La fiducia dei naufraghi

Ci sono ragioni ben precise se oggi non sentiamo retorico il richiamo all’unità del Paese, 159 anni dopo la sua proclamazione con il voto della Camera e del Senato, il timbro del sigillo di Stato, il discorso del Re che convocava a Torino «il mirabile aiuto della Divina Provvidenza, la concorde volontà dei popoli, lo splendido valore degli eserciti». Lo ha spiegato il presidente Mattarella, dicendo che le sofferenze e le incertezze di oggi rendono una necessità l’unione di tutti attorno ai valori della Costituzione e ai simboli repubblicani. E lo ha confermato il Capo del governo Conte, ricordando che il Paese ha saputo rialzarsi e ripartire dopo la guerra e la dittatura: «Lo Stato siamo noi, 60 milioni di cittadini che lottiamo insieme contro un nemico invisibile. Mai come adesso l’Italia ha bisogno di unità, responsabilità e coraggio».

Silenziosamente, intanto, molti di noi avevano già esposto il tricolore sul balcone, dove altri, nel pomeriggio, all’ora convenuta cantano l’Inno di Mameli .

Cos’è successo, nell’animo profondo di un Paese disgregato, sbandato e risentito, che sembrava in guerra con se stesso, con qualsiasi autorità e qualunque istituzione, un insieme di individui chiusi ognuno nei suoi interessi e feroci con gli altri?

Certo, ogni organismo indebolito ha bisogno di conforto e cerca sicurezza, se può, nella forza permanente di un mito fondatore.

Ma qui c’è qualcosa di più, paragonabile all’effetto di un’invasione. Siamo infatti assediati, espropriati e violati nell’intimo della nostra sicurezza personale, quella sicurezza che non riusciamo a garantire ai nostri vecchi e ai nostri figli. Ci sentiamo indifesi, esposti, quasi inermi, per la prima volta tutti nello stesso modo e tutti insieme.

Sono saltate tutte le differenze, le disuguaglianze, le diversità con cui facciamo i conti ogni giorno. Forte soltanto della sua debolezza, il governo stesso si è presentato davanti ai cittadini disarmato, con la stessa angoscia e la stessa ingenuità di ognuno di noi davanti a un male ignoto. E qui c’è stato il primo segnale di riconoscimento reciproco tra il potere impotente e il cittadino impaurito: non sappiamo dov’è la via d’uscita, ma cerchiamola insieme. Un segnale confermato dalle scelte successive. Perché di fronte a una minaccia globale ma indefinita il governo ha deciso di agire in pubblico, anche se così rivelava l’affanno inevitabile di chi deve inseguire un virus più veloce della democrazia, tamponando domani le misure di oggi, perché l’estensione e la profondità dell’infezione le rendevano ogni volta incomplete e parziali, inadeguate.

Questo significa scegliere la strada della verità, trattando i cittadini da adulti, rendendoli consapevoli e dunque partecipi, senza edulcorare, nascondere o camuffare i contorni del fenomeno virale. Verità e trasparenza, perché una volta resa partecipe della conoscenza, la pubblica opinione ha preteso di avere notizia non solo delle scelte strategiche, ma anche del meccanismo di decisione, e delle sue ragioni. Le comparsate dei politici nei talk show non servono a nulla: ma l’assunzione di responsabilità in diretta tv da parte di un potere che non nasconde le sue difficoltà, le speranze e persino i suoi dubbi, dà un punto di riferimento comune a un Paese per forza di cose disorientato.

Tutto è avvenuto davanti a tutti, dunque, perché nessuno ha il rimedio definitivo e ognuno è ugualmente coinvolto. È saltato lo scarto tra il popolo e l’ élite depositaria del sapere che produce, accusata di essere anche consumatrice privilegiata e in proprio di quel sapere, che circola come una moneta di riserva, un bitcoin , tra i garantiti, senza scendere a modificare le condizioni concrete di vita dell’enorme ceto medio diseredato. Con un altro effetto, decisivo: la riabilitazione della scienza. Messa in discussione per un sospetto castale, minacciata dalle superstizioni fai-da-te dei negazionisti no-vax, la scienza, con la ricerca e la medicina è riemersa nel buio della crisi come unica dottrina egemone e riconosciuta, e il governo ha potuto farne il driver della sua azione. È nato così un circuito di fiducia, come non avveniva da tempo.

