Niger: non solo eredità coloniali ma demografia

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      Improvvisamente e molto probabilmente con poco piacere per i dirigenti di Kyev, l’attenzione mondiale si è spostata dall’Ucraina al Niger, il cui recente colpo di Stato ha preso molti alla sprovvista.

      Prima di quello attuale, altri quattro ebbero luogo dopo l’ottenimento dell’indipendenza dalla Francia. Vale la pena di menzionare come colpi di Stato e insediamento di militari al potere sono un fenomeno tipico dell’Africa sub-sahariana ed hanno numerosi precedenti non solo In medio Oriente (dall’Egitto all’Iran pre-khomeneita e all’Iraq) ma anche nel sud-est asiatico. Basta pensare all’apparizione dei vari Naser, Gaddafi, Saddam Husain, etc.

       Quasi superfluo ricordare inoltre che anche nel mondo antico accadeva spesso che un capo militare si impadronisse del potere. Insomma, da un certo punto di vista, niente di nuovo.

       Eppure, per quanto dejà vu, il colpo di stato attuale in Niger presenta aspetti del tutto nuovi e dalle conseguenze imprevedibili. 

       Esso è avvenuto in un Paese che ospita basi militari americane e francesi. Vicini come il Mali, il Chad, Burkina Faso e la Guinea Bissau ma anche l’Algeria hanno avvertito che reagirebbero militarmente in caso di attacco al Niger. Come noto, il Paese è uno dei massimi produttori mondiali di uranio, minerale strategico per il sistema energetico francese, che ha massicciamente investito nelle centrali nucleari. La sospensione delle forniture di uranio rappresenta dunque un problema per la Francia e per altri acquirenti sparsi per il mondo. Ancora, con la giustificazione della lotta contro il terrorismo islamico, il Niger ospita la più grande base americana di drones. La  comunità degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS) minaccia, non si sa bene a che titolo, di ricorrere a misure militari nei confronti del Niger, salvo il ripristino al potere del presidente deposto. 

      Un eventuale intervento armato, favorito dalla Francia e dagli Stati Uniti, rischierebbe di destabilizzare tutta la fascia del Sahel, senza escludere estensioni anche in Sudan, oltre all’Algeria e alla Libya, entrambe confinanti col Niger. Insomma, una regione immensa, geograficamente aspra e difficile da penetrare. La presenza di contingenti del cosiddetto gruppo Wagner e gli entusiasmi popolari nei confronti della Russia non vanno poi disgiunti da una presenza capillare della Cina che detiene circa il 17” del commercio africano. L’imbroglio politico-economico-militare si commenta da sé. 

      Nel frattempo, il numero due della diplomazia americana, nella persona di Victoria Nuland, ha invano cercato di contattare il nuovo leader militare, evidentemente meno malleabile del altri personaggi a suo tempo manovrati dalla stessa Victoria Nuland, una degli artefici del colpo di Stato in Ucraina che portò alla defenestrazione del presidente “democraticamente eletto” Yanoukovitch.

      L’ultimo accenno sottolinea la disparità di atteggiamenti e il classico doppio standard di comodo che affiora a più riprese nella politica internazionale da decenni a questa parte. Di fatto, il colpo di Stato nigerino, avversato da Francia e USA, rischia di avere ripercussioni e complicazioni addirittura superiori a quelle del colpo di Stato in Ucraina, stimolato e pilotato dagli USA. I devastanti risultati di quest’ultimo sono sotto gli occhi i tutti: grazie al tossico miraggio di un’accessione alla NATO, l’Ucraina è ora un cumulo di macerie, con milioni di fuoriusciti che non sono scappati solo per l’invasione russa ma anche per la crescente brutalità del regime di fatto totalitario attualmente al potere in Ucraina. La famigerata contro-offensiva si è rivelata un’illusione e il suo presidente-attore continua tuttavia imperterrito a mandare al fronte ragazzi imberbi che vengono regolarmente falcidiati in massa. Le analogie con Von Paulus e Stalingrado sono irresistibili. 

