Donald Trump: una tragedia americana

 

La miscela di brutalità e sadismo polizieschi – ultimo esempio, l'assassinio a freddo dell'afro-americano George Floyd - le dimostrazioni in decine di Stati americani, il noto rituale di poliziotti che lanciano gas e proiettili di gomma sulla folla, gli incendi e i saccheggi di gruppuscoli di provenienza e ruoli sospetti, le infiammatorie e deliranti minacce del Presidente Trump di utilizzare l'esercito per reprimere i disordini e la sua teatrale uscita dalla Casa Bianca per farsi fotografare con una Bibbia in mano di fronte a una chiesa vuota, tutto ciò, assieme all'incubo di un'epidemia ancora virulenta, potrebbe essere il copione di una pellicola di fantapolitica, magari ambientata in un Paese sud-americano.

Invece, è reale e accade in quegli Stati Uniti che una poco credibile mitologia vorrebbe rappresentare come il luogo ideale di ogni democrazia e del vivere civile. Gli eventi di questi giorni stanno mettendo allo scoperto che dietro questa idilliaca visione esiste un bubbone, dissimulato da logore ipocrisie pseudo-democratiche e da false bonomie e che ora scoppia, come se fosse l'equivalente sociale dell'epidemia in atto o il suo corrispondente morale.

Ma a dire il vero, i segnali, diretti e indiretti del bubbone, erano già in atto da lungo tempo. Già l'ossessiva moda cinematografica dei western, per esempio, con le loro rivoltelle e la cacciata dei "cattivi" indiani, suggerisce una disinvolta applicazione della violenza e del diritto a spese di colori di pelle diversi. Solo degli ingenui (o degli imbecilli) possono credere che quella finzione non trasmetta umori e atteggiamenti radicati in larghi strati della coscienza collettiva americana. Ma anche le ecatombi di morti di una miriade di film americani di avventura o polizieschi - tra cui i vari John Wick, Steven Seagal o The Bourne identity - sono uniche nel panorama cinematografico mondiale, così come gli scenari di serie come Into the Badlands, Game of Thrones, Homeland, etc. Ogni società esprime le sue ansie e le sue angosce, e non quelle altrui. Ed ecco perché i suddetti film non sono stati prodotti a Bollywood o in Europa.

Ma ancora il cinema americano ci trasmette nozioni di patriottismo e fanatismo sconosciuti altrove. Così, tipiche dichiarazioni come "My President", contenute in tanti film, o il gigantesco apparato di sicurezza che circonda ogni movimento dei presidenti americani ha il suo equivalente solo in Stati dittatoriali come la Corea del Nord. Ma anche qui, solo gli Stati Uniti vantano così numerose falcidie presidenziali.

Se poi uno ascolta le sedute del Congresso, può notare come l'ideologia patriottica sia trasversale e scavalchi le differenze di partito, perpetuando una sorta di delirio collettivo di mania di grandezza e di persecuzione, fatto di fantomatici e invecchiati "alleati" (quelli della II guerra mondiale!) e di "nemici" (Sovietici o Russi che siano). Il suddetto complesso di persecuzione e di patriottismo, anch'esso alimentato da decenni di mitologie cinematografiche, è tanto più inspiegabile e ridicolo, se si pensa che l'unica azione contro il territorio degli Stati Uniti avvenne in mezzo al Pacifico, a Pearl Harbour, in quelle Hawaii disinvoltamente occupate nel 1898....

Il pittoresco glamour degli Oscar elude lo spettro di quello che è stato definito The military-industrial complex e della sua isterica perpetuazione della necessità di difendersi (da chi?), ma dissimula anche le centinaia di milioni di armi da fuoco custodite nelle case americane. Le così frequenti eruzioni di omicidi plurimi non sono una coincidenza. Avvengono solo negli Stati Uniti.

A questo punto, non stupisce che la presenza americana i varie regioni del mondo dalla fine della II Guerra Mondiale in poi abbia coinciso con un'ininterrotta serie di maldestre e brutali operazioni militari. Assieme al terrorismo di marca islamica di qualsiasi provenienza, gli Stati Uniti continuano ad essere un fattore di destabilizzazione mondiale.