Fiducia di naufraghi, naturalmente, senza certezze e senza garanzie: e tuttavia sufficiente a ricreare un perimetro inatteso di solidarietà. Come se quel riconoscimento si estendesse ai cittadini, tra di loro, e ricreasse il concetto spontaneo di nazione non sul sangue e sui confini, ma sulla condivisione di un’esperienza rifondativa nella sua radicalità inedita, dunque epocale. Riattivando la coscienza di una vicenda storica condivisa, di cui quest’ultimo capitolo fa parte, e in cui cerca un senso.

Tutto questo avviene, non per caso, nel momento in cui il virus mette fuori gioco i doveri dello Stato nei confronti del cittadino, fissati dalla Costituzione che garantisce la sua libertà di lavoro, di istruzione, di fede, di riunione, di movimento. Solo campeggia — ingigantito dall’emergenza — il diritto alla salute, che l’articolo 32 considera “fondamentale”, e che lo Stato deve tutelare nell’interesse del cittadino e della collettività, oggi più che mai.

Come se quel diritto-dovere facesse impallidire tutti gli altri. La realtà, e la sua percezione nella coscienza collettiva, rimodulano la norma, le priorità, le gerarchie, addirittura la scala dei valori perché la forza dell’emergenza vince su tutto.

Questa condivisione “culturale” spiega perché la popolazione abbia accettato così facilmente le misure che hanno via via ristretto fisicamente le libertà del singolo, fino alla misura-zero che lo ha sigillato in casa. I cittadini accettano perché sanno quel che sta accadendo, e quel che non sanno lo condividono col governo. Siamo davanti ad un caso limite, che potremmo chiamare di obbligazione volontaria, in cui il cittadino, col suo sentire comune, quasi scrive le norme acui si deve sottoporre.

Naturalmente l’individuo reagisce così perché si sente minacciato, e deve difendersi. Ma nello stesso tempo una parte di questa azione difensiva è spesa a favore degli altri, perché il contagio è attivo e passivo. Poiché siamo tutti bersaglio, proteggendoci proteggiamo la collettività. Ecco perché ci salutiamo tra sconosciuti, mentre ci teniamo a distanza: siamo sotto la stessa minaccia, sotto la medesima protezione, ognuno di noi sa che dall’altro può venire il male e la salvezza, quel saluto è la conferma di un patto implicito.

È l’idea di prossimo. Riscoprendola proprio nel deserto delle città svuotate, noi stiamo in realtà riformulando il concetto di società. Cos’altro è questo insieme di individui insidiati e spaventati dallo stesso male, che decidono tutti insieme di ridurre le proprie libertà e mutilare i propri diritti in nome di un obiettivo comune? Dopo un decennio in cui si cercavano solo soluzioni private a problemi collettivi, perché non c’era più nessuna “causa” generale, si capisce qui, adesso, che soltanto l’agire comune ci può tutelare. In questa vita contingentata, dove sono indebolite le differenze sociali e azzerati i ruoli individuali, è sospesa ogni negoziazione, e dunque risulta prosciugato lo spazio del conflitto. Ecco perché i populisti feroci non riescono a entrare nel nuovo clima sociale, vedono la loro paura artificiale sgonfiarsi davanti alla paura reale che sovrasta tutto e devono prendere atto che rabbia, rancore e odio senza la loro manutenzione quotidiana avvizziscono e declinano.

Questa è l’unità italiana 2020, spaventata e difensiva, tuttavia riconoscibile. A questo punto qualcuno avverta gli eredi della Thatcher: la società esiste. E nell’emergenza, è persino civile.

Ezio Mauro – la Repubblica – 18 marzo 2020

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Il pieno e il vuoto della sinistra

È una questione di pieni e di vuoti. C’era evidentemente un vuoto, in mezzo alla politica italiana, che improvvisamente si sta colmando: come se il sistema, giunto sull’orlo dello squilibrio tra destra e sinistra, sentisse il bisogno di compensare l’interpretazione feroce che il populismo stava dando del Paese, allontanandolo dall’immagine di sé coltivata nel lungo Dopoguerra di crescita e progresso.