      Insomma, un disastro umano la cui unica e vera origine è la paranoica, arrogante e inutile esistenza di un organismo, la NATO, che ha provocato disastri in Libya e Iraq, senza dimenticare la Serbia. I migranti e le folle di profughi ormai incontrollati in Medio Oriente e nel Mediterraneo sono figli della demenziale e criminale decisione di invadere l’Iraq e di defenestrare Gheddafi, a cui si sono aggiunnti analoghi interventi americani in Siria. Difficile stabilire in questo caso se i turbanti iraniani siano stati più letali dei marines americani. 

       In ogni caso, per trovare esempi simili di pura stupidità e criminale irresponsabilità bisogna tornare a quello che fu il gesto più insano di Mussolini, la cervellotica costituzione dell’ARMIR e gli oltre 100.000 morti in Russia. Dopo la bestiale persecuzione hitleriana degli Ebrei e gli inutili bombardamenti americani in Giappone quando i Giapponesi stavano ormai per arrendersi – lo dichiarò chiaro e tondo lo stesso Eisenhower all’allora Secretary of War Henry Stimson – la petulante smania di accedere alla NATO da parte di Stati come Svezia e Finlandia è a dir poco patetica e giustifica un’opinione ben poco lusinghiera dei loro dirigenti ma anche dei loro cittadini che tollerano simili balordaggini. L’ultima fantasia, e cioè quella di aggregare anche il Giappone alla NATO è pura follia.

      Ma ritorniamo al Niger.

      Fra il 1880 e fino alla prima guerra mondiale si scatenò il cosiddetto Scramble for Africa, traducibile all’incirca “come corsa per arraffarsi l’Africa”. Allora i principali protagonisti erano la Gran Bretagna, la Francia e l’intraprendente Leopoldo del Belgio che trasformò il Congo in una proprietà personale. Agli inizi della I Guerra Mondiale solo Liberia ed Etiopia continuavano ad essere indipendenti, cosa a cui avrebbe poi rimediato il già menzionato Mussolini. Da nord a sud, insomma, l’intero continente africano era in mano a qualche Potenza europea. Guarda caso, i Russi e gli Americani erano assenti, anche se presenti in altri luoghi come le Filippine (gli USA) e la Manciuria (i Russi).

      Apparentemente, la decolonizzazione, completatasi intorno al 1960, restituì l’Africa agli Africani. Successive guerre fratricide e scontri armati fra etnie e fazioni da un capo all’altro del continente si succedettero e ancora persistono, specialmente in regioni come il Corno d’Africa, anche col contributo del fondamentalismo islamico che non cessa di diffondersi. Lo sfruttamento economico europeo delle enormi risorse minerali dell’Africa non è tuttavia mai cessato. Non è un caso che la principale estrattrice di diamanti sia ancora una società olandese e che oro e uranio continuino ad essere estratti da società francesi. Nonostante le sue gigantesche risorse, tuttavia, l’Africa ospita alcuni fra i Paesi più poveri del mondo - il Niger è uno di questi - e centinaia di migliaia di Africano risalgono i deserti per cercare di imbarcarsi lungo le coste del Mediterraneo per poi spesso affogare. Un’Africa che esporta non solo minerali ma anche masse di derelitti. Le emigrazioni hanno sempre come molla la fame o comunque la ricerca di migliori condizioni di vita. 

       Al di là degli slogans pro domo mea dei vari leaders militari del Sahel, non vi sono dubbi che l’indigenza e le precarie condizioni di vita di centinaia milioni di uomini – in Niger, per esempio, l’elettricità è solo per pochi – spiegano il sostegno popolare di cui tali leaders per il momento godono. “L’Africa agli Africani” è comunque più facile a dirsi che a farsi finchè i gangli produttivi e le tecnologie rimarranno in mano alle ex-Potenze coloniali. A questo proposito, del resto, non è un caso che nonostante le pretese di autonomia di Paesi come l’Arabia Saudita, Oman, Emirati, in realtà, la gestione tecnica delle infrastrutture petrolifere continui in buona parte ad essere in mano a degli stranieri, sia pure discretamente e senza chiasso. Senza costoro e senza la manodopera straniera, tutti questi Paesi e le loro meraviglie artificiali crollerebbero come torri di carta e ritornerebbero al cammello.