In quanto al famigerato melting pot di generose convivenze, esso è in realtà meno amalgamato e generoso delle oleografie ufficiali. In realtà, esistono varie Americhe e un paio di secoli di storia non sono evidentemente riusciti ad eliminare certe profonde differenze e contrasti né a dare spessore alla storia della nazione. Così come il gruppo etnico più numeroso è fatto di individui di origine tedesca, tutto il sud-ovest ma anche il sud-est sono profondamente ispanizzati, al punto che la lingua ufficiale di Miami è lo spagnolo.

Data tale varietà e molteplicità etnica e linguistica, l'osmosi e l'integrazione sono spesso solo un wishful thinking e appartengono al regno delle buone ma irrealizzate intenzioni. Che dunque le comunità di origine africana siano sempre state guardate con sospetto, quando non anche oggetto di violenze da parte degli strati più conservatori o reazionari della società americana (polizia inclusa) non è un mistero né una novità. Come dire che l'omicidio di George Floyd si iscrive in una lunga serie di violenze a carico della popolazione di colore. L'unica differenza è costituita dalla sua fatale e imprevista pubblicità. Senza il cellulare che ha ripreso la scena col ginocchio sul collo e le video-camere che hanno trasmesso i momenti precedenti, è probabile che la sua morte sarebbe rimasta nascosta o comunque impunita. E ciò è agghiacciante.

Ovviamente, nonostante certe sacche di abissale ignoranza, presenti in qualsiasi Paese del mondo, o di bieco conservazionismo, non tutta la società americana è reazionaria o razzista.

Le manifestazioni e i cortei in tutti gli Stati, appunto, stanno dimostrando modo clamoroso come vi sia una parte di società americana non imbevuta di razzismo, meno tristemente omologata e che rivendica una maggiore ed effettiva giustizia sociale. Fino a che punto essa riuscirà difendere le sue nobili intenzioni?

Il problema degli Stati Uniti è che non hanno saputo rinnovare visioni e focus, esprimere volti in grado di correggere ed eliminare dissidi e contrasti. I due partiti protagonisti della vita politica americana soffrono di molti degli stessi mali o comunque sono afflitti dalla vecchiaia e dall'arroganza (vedi in particolare il capo gruppo del Senato, Mitch Mcconnell) o dal più abbietto servilismo (vedi il chairman dell'Intelligence Committee del senato, Lindsey Graham). Lo stesso candidato presidenziale democratico, Joe Biden, è in fondo un sopravvissuto obamiano, con l'attenuante che è meno arrogante e clownesco dell'attuale Presidente. Misteriosamente, personaggi più giovani e convincenti, come il governatore di New York, Cuomo, non si sono candidati. Dommage.

In questo scenario, appare quasi coerente ma anche una nemesi e una tragedia che l'America sia oggi governata da un istrionesco e inveterato bugiardo e millantatore, che sobilla continuamente la sua amebica base, che assicurava che il virus sarebbe scomparso dopo qualche giorno, che invita a iniettarsi disinfettanti, che si definisce un genio stabile e inviato di Dio, che definisce Thugs i manifestanti, minacciando di sparare e di fare intervenire l'esercito e invita i governatori dei vari Stati a "dominare" i dimostranti. Insomma, un bolso sempre più incattivito e vendicativo.

Il provvisorio e surreale dulcis in fundo di questa telenovela atlantica è un Presidente con la bibbia in mano, di fronte a una chiesa vuota, seguito da un codazzo di lacchè e di guardie del corpo mentre in intero Paese protesta.

Ma forse questa è solo una tappa di una vicenda i cui futuri sviluppi sono incerti e poco rassicuranti.

Antonello Catani, 2 giugno 2020

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Presidenziali Usa 2020, Joe Biden scalda i muscoli

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Dice Biden, lo sfidante di Trump per la Casa Bianca: «Dobbiamo essere in grado di costruire il meglio negli Stati Uniti e vendere il meglio in tutto il mondo. Ciò significa – spiega il candidato democratico – eliminare le barriere commerciali che penalizzano gli americani ed evitare che tutto il mondo precipiti senza resistenza nel protezionismo. È già successo un secolo fa, dopo la prima guerra mondiale, provocando la Grande Depressione prima e la seconda guerra mondiale poi». Il commento di Vittorio Ferla su Linkiesta.