Quel vuoto era prima di tutto fisico, materiale. Nessuna voglia di mettersi in gioco, contendere lo spazio dell’ agorà nella discussione pubblica, uscire di casa e tornare a competere: dando ragione a Zygmunt Bauman, quando diceva che nella percezione della democrazia contemporanea la posta in gioco è ormai troppo bassa, comunque, e chiunque vinca o perda, con qualunque programma, poco o nulla cambia per la vita concreta del cittadino. Il risultato numerico, inevitabilmente, era l’astensione in crescita vertiginosa a ogni elezione: una rinuncia a partecipare che anticipava il grande rifiuto generalizzato che diventerà l’anima trionfante dell’antipolitica.

Perché il vuoto, com’è chiaro, era soprattutto politico. Riempito da partiti, naturalmente, e meno male: ma disertato dalle culture politiche, quelle che fanno muovere le bandiere, danno un’identità riconoscibile alle forze in campo e nobilitano gli interessi legittimi che queste forze rappresentano, in una visione generale del Paese e addirittura del mondo.

I partiti sono costruzioni umane, e come tali nascono, crescono, deperiscono, svolgendo con ciò la loro funzione utile e necessaria. Le culture radicano i partiti nella società, durano nel tempo aggiornando la loro interpretazione della realtà e raccordandola ai loro ideali. Tutto questo produce una storia, fatta di comunità e di individui, che contribuisce a dare fisionomia e carattere alla vicenda repubblicana nazionale, alimentando la fatica contemporanea della democrazia.

Così si scopre che il vero vuoto era di pensiero. Partiti sguarniti, svuotati. Tutti nati mercoledì scorso, senza una radice nella storia e un deposito di tradizione.

Sovrani nel dibattito istituzionale, ma sudditi nella discussione privata sui social network. Costretti da queste condizioni di sterilità culturale a vivere nell’estemporaneità, nell’improvvisazione, nell’effimero e nel contingente, formulando posizioni labili, dichiarazioni reversibili, affermazioni usa e getta, che non durano oltre lo spazio dell’occasione. La conseguenza quasi inevitabile è che l’azione sostituisce l’idea, il gesto prende il posto dell’atto politico e la forza sembra diventare il surrogato di una politica debole, dando l’illusione di soppiantarla.

Tutto questo ha dato forma, negli ultimi anni, a una espressione politica conseguente, come non l’avevamo mai conosciuta. Semplificata, irrigidita, ristretta e nello stesso tempo urlata, esagerata, appunto feroce. Ridotta all’osso, in declinazioni primitive e binarie, che non raccolgono la complessità dei tempi: vecchio e nuovo, noi e loro, dentro e fuori. Producendo pratiche politiche elementari nel loro massimalismo: rottamazione, esclusione, respingimento, con le forbici e la ruspa disegnate come simbolo impoverito e agguerrito del presunto cambiamento.

Il pieno della piazza di Bologna, domenica, non sarebbe stato possibile se non ci fosse stato insieme, anzi prima, un tentativo di mettere in campo un pensiero alternativo a quello dominante. Questo è in realtà il principio e il segreto di questa nuova, improvvisa disponibilità dei cittadini a mobilitarsi per la politica, tornando a scendere in piazza: una sorta di ecologia del pensiero, la testimonianza che un’alternativa culturale è già in campo perché un’altra mentalità è possibile, con una diversa gerarchia di valori e dunque con una differente scala di priorità.

Esattamente qui sta la leva della nuova politica. Insieme con due concetti, la spontaneità (e quindi l’autonomia e la libertà, pur nel prendere parte — per fortuna — al confronto politico) e la gratuità, cioè la capacità di fare politica senza altro tornaconto che non sia l’interesse generale. È da questa sicurezza nella propria identità culturale (spesa non per sé ma per il Paese, non contro il sistema politico ma a difesa delle sue istituzioni, non attaccando i partiti ma aiutandoli a cambiare se stessi) che nasce la capacità di parlare alla pubblica opinione e di trovare ascolto, e persino fiducia.

È come se questa piazza democratica, difendendo la buona politica e le istituzioni, sapesse cosa dire, nella confusione di oggi, e come dirlo, segnando la differenza rispetto alla presunta egemonia della destra.

