Ai limiti dell'Europa

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Sindaci: tutte le loro decisioni dovranno essere approvate da una “commissione di difesa” a guida governativa entro 5 giorni. In tutto il mondo la lotta al coronavirus è combattuta primariamente a livello locale, dagli amministratori e dai cittadini, addirittura in alcuni stati c’è una divergenza tra quel che viene fatto localmente e quel che è deciso a livello centrale. Perché la salute è un affare che importa le comunità: il vicino di casa, di banco, di cuore. Ma questo pragmatismo cozza contro l’autoritarismo di Orbán per un semplice motivo: vi ricordate chi è il sindaco di Budapest? E’ Gergely Karácsony, che nell’ottobre scorso ha levato la capitale (la città fulcro del paese) dal dominio di Fidesz. Karácsony è anche quello che è andato in Europa assieme ad altri sindaci come lui che combattono governi centrali autoritari a chiedere fondi diretti: per combattere gli illiberali dovete smetterla di finanziarli, ha detto Karácsony a Bruxelles, dovete trovare altri interlocutori, come noi sindaci. E’ presto spiegato perché nel suo primo giorno l’Orbanistan abbia tolto potere ai sindaci.

L’antropologo dice. “Non è infrequente che di fronte al caos, al disordine, alla paura e alla povertà innescati da una epidemia, la tensione sociale sfoci in disordini, rivolte, e in sovvertimenti dell’ordine democratico”, dice Christos Lynteris, antropologo delle epidemie all’università di St. Andrews. “Per certi aspetti è comprensibile: siamo abituati a considerarci signori e padroni dell’universo e del creato e la malattia sovverte completamente questa idea che abbiamo di noi stessi. Inoltre la storia ci ha insegnato che lo sconquasso economico e sociale che le epidemie portano con sé conduce a disordine, paura, caos, spesso povertà. E la povertà porta con sé violenza, ruberie, e, inevitabilmente altra paura. E la paura, più di tutto, disgrega il tessuto sociale, le comunità”. E così, ognuno reagisce come sa e come può. “Il pericolo di un sovvertimento dell’ordine democratico, in queste condizioni è assai concreto. Le persone spaventate fanno cose spaventose”.

Allora tutto è perduto?

No, per fortuna”, dice Lynteris finalmente un pochino rassicurante. “La peste del Trecento in Italia, una volta scomparsa, ha lasciato il posto al Rinascimento. La scelta tra il buio di una dittatura e la luce della democrazia e, magari, di un nuovo Rinascimento è nelle nostre mani di cittadini, prima ancora che in quelle dei governi. La storia ci ha insegnato che la scelta di affidarsi a un uomo forte, chiunque sia, non è mai giusta. Il bilancio di morte e miseria, alla fine, è se possibile peggiore. La mia idea è che, a differenza di quanto successo nel XX secolo, ora siamo abbastanza maturi da non farci abbindolare dalle promesse di un solo leader carismatico e con i superpoteri. Non funziona, lo sappiamo, lo abbiamo già visto. La democrazia, alla fine vincerà”.

L’esperta di affari europei dice. Il sistema di Orbán è diventato “un sistema sultanistico”, ci dice Simona Guerra, esperta di questioni europee, professore associato dell’Università di Leicester: “Ci sono i piccoli Orbán che difendono le scelte dell’Ungheria: spesso non appaiono nomi, o sono personaggi sconosciuti, ma sono tanti, scrivono anche su riviste che trattano temi europei, poi vengono ripresi dai politici vicini a Orbán, e così il traffico per difendere l’iniziativa si moltiplica. Al sistema clientelare che il premier ha creato in Ungheria bisogna poi aggiungere i legami informali, quelli che non si vedono e che agiscono molto a livello internazionale”. Un esempio: György Schöpflin, di Fidesz, ex eurodeputato e professore universitario, ha insegnato anche allo Ucl di Londra, che si inserisce nelle conversazioni su Twitter e dice che Orbán non può essere accusato di nulla “perché nessuno sa l’ungherese e tutto quello che viene letto dagli stranieri è filtrato dalle traduzioni e le traduzioni sono di parte”.