Casa Bianca 2020, Joe Biden sfida aperta a Donald Trump

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Lo show è Donald Trump

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Nel 1990 Donald Trump ha affidato a Playboy la sintesi di tutte le sintesi: “Lo show è Trump, e fa performance sold-out ovunque. Mi sono divertito a fare spettacolo e continuerò a divertirmi, a penso che la maggior parte delle persone apprezzi”. Non c’è quasi bisogno di altri elementi per afferrare il modo in cui Trump ha agito e si è imposto in tutti gli ambiti che ha frequentato, dal settore immobiliare al reality fino alla politica. Il format è sempre lo stesso: lo show è Trump, e le sue serate fanno il tutto esaurito. Quando gli ascolti registrano una flessione, si cambiano gli elementi della scenografia, gli spalloni, le comparse, si dà una rinfrescata all’ambiente e si ricomincia, sempre tenendo al centro della scena l’insostituibile protagonista dello show. Se Trump cala, la soluzione è dare al pubblico ancora più Trump. L’idea è che per noia, conformismo, sfinimento o per un disperato bisogno di distrazione una parte consistente del pubblico finirà per desiderare con rinnovato ardore le gesta del protagonista, secondo un meccanismo simile a quello che regola la dipendenza dalle sostanze stupefacenti. Quando la parte consistente del pubblico diventa la maggioranza degli americani (del collegio elettorale, per essere più precisi) e la scenografia è la campagna elettorale, ecco che lo show arriva alla Casa Bianca. Come tutti sanno, una volta diventato presidente Donald Trump si è guardato bene dal proporre una massima diversa da quella che aveva pronunciato nei fatali anni Novanta. Ha dato fondo alle ampie riserve di sorda cocciutaggine di cui dispone per sminuire, e solitamente schernire e licenziare, chi attorno a lui gli suggeriva di cambiare atteggiamento in ragione delle mutate condizioni, cose del tipo: “Questo ha funzionato quando dovevi attirare gli spettatori di un reality show, ma adesso sei il presidente degli Stati Uniti, e quindi…”. E quindi niente, è stata in sostanza la risposta di Trump, che ha continuato a riproporre il suo show, che lo diverte, fa divertire e a buona parte delle persone piace. Con questo metodo ha affrontato tutte le avversità che gli si sono materializzate davanti a partire dalla sua elezione. Invece di retrocedere, adattarsi, gestire, cambiare e cercare trame alternative, lui ha sempre rilanciato, ha alzato la posta, ha puntato tutto ancora una volta su se stesso, palesemente ignorando le contraddizioni in cui è incappato ogni giorno. Anzi, ha agitato la sua pervicacia monomaniacale come una bandiera. Fare leva sulla persecuzione è un grande classico della narrazione politica, e Trump non si è mai fatto mancare questo elemento narrativo.

