelli marchigiani che festeggiano con cena sociale e fascio littorio l'anniversario della marcia su Roma, il deputato Galeazzo Bignami che pubblica e poi rimuove il video dei campanelli delle case popolari agli stranieri, il commissario di San Severo (Foggia) che via Facebook pone un interrogativo su Liliana Segre: «Ma chi se la in...?». Mica militanti: tutti dirigenti. E a Meloni tocca saltare di qui e di là per scusarsi, precisare che non è la linea del partito, nessuno aveva autorizzato eccetera. E però l'autorizzazione non serve, ecco il guaio: l'autorizzazione è implicita, tutto un mondo sommerso riemerge entusiasta di un implicito via libera. E questo mondo ti ascolta, ti ama e ti vota, Giorgia.

Mattia Feltri – La Stampa – 12 novembre 2019

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