Che cosa può fare l’Europa? Follow the money (vale un po’ per tutto). “L’Ungheria è il maggior beneficiario dei fondi europei pro capite”, dice la Guerra, “più del 95 per cento degli investimenti pubblici è stato cofinanziato dall’Ue. Pensiamo però alla recente inchiesta del New York Times sugli ospedali: mancano le strutture e mancano perché quei soldi vengono usati per altre cose, tipo gli stadi e per mantenere il suo orbanetwork”. Con tutti questi dati davanti agli occhi, l’Ue ha un ruolo passivo e lascia che con i suoi soldi la corruzione venga alimentata. “Se rimani passivo in un sistema corrotto finisci per nutrirlo”.

Le alternative per l’Ue sono: “Il famoso articolo 7, ma è impraticabile perché Polonia e Ungheria reciprocamente mettono il veto e la procedura rimane ferma. L’unica iniziativa spetta alla Commissione e consiste nel congelare i soldi che vengono erogati a favore dell’Ungheria e metterli sotto un meccanismo di controllo e verifica come è stato fatto con la Romania e la Bulgaria. Bisogna dire che lì non ha risolto molto, ma chiudere un attimo il rubinetto potrebbe anche essere un monito per la Polonia”. L’intero processo per controllare lo stato di diritto nell’Ue andrebbe ripensato, ma intanto ci sono delle iniziative che possono essere adottate, “il congelamento dei fondi è una di queste”.

Intendiamoci sulla solidarietà. Non smetteremo di dire quanto l’Unione europea abbia deciso di svegliarsi tardi nella crisi sanitaria, che poi è diventata economica e che ha avuto inizio con la diffusione del coronavirus in Italia. Però non smetteremo mai neppure di ripeterci che quando i nostri partner europei hanno capito che era arrivato il momento di prendere sul serio questa pandemia hanno deciso di aiutarci: la Francia ha inviato un milione di mascherine e duecentomila tute protettive; la Germania ci è venuta in aiuto con sette tonnellate di respiratori e maschere, oltre ad aver deciso di ospitare pazienti italiani per alleggerire il carico delle terapie intensive; l’Austria ha mandato 1,6 milioni di mascherine e anche la Repubblica ceca ha donato diecimila tute protettive. E’ arrivata la solidarietà europea e lo ha fatto in silenzio, senza parate e senza bandiere, con un’estetica tutta sua, formale, rigorosa, seria. La solidarietà sta venendo fuori con il tempo, ci aveva avvertite la scorsa settimana il professor Luuk van Middelaar che gli altri paesi avrebbero addolcito i loro “no” osservando la crisi e avrebbero così capito che la convenienza dentro all’Unione europea non è materia per sovranisti, ma sta nell’interesse collettivo. Dopo ore trascorse ad arrabbiarsi di fronte alle webcam, la parola solidarietà ha assunto tutto un altro significato ed è diventata sinonimo di opportunità, per tutti: aiutarci conviene. Non è il momento del moral hazard e neppure delle regole rigoriste perché un sud Europa in dissesto economico e indebitato è un disastro per tutti i paesi membri. La rigidità ideologica dei rigoristi ha iniziato ad essere criticata anche all’interno dell’Olanda, anzi anche all’interno del governo del primo ministro Mark Rutte, formato da una coalizione di quattro partiti, due hanno chiesto ai Paesi Bassi di sostenere i piani di finanziamento dell’Unione europea per aiutare l’Italia e le altre economie più colpite dal coronavirus. Nessuno dice coronabond, ma i democratici cristiani olandesi hanno chiesto un Piano Marshall per le economie del sud. Anche il ministro delle Finanze, il rigorosissimo Wopke Hoekstra, ha ammesso che l’Olanda ha mancato di “empatia”, che è un modo per non dire solidarietà. Mark Rutte, che ieri è andato in visita in una scuola elementare (sì, sono ancora aperte con 13.614 contagiati e 1.173 morti) ed è stato filmato mentre cercava di improvvisare un balletto (rigidissimo), dimostrando tanta dedizione per il rigore ha rischiato di creare un disastro diplomatico. C’è stato un problema di comunicazione, ognuno ha il suo e con il coronavirus ne abbiamo avuti molti, ma è arrivato il momento per tutta l’Ue di fermarsi e di ragionare: quanto ci costa la mancanza di solidarietà? Gli europei si stanno accorgendo che per evitare disastri questo è il momento dell’interesse di tutti. Ma, come ha scritto Mario Draghi e come pochi hanno voluto capire, questo interesse va perseguito con urgenza, subito. Più dei conti vale il tempo.