La strategia de lo-show-è-Trump ha dato frutti non proprio trascurabili. Sembrano ormai passate diverse ere geologiche, ma il presidente con questo metodo è sopravvissuto, fra le altre cose, all’inchiesta di Robert Mueller e a una procedura di impeachment, intervallando la cosa con uccisioni di generali iraniani e incontri amichevoli con dittatori nordcoreani, il tutto condito da un clima di rimpasto permanente nei ranghi del governo e sullo sfondo di una sostanziale crescita economica, la regina di tutte le rassicurazioni per un presidente in carica che si affaccia alle elezioni. Ci voleva la pandemia per inceppare il format. Trump ha provato a eluderla, dapprima negando e minimizzando il problema, mentre continuava a fare comizi in giro per il paese, secondo la regola della campagna elettorale permanente. Quando la minaccia si è fatta ineludibile, l’ha politicizzata, sul fronte esterno, insistendo sul “coronavirus cinese” o il “virus di Wuhan” e poi minacciando di togliere i fondi all’Organizzazione mondiale per la sanità, organo che a detta del presidente è controllato da Pechino ma finanziato per la maggior parte da Washington. Il grido di guerra anticinese è ciò attorno a cui il presidente sta cercando di riunire le forze. Poi l’ha politicizzata sul fronte domestico, ingaggiando una battaglia interna con gli avversari democratici, con gli esperti del comitato scientifico, con i governatori – simbolicamente rappresentati dal Andrew Cuomo, a guida del più colpito fra gli stati, New York – e alla fine l’ha buttata sull’autoritarismo di tipo monarchico: “Quando uno è il presidente degli Stati Uniti, la sua autorità è totale. E così deve essere”, ha detto in uno dei briefing quotidiani con i giornalisti. Sono solo alcune delle manovre per portare la crisi nella dimensione solita dell’ultrapersonalizzazione narcisista. Qualche settimana fa i cronisti politici riferivano di una battuta che circolava tra i repubblicani al Congresso: Trump, dicevano, farà mettere il suo nome sugli assegni che l’Irs, l’agenzia delle entrate, manderà a settanta milioni di americani, parte del piano di assistenza per aiutare le famiglie e mitigare gli effetti immediati della pandemia sull’occupazione. Rimarrà impresso nella mente del popolo il nome di chi li ha soccorsi nel momento del bisogno. Il presidente deve aver preso alla lettera la battuta, e ha ordinato al dipartimento del Tesoro di far stampare la dicitura “President Donald J. Trump” sulle note di credito che saranno inviate via posta agli americani, cosa che secondo un pezzo del Washington Post, poi smentito dal Tesoro, ha anche generato ritardi nella consegna. Avrebbe voluto metterci anche la firma, ma gli hanno spiegato che ci sono ragioni legali che nemmeno la sua “autorità totale” può mettere in discussione. Siamo nell’ambito del già visto e del già sentito, si dirà. Per quanto dia sempre l’impressione di improvvisare, Trump di rado esce dal seminato. Come ha scritto Graeme Wood sull’Atlantic: “E’ come guardare Kareem Abdul-Jabbar che fa lo skyhook, oppure un dribbling di Lionel Messi: tutti glieli hanno visti fare centinaia e centinaia di volte e hanno avuto un sacco di tempo per preparare una difesa. Ma l’esecuzione è perfetta, e mentre gli avversari guardano sconfortati il punteggio degli avversari che cresce, devono ammettere che si trovano di fronte a un talento raro”. L’enormità della minaccia che il mondo si trova ad affrontare è però sproporzionata rispetto al talento che Trump è stato in grado di trasferire con regolarità per decenni nel suo show. E’ questione di impreparazione nella gestione, certo, e non si contano le istanze in cui la Casa Bianca e il governo federale hanno sbagliato valutazioni o hanno agito malamente e in modo tardivo. Ma è anche questione di comunicazione: il presidente non possiede un registro del discorso che non faccia esclusivamente riferimento alla propria immagine, al numero che deve eseguire sul palco, al proprio ego sbrigliato, ed è difficile immaginare circostanza più generale e scevra di tratti personali di una pandemia. Riguarda tutti e tutto, mentre Trump procede nell’ambito del questo e quello.

