Dov’è l’Europa dell’audacia
- Pubblicato in Esteri
La crisi dell’Europa davanti alla sfida della pandemia si può riassumere in una formula: di fronte a un evento straordinario l’Unione non dispone di una politica straordinaria. E forse nemmeno di una cultura dell’emergenza. Naturalmente ci sono le decisioni immediate importanti, prima fra tutte la sospensione del patto di stabilità, varate dopo le chiare difficoltà iniziali di comprensione dell’aggressione virale e della sua portata. Ma mentre il popolo europeo, tutto, è minacciato dall’infezione, l’impressione dei cittadini è che il virus abbia sopravanzato l’Europa politica, mettendo in luce tutte le sue debolezze e le sue contraddizioni.
Questa situazione, si dice, è pericolosa due volte, perché ritarda una risposta comunitaria adeguata al virus e perché rischia di armare i sovranisti nazionalisti, da sempre antieuropei, e pronti a chiedere la fine dell’Unione e dell’euro.
Ma in realtà il pericolo maggiore viene da una terza ragione. Il ritardo della Ue delude gli europeisti, convinti che l’Unione debba essere la realizzazione di un’idea politica di pace e sviluppo solidale, capace di dare un’anima a un continente diviso da due guerre e attraversato da due dittature: e proprio per questo sia la traduzione istituzionale di quei valori liberal-democratici oggi attaccati dai leader che propongono le democrazie autoritarie. Si rischia dunque di indebolire l’ultima utopia democratica (e pacifica) dell’Occidente, e di smarrire la sua base sociale, culturale e politica di sostegno. È vero che l’emergenza non può essere prevista per definizione, e quindi ci coglie sempre alla sprovvista, perché non ha una fattispecie regolabile in astratto e in generale. Però è altrettanto vero che le ultime emergenze ci hanno impartito lezioni tutte convergenti, e purtroppo poco rassicuranti. Negli ultimi anni abbiamo dovuto fronteggiare la crisi finanziaria più pesante dal 1929, un attacco terroristico senza precedenti sui nostri territori da parte del jihadismo, una contrazione del lavoro che taglia occupazione, un’ondata migratoria che ha investito tutto il Sud del continente. Tutti questi fenomeni rappresentano, ognuno per sé, un’eccezione, cioè una rottura dei parametri dentro i quali i Paesi esercitano una normale azione di governo, per assumere una dimensione straordinaria. Presi tutti insieme, confermano la difficoltà della politica a tenere sotto controllo le dinamiche d’emergenza che la interpellano e le chiedono di intervenire, perché i cittadini si sentono esposti e non tutelati.
La caratteristica comune di tutte queste crisi d’eccezione è la loro dimensione sovranazionale, che come tale richiederebbe un’azione di contrasto da parte di un’autorità adeguata, che non esiste, e di una sovranità da esercitare in una dimensione addirittura continentale, che manca. C’è di più. Le crisi sono sovranazionali e operano come tali, ma scaricano i loro effetti sul territorio degli Stati nazionali, spingendo necessariamente i cittadini a rivolgersi ai governi e ai Parlamenti dei loro Paesi per chiedere una risposta e una garanzia che nella dimensione nazionale non può venire, e sarà comunque sempre insufficiente e dunque insoddisfacente, generando delusione, solitudine e risentimento politico. Il virus sta portando a compimento questo disegno, potenziandolo al massimo grado. La crisi, infatti, per la prima volta si fa totale e universale, mentre raduna in sé tutte le crisi precedenti, aggravandole in una partita di vita e di morte. Nasce come emergenza sanitaria, si biforca in emergenza sociale con le città vuote e i cittadini chiusi in casa, sta diventando emergenza economica con la produzione bloccata ovunque, precipiterà inevitabilmente in emergenza del lavoro, con posti, ruoli e salari bruciati per sempre: ed è già, naturalmente, emergenza culturale, perché tutto ciò ha cambiato il nostro modo di vivere. Dovrebbe ormai essere chiaro a tutti che il nazionalismo sovranista è il primo soggetto politico ad essere messo fuori gioco da questa emergenza finale, perché pretende di risolvere da solo, nel chiuso del Paese, una pandemia mondiale che per la prima volta minaccia l’insieme del genere umano, su tutto il pianeta. Ma è chiaro anche che le democrazie per mantenere il consenso devono produrre risultati concreti, prima di tutto nella sicurezza dei cittadini. Oggi proprio la portata della crisi chiede una scala politica diversa, che prenda in mano le sorti dei singoli Stati attraverso il governo dell’Europa, dialogando a pari titolo con Stati Uniti, Cina e Russia per cercare soluzioni: prima per fermare l’infezione, poi per trovare il vaccino, quindi per ammortizzare il crollo economico-produttivo e sostenere il lavoro, infine per costruire un modello di sviluppo diverso. Non è dunque solo un problema di Eurobond che la Ue deve affrontare nel vertice del 23 aprile, e nemmeno — anche se dirlo dall’Italia può sembrare una bestemmia — un problema di semplice solidarietà. Spinelli diceva che la solidarietà è politica, è la coscienza dell’Europa.
Oggi il vero problema è di ambizione da parte dell’Europa, di coscienza di sé. Il presidente francese Macron dice che ci vuole più «audacia», il presidente tedesco Steinmeier avverte i suoi concittadini che la Germania uscirà dalla crisi forte e sana «solo se i nostri vicini saranno anche loro sani e forti», e indica la bandiera europea come il simbolo e la conferma di questo impegno. Alla fine, con ogni probabilità, un fondo di rinascita aiuterà la ricostruzione europea, con 1000-1500 miliardi finanziati da bond emessi dalla Commissione e garantiti dagli Stati membri. Sarebbe già molto, un principio di mutualizzazione e federalizzazione, nell’interesse comune. Ma serve ancora di più: sarebbe una grande occasione perduta se al piano di ricostruzione europea non si accompagnasse un progetto ri-costituente dell’Unione, capace di dare più potere al Parlamento e più potere alla Commissione.
L’Italia non deve chiedere un’elemosina all’Europa, ma un’Europa più forte.
Ezio Mauro – la Repubblica – 15 aprile 2020