Molti contagi, molto onore

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Questo lunedì di Pasqua il Brasile si è svegliato con il Cristo redentore di Rio de Janeiro avvolto in un camice bianco, con tanto di stetoscopio appeso al collo. Un omaggio ai medici e agli operatori sanitari impegnati nella lotta al virus. Soltanto due giorni prima, sabato, il presidente Jair Bolsonaro si era presentato all’inaugurazione dell’ospedale da campo allestito per gestire l’emergenza pandemica ad Águas Lindas, nello stato del Goiás, senza mascherina e aveva creato un assembramento con i suoi sostenitori davanti all’entrata. Mentre il presidente stringeva le mani e abbracciava i fan a favore di camera, il ministero della Salute comunicava che i morti erano arrivati a quota 1.124, triplicati in una sola settimana. Un capo di stato che nega gli effetti devastanti ai quali può condurre la pandemia, e lo fa avendo alle spalle un ospedale con duecento posti di terapia intensiva pronti per l’arrivo di pazienti Covid-19, è il simbolo del paradosso a cui il Brasile è costretto ad assistere da due mesi. Il governo brasiliano è tra i pochi in America Latina a non avere ancora decretato una quarantena generale a livello nazionale, assieme alla sospensione di tutte le attività produttive non essenziali. “Chi non esce per paura del virus è un codardo”, ha ripetuto il presidente brasiliano ancora pochi giorni fa. Bolsonaro è l’ultimo dei sovranisti a perseverare nella linea che punta a minimizzare l’emergenza. Oggi è il presidente più negazionista al mondo. In una prima fase aveva potuto contare sulla compagnia di Donald Trump e di Boris Johnson, preoccupati entrambi dal rischio di un collasso economico, e Bolsonaro in conferenza stampa citava il suo omologo americano e ripeteva che: “La cura non può essere peggiore del male”. Oggi sia Johnson sia Trump hanno compreso la serietà della situazione e – allo stesso tempo – che nei sondaggi il tentativo di sedare presunti “allarmismi” si rivela controproducente. Non Bolsonaro, che in questi giorni è stato doppiato dal suo ministro della Salute Luiz Henrique Mandetta in quanto a consenso popolare. È Mandetta l’uomo della fermezza, lo sponsor del lockdown a livello nazionale, colui che segue pedissequamente le prescrizioni dell’Oms e che davanti alle telecamere indossa la mascherina e rispetta il metro di distanza. E’ anche il volto dei discorsi alla nazione in diretta televisiva per aggiornare i cittadini brasiliani sulla curva pandemica. Le politiche del ministro della Salute, secondo i sondaggi, avrebbero l’approvazione del 76 per cento dei cittadini. Con l’arrivo della pandemia Bolsonaro ha visto sgonfiarsi il sostegno dei media e quello popolare. Nelle grandi città – e nello stesso quartiere che ospita Palácio do Planalto, il palazzo presidenziale a Brasilia – i cittadini hanno accolto le sue uscite infelici (“quella che stiamo vivendo è come un’influenza stagionale, non ha senso chiudere tutto”), con grandi sbattimenti di pentole fuori dalla finestra in segno di protesta. A livello istituzionale Bolsonaro si ritrova isolato. Ha tutti contro, a cominciare dai suoi ministri, e il già menzionato Mandetta, alla Sanità, si è trasformato nel suo principale avversario politico. L’esercito nazionale, lo stesso da cui Bolsonaro proviene, vorrebbe commissariarlo e – secondo alcuni rumors – persino sostituirlo. Sia l’Areonautica sia le Forze armate si sono rivolte direttamente al vicepresidente Hamilton Mourão, un generale. E hanno organizzato riunioni speciali in cui vagliare la sussistenza di presupposti giuridici per disarcionarlo, almeno stando a quanto alcuni dei partecipanti hanno raccontato al quotidiano spagnolo El País e al giornalista argentino Horacio Verbitsky. I primi giorni di aprile, su “Defesanet” – la principale agenzia di stampa sulla sicurezza del Brasile – era addirittura comparsa la notizia che il generale Walter Souza Braga Netto fosse stato nominato “presidente operativo” della Repubblica brasiliana. Secondo l’agenzia, al generale Netto sarebbe spettata la direzione del governo sino a quando non si fosse esaurita completamente l’emergenza coronavirus. Sempre secondo l’agenzia , “la nuova missione informale” era il frutto di un accordo tra vertici militari, ministri del governo Bolsonaro e lo stesso presidente. Di questo accordo non c’è stata alcuna conferma ufficiale, ma la notizia continua a girare su giornali e siti di informazione locali. L’approccio messianico del presidente ha insomma preoccupato un po’ tutti, tranne uno dei partiti più forti della nazione. Quello degli evangelici, radicati soprattutto nelle periferie e nelle favelas, che hanno continuato finché è stato possibile a celebrare i loro riti. Insistono su un punto, lo strumento più efficace per evitare una piaga sarebbe quello di pregare tutti insieme per tenere lontano Satana. Un invito agli assembramenti veicolato ai credenti, alle loro famiglie e alle loro reti di amici e colleghi soprattutto via gruppi Whatsapp, lo strumento con cui avevano contribuito in modo rilevante alla campagna elettorale di Bolsonaro e alla sua vittoria. Il presidente li ha ricompensati con un decreto che ripristinava il diritto a riunirsi per le celebrazioni religiose, a prescindere dalle ordinanze di lockdown predisposte dai governatori locali. Un decreto subito dichiarato inammissibile dal Tribunale supremo. È infatti il sistema costituzionale brasiliano l’argine più forte ai propositi di riapertura del presidente, Il presidente accusa di codardia “chi non esce”, ma il ministro della Sanità che vuole il lockdown lo ha doppiato nei consensi. Con il Bolsonaro messianico restano gli evangelici delle periferie e delle favelas, che vivono attaccati ai loro gruppi Whatsapp e il forte federalismo che lo contraddistingue. Lo scontro tra potere centrale e governatori locali su quali misure adottare anche in Brasile non si è fatto attendere. Questo perché tra i governatori – a qualsiasi partito essi appartengano – nessuno sta seguendo la linea Bolsonaro. Il più preoccupato è il social-democratico João Dória, governatore dello stato di San Paolo, che con i suoi quarantacinque milioni di abitanti è l’epicentro della pandemia, dove la curva è più veloce e dove il numero di contagiati raddoppia ogni quattro giorni. A San Paolo la scorsa settimana hanno manifestato in strada gruppi di sostenitori di Bolsonaro, ovviamente senza indossare le mascherine e senza rispettare le prescrizioni sul distanziamento imposte da Dória, di cui chiedono le dimissioni insieme alla immediata riapertura dei negozi. Per fortuna, il presidente della Repubblica non può pretendere la riapertura degli esercizi commerciali che hanno chiuso per disposizione dei singoli stati. Un lockdown “leggero” – estimatori di Bolsonaro permettendo – rimane quindi garantito. “Leggero” perché, ad esempio, è possibile spostarsi da un comune all’altro senza essere sanzionati. E’ un rischio che teme più di chiunque altro Wilson Lima, governatore dello stato di Amazonas. Nella regione che amministra le strutture sanitarie non sono numerose, e il novanta per cento dei letti è già occupato da pazienti Covid-19. Le popolazioni indigene che abitano vaste porzioni di quel territorio sono già più a rischio per quanto riguarda le normali patologie, sarebbe vitale evitare che chi proviene da altre regioni le contagi. Lo stato di Amazonas è al tredicesimo posto per numero di abitanti, ma oggi è al quarto posto nella classifica degli stati con il maggior numero di pazienti Covid-19. “La nostra è davvero una corsa contro il tempo”, è l’allarme che ha lanciato il governatore Lima.