Si intuisce che il meccanismo si è inceppato quando la pagina degli editoriali del Wall Street Journal, cioè il comparto che custodisce una specie di ortodossia trumpiana – è da lì che è venuto il titolo che ha dato al regime cinese il pretesto per cacciare i corrispondenti dei maggiori quotidiani americani – critica il modo in cui il presidente ha sfigurato la conferenza stampa quotidiana sulla pandemia, trasformandola nello sfogo grottesco di un egomaniaco: “A un certo punto durante le ultime tre settimane Trump deve avere per qualche ragione raggiunto la conclusione che i briefing potevano essere una buona occasione per dare mostra di sé. Forse nella sua testa sono diventati dei sostituti ai comizi che non può più fare per via dei rischi per la salute pubblica. Forse è la frustrazione per l’adulazione dei media nei confronti delle performance quotidiane del governatore di New York Cuomo. Qualunque sia la ragione, le conferenze stampa sono incentrate solo sul presidente”. Niente di nuovo: lo show è Trump. Ma le performance sono sold-out? La gente apprezza lo spettacolo? Non secondo i sondaggi. Trump non ha praticamente goduto dell’effetto tonificante che di solito accompagna i leader nei momenti di emergenza nazionale, quello che i politologi chiamano effetto rallyround-the-flag. Nella prima fase della pandemia americana il suo indice di popolarità è cresciuto di qualche punto, ma poi si è rapidamente assestato attorno al 45 per cento in concomitanza con la decisione presidenziale di tornare al consueto clima di polarizzazione e scontro. Ad eccezione del primo ministro spagnolo, il fragilissimo Pedro Sanchez, la cui gestione della crisi è severamente punita nei sondaggi, tutti i capi di governo occidentali godono di una crescita dei consensi, compresi Giuseppe Conte, Boris Johnson e, in misura minore, anche Emmanuel Macron. Per tacere poi di leader come Angela Merkel. Trump è in compagnia dei Jair Bolsonaro e dei Shinzo Abe.

Per i presidenti americani l’effetto flag è storicamente anche più pronunciato nei momenti di emergenza nazionale rispetto ad altri paesi. Franklin Delan Roosevelt ha guadagnato un’immensa popolarità dopo l’attacco a Pearl Harbor, Jimmy Carter ha raggiunto il massimo consenso all’inizio della crisi degli ostaggi in Iran, il picco George H.W. Bush lo ha toccato in mezzo all’operazione Desert Storm, mentre Dubya ha unito al massimo grado il paese dopo l’11 settembre 2001. Spesso i presidenti che hanno goduto di una crescita nella popolarità erano gli stessi Il format è lo stesso da sempre. Le sue serate fanno il tutto esaurito. E se cala, la soluzione è darne ancora di più al pubblico Ha provato a negare e minimizzare la pandemia, ma quando la minaccia si è fatta ineludibile, l’ha politicizzata  che si erano macchiati di omissioni o negligenze nella preparazione di misure per evitare gli eventi disastrosi venuti poi appunto la capacità di unire il paese nel momento in cui si trova ad affrontare una minaccia collettiva. Diversi governatori, come Cuomo e Gavin Newsom della California, sono premiati per il modo in cui gestiscono la situazione ora, non per quello che hanno (o non hanno) fatto un mese fa in preparazione al Covid-19. Trump non è leader che unisce intorno a qualcosa che non porta il suo nome, che sia un albergo o un sussidio di disoccupazione, e non lo è per scelta programmatica, per vocazione al protagonismo da reality, per strategia narcisistica collaudata nel tempo. Come gli elementi che si stanno dipanando in queste settimane e mesi influenzeranno le elezioni di novembre è impossibile dirlo al momento, ma alcuni elementi si stanno chiarendo. Il coronaviurus è riuscito a compattare il fronte democratico attorno a Joe Biden, passando di fatto sotto silenzio il trauma della sinistra radicale che ha visto ancora una volta scivolare via la candidatura dopo una prima fase di illusioni. Biden gode dell’endorsement di Bernie Sanders, di Elizabeth Warren e del resto dell’area, oltre naturalmente a quello di Barack Obama, che è stato uno dei maggiori talenti nella politica contemporanea a veicolare l’idea dell’unità nazionale e dell’abbandono delle partigianerie in nome di valori condivisi. Non va dimenticato che è stato eletto la prima volta nel mezzo della tempesta. Trump è invece rimasto fedele alla sua massima di un tempo su “lo show sono io”, quella che gli ha garantito fin qui sopravvivenza e un qualche grado di consenso, almeno presso i suoi ultrà, in mezzo a scossoni politico-istituzionali che avrebbero messo alla prova qualunque leader. Ma in tempi di paura, crisi, distanziamento sociale e depressione esistenziale, il reality con un solo personaggio sulla scena è più grottesco che rassicurante.

Mattia Ferraresi – Il Foglio – 18 aprile 2020

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