Pop/Beat - Italia 1960-1979. A Vicenza un'inedita mostra

  • Pubblicato in Cultura

Pop Art e Beat Generation sono una combinazione alla roulette insieme mai giocata. Quando parliamo di Pop Art e Beat generation l’immaginario si collega al boom economico degli anni ‘60 e alla valanga di elettrodomestici, televisori e automobili che modificarono lo stile di vita delle persone. Pensiamo all’arte che seppe condensare i cambiamenti sociali e culturali  in emblemi e icone e  alla musica che nella declinazione italiana e popolare accese il jukebox per farci ascoltare le canzoni e i motivi di Patty Pravo, Mina, Gianni Morandi e Celentano …  

La parola Beat in particolare si sposa a quello spirito di ribellione e desiderio di cambiamento delle nuove generazioni negli Stati Uniti, a partire dagli anni Cinquanta. Quello che è mancato finora e per questo possiamo parlare a buon diritto di inedito è un accostamento di ciò che significa Pop Art e Beat Generation nel nostro paese. In Italia la nuova espressione artistica si legherà infatti alla tradizione nazionale, all’avanguardia futurista e al paesaggio. Pop e Beat, qui da noi, si contraddistinguono per una visione ottimistica del futuro.

La rassegna che è stata annunciata, oggi, alla stampa nella Sala degli Stucchi di Palazzo Trissino, a Vicenza e che sarà visibile a partire dal 2 marzo fino al 30 giugno nella Basilica Palladiana, è un progetto scientifico che mostrerà l’unicità della Pop Art e della generazione Beat italiana. L’esposizione che ha la curatela dell’artista Roberto Floreani, è stata promossa dal Comune di Vicenza e da Silvana Editoriale.

La sezione dedicata alla Beat generation, i famosi Capelloni, ci mostrerà che questo  sentire comune non era solo ristretto alle due città di Torino e Milano, ma farà emergere il ruolo significativo avuto dall’Antigruppo siciliano guidato dalla figura carismatica di Nat Scammacca.  Torino, la capitale del giovanilismo alternativo, divenuta meta di quei randagi agnelli angeli fottuti, come ha scritto Gianni De Martino, uno dei protagonisti di quegli anni, è anche il luogo dove si concentrano illusioni e speranze di cambiamento di una generazione.

Nel 1964, il libro curato di Fernanda Pivano, Poesia degli ultimi americani sposta l’interesse dei giovani su scrittori  che  mostrano una volontà di ribellione rispetto al passato. Sono i famosi Jack Kerouac, Lawrence Ferlinghetti, Gregory Corso e Allen Ginsberg che dirà a Gianni De Martino “che il Beat è morto e che quelli come lui sono i loro nipotini”. Libertà di sognare, che è il sottotitolo dell’esposizione, spiega invece come verranno declinati allora  in Italia tutti quei nuovi fermenti culturali, politici e sociali che si erano sviluppati.

Sarà l’Antigruppo siciliano di Nat Scamacca, in particolare, ad arricchire la Beat italiana di un respiro nazionale. La sua Estetica Filosofica Populista sarà in chiaro contrasto con la Beat salottiera ed egemonica del gruppo ’63, legata ai grandi editori del Nord e ai concorsi letterari e meno attenta alla componente popolare.  

La musica dei protagonisti di quel periodo, durante la mostra,  sarà messa in relazione, amplificata in loop, con gli spazi espositivi. Vedremo le prime edizioni dei poeti Beat, alcune delle autentiche rarità, firmate in buona parte anche dagli autori. Sarà data voce ai testimoni che allora si sono distinti diventando dei personaggi iconici. Essi saranno invitati nei palazzi simbolo della città, quali il Teatro Olimpico, quello Comunale e Palazzo Thiene.

La mostra realizzerà quindi  un progetto di pittura, scultura, video e letteratura mai visto in Italia. La sezione Pop comprenderà un centinaio di opere di trentacinque artisti e saranno preferiti i grandi formati. “Una mostra viva, comprensibile, popolare che riporti nella collettività la leggerezza e la propositività sociale di quegli anni, attualizzando quella “Libertà di sognare …” ha commentato il curatore Floreani.

                                                           Patrizia Lazzarin

Leggi tutto...

American Beauty, da Robert Capa a Bansky

  • Pubblicato in Cultura

AMERICAN BEAUTY, la mostra che si è aperta in questo fine settimana a Padova, al Centro Culturale San Gaetano, riporta alla mente per il  titolo e i significati il film omonimo del 1999 scritto da Alan Ball e diretto da Sam Mendes. Gli Stati Uniti sono un paese di grandi miti, ma che presentano anche forti contraddizioni. Un sogno durato troppo a lungo? «America I’ve given you all and now I’m nothing», leggiamo nella  splendida poesia di Allen Ginsberg.