Cecilia Sala – Il Foglio – 15 aprile 2020

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Crescita, l'Italia deve fare di più

Le nostre esportazioni non soffriranno molto purché gli esportatori sappiano riorientare l’offerta verso i paesi che hanno maggiori prospettive di crescita. Malgrado ciò, la crescita dell’Italia potrebbe restare modesta, incapace di generare la necessaria occupazione. Pur essendo un paese “ricco”, anche il nostro si dibatte da 20 anni in una trappola dalla quale non riesce a uscire. Istituzioni barocche e inefficienti, una cultura diffusa che non coglie vincoli e opportunità espressi dall’economia globale e da un ambiente tecnologico in evoluzione, una politica per ora incapace di sintesi e di indicare mete ambiziose e credibili hanno prodotto dapprima tre lustri di crescita asfittica e poi la più grave caduta del reddito di tutta la storia unitaria. C’è però oggi un’occasione per uscire dalla trappola. Se la ripresa non potrà reggersi a lungo sulle sole spalle della moneta a buon mercato, dell’euro debole e del ribasso dell’energia è altrettanto vero che questa congiuntura – italiana e internazionale – sta creando un filo di ottimismo che consente, se colto, di fare le cose che servono a fare uscire l’Italia dalla trappola nella quale è caduta oltre vent’anni fa. Un articolo di Gianni Toniolo su Il Sole 24 Ore.

   

L'economia mondiale rallenta, rischi per l'Italia

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Argentina, Brasile e Venezuela in forte crisi

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Il Venezuela si avvia verso il default a causa del crollo del valore del petrolio, l'Argentina fa i conti con un'impennata dei prezzi e non riesce a uscire dall'impasse dei Tango bond, il Brasile perde competitività e affronta uno scandalo tangenti. Si salvano solo Cile e Colombia, mentre Cuba spera nelle ritrovate relazioni con gli Usa ma deve rinunciare al greggio low cost che arrivava da Hugo Chavez. Un articolo di Mauro Del Corno su il Fatto Quotidiano.

Paesi latino-americani in affanno

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