       Premesso ciò, il nervosismo e il disagio di nazioni come Usa e Francia, al di là delle minacce di ritorsione, sono evidenti. Nonostante gli interessi economici e militari di queste ultime,  esse si rendono conto che le consolidate abitudini di bombardare e invadere sono in questo caso più rischiose del solito.

       In realtà,  il mondo e l’Africa di oggi non sono più quelli del 1880. La scena è di gran lunga più complessa e gli spettatori ed agenti sono molto più numerosi e agguerriti. Una guerra per procura (un eventuale intervento di ECOWAS) appare di gran lunga meno praticabile di quella utilizzata con l’Ucraina nei confronti della Russia. Territori smisurati, clima difficile, scarsità di strade, intere nazioni e popolazioni ostili, spettatori come Cina e Russia, che per il momento tacciono ma godono di prestigio in Africa e possiedono enormi capacità militari ed economiche. Nulla assomiglia alle condizioni che permisero gli interventi in Iraq e Libya. Infine, cosa ancora più determinante, l’Africa non è il compiacente consorzio di nazioni europee docili succube della politica americana. Insomma, nulla assomiglia alle condizioni che permisero gli interventi in Iraq e Libya e ora all’insensata guerra per procura contro la Russia.

      Appunto per questo, geograficamente, demograficamente e militarmente, i rischi di incontrollabili conseguenze in caso di intervento armato per ripristinare l’ex-Presidente Barzoum sono evidenti.

      Ciò spiega le esitazioni non solo di US e Francia ma anche di ECOWAS. Del resto, senza l’intervento e connivenza di quest’ultima, azioni unilaterali da parte di USA e Francia sarebbero ancora più rischiose e condannate a spettacolari fallimenti. La destabilizzazione dell’Africa sub-sahariana sarebbe un disastro di gran lunga superiore a quelli prima citati.

     Queste rapide annotazioni sull’attuale situazione politica in Niger sono tuttavia incomplete e hanno omesso di menzionare quello che in realtà è il reale problema e nemico non solo del Niger ma dell’intero Continente africano, e cioè, la demografia. Le proiezioni di crescita della popolazione africana per il 2050 ipotizzano il raddoppio della popolazione, che arriverebbe a 2,5 miliardi.  La popolazione del Niger era di 3.5 milioni nel 1961 ed è oggi pari  26, 2 milioni. (Fonte: World Data). Il tasso di natalità nigerino è pari a 6.8. 

     In queste cifre e proiezioni sta il vero problema dell’Africa, che del resto è anche il vero problema nascosto dietro le lamentele sul cambiamento climatico. Nessuno sembra rendersi conto della banale correlazione esistente fra aumento della popolazione e inquinamento del pianeta. G. Bouthoul avrebbe inoltre aggiunto che l’aumento della popolazione, periodicamente frenato da guerre ed epidemie, stimola l’aggressività dei gruppi sociali e degli Stati. A suo tempo, già A. Huxley in Brave new world revisited aveva sottolineato quanto la crescita esponenziale della popolazione del pianeta, ironicamente grazie anche ai progressi della medicina, rappresenti il vero grande problema del futuro, un futuro che diventa sempre più prossimo. Tutto ciò è stranamente ignorato e gli si dà poca importanza. Ecco perché da uno Stato come il Bangladesh, piccolo, poverissimo ma con una popolazione di 170 milioni di persone, fuggono senza requie masse di derelitti alla ricerca di una vita più umana. Lo stesso accade nell’Africa sub-sahariana.