E la Brexit? Un pensiero veloce, sappiamo che oggi per la maggior parte dell’Ue la Brexit è l’ultimo dei pensieri. Ma pensateci un attimo: i negoziati non procedono per ovvi motivi, il tempo per questa seconda fase era già poco prima della pandemia, figuriamoci ora. Sono molte le pressioni su Londra che dicono: rimanda l’uscita, non abbiamo modo di gestire il primo divorzio della storia comunitaria assieme alla prima pandemia. E nemmeno Londra ha questo tempo: l’ha perso tutto pensando di poter costituire un’eccezione al contagio globale, e ora non ha test, non ha respiratori, non ha alternative se non tapparsi in casa, sperando che “la curva si appiattisca”, che il picco sia ora. E la Brexit? Forse ci sarà una proroga, la meno prevista, la meno attesa, chissà che non sia anche quella del buonsenso. Musica in lockdown. Non ci sarà l’Eurovision, le nostre speranze erano riposte tutte sul gruppo islandese, ma su Twitter è stata lanciata un’iniziativa per chi sente la mancanza del Festival internazionale della musica, che avrebbe dovuto tenersi in Olanda, o per sentirne ancora di più la mancanza. Ci siamo imbattute nel Coronavision che è un contest per cantare, cantare stonati, nessuno rappresenta un paese, si vince qualcosa anche se non abbiamo ancora capito cosa. Possono partecipare tutti, le categorie sono tante e vanno da Coronavision ballad a Coronavision weirdest song. I partecipanti cantano una canzone non necessariamente inedita ma storpiata, devono farlo da casa e devono lasciarsi ispirare dal momento e dalla quarantena. Si va, per ora, da “Staying inside” a “Do not fear stay here”, qualcuno ha azzardato anche una “Coronavirus rhapsody” che è la nostra preferita. “Is this a sore throat? Is this just allergies? Caught in a lockdown no escape from reality. Don’t touch your eyes, just hand sanitize quickly”. Vanno in finale i più rituittati, speriamo siano anche i più ispirati. A proposito di musica e Eurovision abbiamo ascoltato anche un’altra canzone che parla di coronavirus. Il rapper russo Vitalja Albatros ha cercato di spiegare al mondo perché nel suo paese sembra che l’epidemia non ci sia, intanto Putin si vede poco e il medico incaricato di occuparsi di gestire la crisi è risultato positivo, la scorsa settimana stringeva la mano al presidente russo. La canzone di Albatros è in inglese ed è davvero rivolta al mondo “civilizzato” e dice: vi siete sempre chiesti perché da qui sono scappati sia Napoleone sia Hitler, anche il coronavirus è scappato. “Primo il nostro sangue è pieno di alcol, secondo siamo poveri, terzo non ce ne frega mai niente di niente, per uccidere il virus non abbiamo bisogno di un AK. Il virus entra nella mia stanza e scappa”. Non è una cover, ma la candidiamo lo stesso per il Coronavision. Categoria: #CoronaVisionTragedysong.

Paola Peduzzi e Micol Flammini - Il Foglio - 20 aprile 2020

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Coronavirus, il mistero cinese

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La Commissione nazionale cinese cinese ha diffuso il 31 marzo un comunicato ufficiale, subito ripreso dalla stampa asiatica, annunciando che inizierà a includere i casi asintomatici nelle sue statistiche di Covid-19, «per far fronte alle preoccupazioni» – e alle montanti proteste – del popolo cinese. Dati ufficiali secretati e pubblicati dalla stampa di Hong Kong hanno suggerito che considerando anche i portatori asintomatici i numeri dei casi in Cina potrebbero lievitare. E adesso in molti cominciano a chiedersi: quando la verità anche sul numero dei morti?