Coniugando una moderazione sicura del linguaggio con una radicalità indispensabile dei valori. Senza tentennamenti e confusioni incomprensibili, come quelle del Pd nel processo a Salvini, che alimentano il vuoto. Solo da un nuovo pensiero di sinistra, infatti, e non dalle tattiche, può nascere l’alternativa alla destra di oggi. Mobilitando le persone non soltanto come elettori, ma molto di più: come cittadini.

Ezio Mauro – la Repubblica – 21 gennaio 2020

 
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I due Occidenti

Parlare di regole quando si parla di guerra, come se ci fosse un decalogo per la morte e per il sangue, può sembrare marginale, forse improprio, probabilmente inutile: un mestiere da posteri.

E tuttavia è dalla questione delle regole che nascono il sangue e la morte, anche se nel mondo in cui viviamo sembra ormai che abbiamo accettato di delegare tutto alla forza, ai fatti compiuti, alla prassi che divora ogni teoria e mette fuori gioco, alla fine, la politica. La stessa figura di Donald Trump pare costruita apposta per rappresentare un mondo senza regole, dall’inizio alla fine: e cioè dalla decisione di lanciare l’attacco mortale contro il generale Soleimani senza avvertire il Congresso, pur sapendo di scatenare una crisi mondiale, fino all’avvertimento all’Iran che annuncia ritorsioni: la risposta dell’America sarà «sproporzionata». Ma in realtà la questione non è così semplice: vediamo perché.

Prima di tutto sarebbe un errore dimenticare che i conti tra l’America e il terrorismo jihadista sono ancora aperti, esattamente dall’abbattimento delle due Torri l’11 settembre del 2001. Sono passati anni, ma quella data consegna all’America per sempre la coscienza della sua vulnerabilità, sul suo territorio, proprio mentre la fine della Guerra fredda sembrava aver chiuso il secolo con l’affermazione della democrazia come valore universale, e gli Stati Uniti come superpotenza egemone. Invece, il secolo si è rovesciato quel giorno, inizio di un nuovo disordine mondiale, con l’America come bersaglio e la democrazia come nemico, espressione di una civiltà da distruggere: ciò che noi chiamiamo Occidente, riunendo storia, tradizione e valori a sostanziare un destino comune tra Europa e Stati Uniti. Una parte di questa comunità — noi, Europa — ha risposto all’attacco con la compassione del "siamo tutti americani" piuttosto che con la condivisione del "siamo tutti occidentali", come se l’11 settembre riguardasse solo gli Stati Uniti. Un grave errore, che lo stesso terrorismo si è incaricato di correggere quando ha portato i suoi attacchi nel cuore delle città europee. Ma il problema politico di quell’errore resta ancora aperto davanti a noi.

Da quel giorno è nato il problema del rapporto tra la sicurezza e la democrazia. È chiaro che le democrazie hanno il diritto di difendersi, anche con azioni preventive, persino con il ricorso estremo e contro natura alla guerra, per salvaguardare se stesse e i loro cittadini. Ma nello stesso tempo, le democrazie hanno un vincolo, autoimposto e dettato dalla loro qualità: è il dovere di difendersi restando se stesse, senza diventare simili alle false rappresentazioni propagandate dai terroristi. Questo significa che la democrazia deve rispettare le obbligazioni che lei stessa ha imposto ai suoi legittimi sovrani, condizionando l’uso della forza alla forza del diritto. Un’azione di guerra fuori dalla legge della democrazia non è accettabile, diventa un’azione illegittima e dannosa. In teoria — un’ottima teoria — il diritto e la legalità internazionale passano attraverso l’Onu e la sua responsabilità nel valutare le prove, i pericoli, la proporzione tra le minacce all’ordine mondiale e la reazione, e infine gli effetti, l’efficacia e l’opportunità di un’azione. Ma in pratica la natura stessa della sfida terroristica rischia di vanificare questo meccanismo di garanzia e di governo delle crisi mondiali.