     Il continuare a parlare di cambiamento climatico senza prendere in considerazione la variabile demografica è incomprensibile o forse si spiega come un fenomeno di rimozione. La limitazione forzosa delle nascite comporta infatti resistenze politiche, religiose, popolari e via dicendo. Né Cristianesimo né Islam sembrano del resto interessati a questo tipo di problemi.      

     Se ora ritorniamo ancora una volta al Niger, l’obiettivo più importante di qualsiasi regime o Giunta militare anti-colonialista decisa a riconquistare anche economicamente l’indipendenza nazionale dovrebbe essere prima di tutto una severa politica demografica. Limitarsi a liberarsi della tutela delle vecchie Potenze coloniali costituisce solo un piccolo ma insufficiente passo in avanti.

Antonello Catani, 13 agosto 2023

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''I politici di oggi inseguono ancora la seduzione di M"

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Uno stato di minorità della democrazia. È un’attesa vana, perché leggendo il libro scoprirete che la prima grande delusione rispetto a questa lunga attesa dell’uomo della provvidenza la diede proprio Mussolini. Uno dei nodi del romanzo è questo: lui deluse l’aspettativa di un leader provvidenziale investito addirittura dal Papa non solo per il male che fece, ma anche per ciò che non fece. Non si dimostrò all’altezza di esserlo. Una delusione che nel tratteggiare il profilo politico e psicologico del personaggio in questo secondo volume, è evidente in lui. Pure nel momento del trionfo, dell’apoteosi del fascismo, c’è una grande malinconia. Lui per primo si rese conto di non riuscire a mantenere le promesse, di cambiare il Paese, di modernizzarlo, di cambiare gli italiani. Questo, credo, è forse uno degli aspetti più interessanti e attuali. L'intervista di Giuseppe Fantasia allo scrittore Antonio Scurati, già vincitore del Premio Strega con il  suo M.