Cina, le bugie del governo di Xi

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Perché la peste è dentro di noi

Quale posto avrà il coronavirus dell’anno 2020 nella lunghissima storia delle pestilenze? Le conseguenze d’una pestilenza sono vaste, investono ogni aspetto della vita, così sono state rappresentate. Mettiamo però da parte i testi più antichi, le leggende orientali, l’ Apocalisse, il racconto di Omero nell’Iliade, consideriamo Edipo. L’infelice re s’aggira per la città di Tebe colpita da una pestilenza di cui nessuno sa spiegare le cause. Sarà lui a dover sciogliere l’ansia che opprime la città, lui che ha già risolto l’enigma della Sfinge. Di chi la colpa per un flagello che sta uccidendo tanti innocenti? L’indovino rivela che la peste è arrivata perché a Tebe è presente l’assassino del precedente monarca, Laio. Su questa base Edipo comincia la sua indagine al termine della quale scopre con orrore d’essere lui il colpevole perché è stato lui ad uccidere, inconsapevole, il re Laio, suo padre, e a giacere con Giocasta, ignorando che quella donna era sua madre.

Nel grumo di tabù violati racchiusi in questo mito, gioca un ruolo di primo piano la misteriosa malattia sterminatrice. La peste colpisce all’improvviso. Non c’era e d’improvviso appare; risparmia o uccide per oscuri motivi, si può guarire o morire secondo criteri che la ragione umana non coglie, dunque dettati dal capriccio, dalla collera di un dio. Anche in epoca classica però, qualcuno aveva tentato una spiegazione razionale: il filosofo Tito Lucrezio Caro. Nel finale del sesto libro del poema Sulla Natura delle cose (De rerum natura ), descrive la peste di Atene attribuendola a cause naturali. Miasmi che circolano nell’atmosfera o che salgono dalla terra imputridita per eccesso d’acqua o di sole. Le cognizioni scientifiche sono approssimative ma l’intento razionale, quel suo scrutare l’atmosfera e il suolo fa sì che Lucrezio compia un salto mentale di secoli proiettandosi verso l’illuminismo.

La terribile peste del Trecento di cui parla Boccaccio si manifestava con linfonodi infiammati e ingrossati nelle zone inguinale e ascellare: «e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide [...] certissimo indizio d’una futura morte». Boccaccio sottolinea però anche le conseguenze sociali della pestilenza: «Era con siffatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli quasi loro non fossero».

Un destino diventato di colpo fragile e incerto diffonde un panico capace di cancellare ogni altro sentimento. Con un salto di cinque secoli scopriamo che la peste del ’600 raccontata da Manzoni nel suo romanzo causa un’analoga dissoluzione dei legami. Nel capitolo XXXIV compare un episodio molto significativo. Renzo, entrato in città, vuol chiedere di un certo indirizzo ad un passante; questi però vedendolo avvicinarsi reagisce così: «Renzo, quando fu poco distante, si levò il cappello, da quel montanaro rispettoso che era; e tenendolo con la sinistra, mise l’altra mano nel cocuzzolo, e andò più direttamente verso lo sconosciuto. Ma questo, stralunando gli occhi affatto, fece un passo addietro, alzò un noderoso bastone, e voltata la punta, ch’era di ferro, alla vita di Renzo, gridò: — via! via! via!».

La conclusione dell’episodio è ancora più illuminante; il sospettoso borghese, rientrato in famiglia, descrive così l’incontro: «Arrivato a casa, raccontò che gli s’era accostato un untore, con un’aria umile, mansueta, con un viso d’infame impostore, con lo scatolino dell’unto, o l’involtino della polvere (non era ben certo qual de’ due) in mano, nel cocuzzolo del cappello, per fargli il tiro, se lui non l’avesse saputo tener lontano. — Se mi s’accostava un passo di più, — soggiunse, — l’infilavo addirittura, prima che avesse tempo d’accomodarmi me, il birbone».