La partita mortale tra l’Occidente e il terrorismo islamista è infatti completamente diversa da una guerra tradizionale:non ha un terreno proprio di scontro (salvo l’area del sedicente Califfato), perché è per scelta ubiqua, trasformando qualsiasi espressione della quotidianità occidentale in bersaglio. Non ha un fronte, perché è per definizione asimmetrica, lanciando un "lupo solitario" contro la folla indistinta di una città in festa. Non ha una tattica militare perché è per ideologia religiosa un martirio annunciato, dunque senza via di fuga, quindi fuori dalla razionalità del nostro mondo. In più, potenze come l’Iran e plenipotenziari come Soleimani agiscono e colpiscono "per procura", muovendo pedine locali, armandole, coprendole, indirizzandole. In un conflitto di questo tipo è più difficile avere prove certe, da rivelare in pubblico, delle operazioni terroristiche che si preparano in Medio Oriente,fondando su questa operazione di verità e di trasparenza la legalità di un’azione di salvaguardia della sicurezza, e costruendo su questa legittimità un consenso che protegga la democrazia nei suoi atti estremi. Proprio da questa difficoltà dovrebbe nascere il dovere di informare i parlamenti, nelle forme riservate che sono previste. Invece è come se l’emergenza terroristica sciogliesse ogni regola, e noi da ogni vincolo. Bisogna agire, prima che agiscano loro: e la formula ha una sua indubbia forza di persuasione, proprio mentre nasconde l’insidia di un arbitrio da parte del potere, che potrebbe scegliere la prova di forza ingigantendo pericoli che non la giustificano per ragioni di convenienza politica, senza che sia possibile un confronto, una discussione, anche soltanto una condivisione silente tra le forze di maggioranza e di opposizione, come gesto di responsabilità davanti alla nazione.

A questa particolarità del terrorismo che dobbiamo fronteggiare, e che come si vede decide l’alfabeto e la grammatica dello scontro, si aggiunge la specificità del sovranismo, cifra dell’epoca.

L’unilateralismo strategico di Trump non è infatti soltanto la decisione di rendere la Casa Bianca libera dai condizionamenti degli organismi internazionali, delle alleanze e delle intese, per sprigionare tutta intera e intatta la forza della nazione. L’America first pone gli interessi del Paese sopra ogni cosa, travolgendo il perimetro della costruzione occidentale, in cuil’America inscriveva il valore della libertà, ma l’Europa portava la cultura del diritto, col risultato di una concezione unitaria e di una proiezione condivisa della moderna democrazia. Oggi,come denuncia Andrea Bonanni, quel quadro è in crisi, perché gli Occidenti sono due, cioè una negazione in termini.

È come se dall’incontro di queste circostanze nascesse oggi un nuovo concetto di sovranità,che somma l’emergenza e la convenienza,con il Capo sciolto da ogni obbligo del passato, da qualsiasi rispetto per le vecchie regole, da tutti i vincoli che nascono dal sistema democratico del bilanciamento dei poteri per contemperare il comando con il controllo. La vera novità della fase è che questa "liberazione" del potere da doveri che abbiamo sempre considerato democratici — dunque necessari — incontra un forte favore nell’opinione pubblica, perché corrisponde a un sentimento del tempo. Insicuro, poco rappresentato, diffidente, il cittadino più debole,spaventato da fenomeni sovranazionali senza controllo, misura la fragilità della copertura che la politica gli garantisce, si sente esposto, e dà la colpa alle procedure democratiche — le regole, appunto — che percepisce come obbligazioni di cui non rintraccia più la ragione, lacci di cui non riconosce la legittimità. È in questo grumo di insoddisfazione e di semplificazione che nasce la suggestione dell’"uomo forte", l’invocazione non casuale dei"pieni poteri". Quando tutto si semplifica e ogni cosa si riduce all’atto che giustifica se stesso per il solo fatto che si compie, non salta solo la politica, ma la diplomazia, la tattica militare (con le truppe in Iraq che devono riposizionarsi per prudenza), il calcolo strategico, la regola parlamentare, la costruzione di un’intesa nazionale su obiettivi condivisi per ragioni comuni. Le complessità svaniscono e ciò che resta si concentra e si trasfigura nel Capo e nella sua politica trasformata in missione: pronta per essere riassunta e notificata al Parlamento e al Paese con un tweet.

Ezio Mauro – la Repubblica – 8 gennaio 2020

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