Scurati, nel mondo ma anche in Italia la democrazia langue

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Mussolini, e sai cosa bevi

Dalla propaganda politica a quella commerciale l'uso del Duce e del suo corpo. Mussolini accettò di farsi fotografare assumendo spesso pose che ai nostri occhi sfiorano il grottesco. Durante il Ventennio, furono circa 2000 le sue foto ufficiali, alle quali vanno sommate quelle (alcune migliaia) scattate da fotografi locali; a questi originali sono poi da aggiungere le riproduzioni il cui numero è stato calcolato tra gli 8 e i 30 milioni di esemplari. Minatore, aviatore, trebbiatore, condottiero, sportivo, nuotatore: su queste si fondò il «culto del Duce» che ispirò gran parte dell'iconografia ufficiale del regime, affidata alle sue fattezze ossessivamente replicate in manifesti, scenografie, affreschi murali, ritratti disseminati ovunque, riproposti in ogni paese, in ogni città, sulle facciate degli edifici pubblici e delle case private degli italiani. E proprio a queste immagini è dedicata una sezione della mostra «Propaganda. The Art of Political Indoctrination» organizzata a New York da Casa Italiana Zerilli-Marimò (New York University), curata da Nicola Lucchi e visitabile ora, a causa del coronavirus, solo online (www.casaitaliananyu.org).
Tra i reperti esposti, due in particolare sono quanto mai efficaci nel raccontarci il rapporto tra il capo e la folla che fu alla base della religione politica del fascismo. Il primo è una scultura di Renato Bertelli del 1933, Il profilo continuo di Mussolini, famosissima, riprodotta in continuazione in maioliche gigantesche o anche in umili fermacarte. Si tratta di una testa del Duce raffigurata in un contesto decisamente futurista, con una rappresentazione che ne suggerisce un movimento rotatorio, proponendo una sorta di Giano bifronte a 360 gradi, quasi che il dittatore potesse vedere ovunque, seguire con lo sguardo ogni movimento dei suoi fedeli: un'opera di gusto straordinariamente moderno che sottolineava il ruolo decisivo del Duce nell'organizzazione del consenso al regime.  In questo senso, ancora più esplicito è un secondo reperto in mostra, un manifesto dello svizzero Xanti Schawinsky realizzato in occasione del plebiscito del 1934, il secondo dopo quello del 1929. I «plebisciti nazionali» erano la sola parvenza di consultazione elettorale tollerata dal regime: per gli italiani si trattava di andare alle urne per votare l'elezione della Camera fascista esprimendo un «sì» o un «no» su una lista di 400 nomi, predeterminata dal Gran Consiglio, unica per l'intero territorio nazionale. «Il popolo voterà perfettamente libero. Ho appena bisogno di ricordare, tuttavia, che una Rivoluzione può farsi consacrare da un plebiscito, giammai rovesciare», erano state le minacciose dichiarazioni di Mussolini alla vigilia del voto del 1929. Gli elettori per i «sì» utilizzavano schede tricolori, per i «no» schede bianche, così che la segretezza del voto era totalmente vanificata. Anche nel 1934 vinsero ovviamente i «sì» con una maggioranza schiacciante, 99,84%. Per celebrare il successo Schawinsky immaginò un Duce il cui corpo era fatto di folla, con in primo piano un gigantesco SÌ in cui erano racchiusi i trionfali risultati elettorali. Il manifesto riusciva così a cogliere l'essenza del regime, quel «mussolinismo» senza il quale il fascismo non sarebbe esistito.
Tra i dittatori del XX secolo, Mussolini fu uno dei primi a capire l'importanza della politica spettacolo. Per restare all'Italia, fu il primo capo di governo a doversi confrontare con il cinema, con la radio, con i giornali, con i mezzi di comunicazione di massa. Tutti i suoi predecessori avevano potuto governare dal chiuso delle stanze di Montecitorio o di Palazzo Chigi; Mussolini scelse di fare politica nelle piazze, ai microfoni della radio, davanti alle cineprese dei documentari Luce. Le «masse oceaniche» che accorrevano ad ascoltare i suoi discorsi erano elementi essenziali di una scenografia studiata nei minimi particolari. E il culto del capo si sostituì a ogni altra istanza politica o ideologica. Si aveva fiducia nel regime perché si aveva fiducia nel Duce, e il suo stesso corpo divenne un oggetto da adorare. Lo scempio finale di piazzale Loreto fu in questo senso l'applicazione di una tragica legge del contrappasso: su quel corpo che era stato un idolo capace di attivare passioni e entusiasmi tumultuosi si scatenarono l'ira e il disprezzo delle stesse masse che lo avevano adorato.
Ma c'è un'altra sezione della mostra – quella dedicata al rapporto tra il fascismo e la società italiana - che oggi appare la più innovativa dal punto di vista storiografico. Un manifesto attira subito l'attenzione ed è quello per la pubblicità della birra Metzger: vi campeggia una gigantesca M, iniziale del marchio aziendale ma anche di Mussolini, quasi a suggerire un sorta di osmosi tra i simboli classici del regime e il mondo della pubblicità e dei consumi. Di fatto molte delle firme eccellenti che dominavano il mercato pubblicitario, come Dudovich e Diulgheroff, si prestavano volentieri a illustrare le «opere del regime», lasciando affiorare nel cupo universo dell'iconografia fascista i tratti di un'Italia che stava per aprirsi ai consumi e alle mode, lasciando affiorare i primi vagiti di quella grande trasformazione che nel dopoguerra avrebbe accompagnato il boom economico. All'italiano fascista voluto dal regime si affiancava l'italiano consumatore: il primo risultò una creatura effimera, il secondo celebrerà il suo trionfo mostrando subito i limiti di un progetto totalitario segnato da una marcata subalternità alle esigenze commerciali imposte dal mercato. —

Giovanni De Luna – La Stampa – 14 aprile 2020

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