A loro modo, gli untori sono un portato della ragione. Ignari di microbiologia, bisognava escogitare una qualche causa logica, meccanica, umana per il diffondersi della pestilenza. Manzoni, cattolico, dà alla divina provvidenza un ruolo risolutivo nel suo romanzo. Però non si nasconde il resto: l’isterica credulità delle masse, la persistenza di pratiche superstiziose, l’ottusità popolare ostinata nell’errore.

Nella Milano colpita dalla peste, il popolo chiede al cardinale Borromeo una processione per impetrare la grazia celeste. Il sant’uomo intuisce i rischi, sulle prime s’oppone poi è costretto a cedere. L’11 giugno 1630 un grande corteo — autorità, musicanti, popolo, le spoglie di san Carlo — attraversa la città. Il giorno dopo si registra un forte aumento nel numero dei contagi e dei decessi. Le tragiche conseguenze vengono però attribuite non ai contatti che la ressa ha favorito bensì all’azione degli untori. Tale il bisogno d’aggrapparsi a un’ipotesi che apparisse comprensibile.

Lo scrittore americano Jack London nel suo breve romanzo visionario La peste scarlatta immagina che nel 2013 un’epidemia abbia sterminato quasi per intero il genere umano. I pochi sopravvissuti sono ridotti alla condizione selvaggia dei primi uomini. L’educazione alla civiltà deve faticosamente ricominciare daccapo. Lo scrittore portoghese José Saramago (premio Nobel 1998) nel suo romanzo-saggio Cecità ha immaginato che una misteriosa epidemia renda tutti ciechi. Il dono della vista viene di colpo sostituito dal bianco di un’accecante lattescenza. Gli infelici colpiti dal male vengono chiusi in una specie di manicomio- lazzaretto dove le loro condizioni regrediscono ad uno stadio animalesco di selvaggia violenza. Lo scrittore ammonisce: il comportamento razionale, la civilizzazione della convivenza, è un fragile strato superficiale sotto il quale covano i primitivi istinti ferini della scimmia umana.

Nel 1947 lo scrittore francese Albert Camus pubblicò il romanzo La Peste. La città di Orano (Algeria) è funestata da un’epidemia causata dai ratti. Un male reale che però allude anche alla guerra e al fascismo. Quando l’epidemia è finalmente vinta, la città festeggia. Assiste, tra gli altri, il dottor Rieux, medico valoroso che s’è impegnato contro il male. Il coraggioso dottore pensa che: «Quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine d’anni addormentato nei mobili, nella biancheria, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce. E che forse verrebbe giorno in cui, sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi sorci per mandarli a morire in una città felice».

Forse però il più alto significato metaforico attribuito alla parola peste è quello usato da Sigmund Freud. Nel 1909 il padre della psicoanalisi fece un viaggio negli Stati Uniti accompagnato dal dottor Sandor Ferenczi, di Budapest e da Gustav Jung. La Chiesa e i costumi borghesi disapprovavano le indagini sulla sessualità. La psicoanalisi sembrava insidiare ogni pudicizia, in particolare quella dei bambini e delle ragazze. Gli uni e le altre dovevano ignorare certi impulsi o conoscerli per accenni. Freud invece andava nella direzione opposta portando alla luce anche gli aspetti più indecenti.

Ecco perché, mentre la nave attraccava al molo di Manhattan, in un’America ancora fiduciosa nella sua innocenza, Freud, rivolto al suo collaboratore, pronunciò le celebri parole: «Non sanno che siamo venuti a portare la peste».

Corrado Augias - la Repubblica – 31 marzo 2020

Augias sta lavorando a un saggio di prossima uscita per Einaudi dal titolo Breviario per un confuso presente. Uno dei temi è la raffigurazione simbolica delle pestilenze. Eccone un estratto

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