La bandiera statunitense diventa quasi uno stratagemma, sicuramente l’occasione per svelare la complessità di una nazione durante i suoi ultimi cento anni. Il suo popolo è il protagonista del racconto che si svela attraverso passioni, delusioni, guerre e successi, come lo sbarco sulla luna. Ritroviamo una bandiera che negli USA appare ovunque: esposta sui municipi, sulle facciate delle scuole e nei negozi, stampata sui francobolli delle Poste americane o cucita sulle maglie delle squadre nazionali. Lo scrive Matthias Harder nel catalogo dell’esposizione, ma lo capiamo subito, attraversando le sale della mostra dove immagini significative campeggiano restituendoci uno spaccato della società americana dalla seconda guerra mondiale ad oggi.

Una di queste è sicuramente la celebre immagine di propaganda di Joe Rosenthal che esaltava la vittoria americana di Iwo Jima sul Giappone nel 1945.  Qui si vedono alcuni soldati americani innalzare una bandiera di vittoria sui resti del campo di battaglia. Flag, Santa’s Ghetto, la serigrafia del 2006 dello street artist Banksy, diventa invece una caricatura di quel momento, a segnare un cambiamento di significati che sembra suscitare malinconia. In essa appaiono  un gruppo di bambini che si arrampicano su una vecchia automobile malconcia per innalzarvi la bandiera americana. Nero e argento sono i soli colori che compongono Flag Silver, mentre sullo sfondo appare un grosso sole  che non riscalda. Qui la guerra cessa di essere buona e si scopre per il suo carattere assurdo, rivelando la miseria che si nasconde dietro di essa.

La bandiera americana è il simbolo di una potenza che nell’ultimo secolo ha saputo caratterizzare lo scenario mondiale, a partire dal suo primo affacciarsi nella prima guerra mondiale, ma che è stata determinante nel successivo conflitto planetario. Da quella piccola bandiera trattenuta nella bocca di un cane di un silenzioso venditore ambulante, in una foto del 1980 di Louis Faurer alle Donne che cuciono in fabbrica gli stendardi, in una foto del 1940 di  Margaret Bourke-White, dal Ragazzo con bandiera del 1949 di Ruth Orkin, dove appare un giovanissimo, quasi un bambino che stringe con energia un vessillo,  ai Boy Scout Jamboree del 1960 di Henri Cartier-Bresson, in cui le figure di una gioventù vivace si alternano, ritmate, a giganti bandiere, tutto contribuisce a mostrare il fervore di una nazione che cresce e crede.

Il rovescio della medaglia di uno Stato che è ben descritto anche nei suoi simboli di potere economico e nei volti di alcuni presidenti  molto noti  come John Kennedy, George Bush Junior o Donald Trump, sono le lotte intestine causate dai conflitti razziali e alcune guerre come quella in Indocina che hanno causato molti morti anche fra gli americani. Le comunità afroamericane  occupano gli strati  più bassi della società ed esercitano professioni poco pagate e prive quasi di garanzie sociali.   Nel 2013 ha iniziato a circolare l'hashtag #BlackLivesMatter, traducibile in “le vite delle persone nere contano”. Dall'hashtag ha preso il via un movimento per i diritti civili di grande attualità.  Le fotografie Sulle strade per Selma di Steve Schapiro, della metà degli anni Sessanta, ricordano le lotte per il diritto di voto degli afroamericani. L’undici settembre con l’attacco alle Torri Gemelle segna poi un altro momento storico  foriero di guerre.

Vediamo gli  States interpretati attraverso i sentimenti e la creatività di  120 artisti internazionali. Si parte dal bianco e nero, con maestri assoluti come Henri Cartier-Bresson, Robert Capa, Diane Arbus ed Elliott Erwitt, per passare alle immagini a colori di Steve McCurry, Vanessa Beecroft e Annie Leibovitz, spiega nel catalogo, edito da Grafiche Antiga,  il curatore della mostra Daniel Buso. Incontriamo creazioni dei maestri della Pop Art  come James Rosenquist, Robert Indiana e Andy Warhol, fino ai protagonisti della Street Art: Keith Haring, Mr. Brainwash, Obey e Banksy.

La bandiera statunitense venne adottata nel lontano 1777. Se  nel 1777 vi erano solo 13 stelle e 13 strisce che facevano riferimento alle antiche colonie, successivamente con l'aggiunta di altri Stati, le stelle sono aumentate fino a diventare 50 nel 1960, mentre sono rimaste invariate le strisce.  Organizzata da ARTIKA in collaborazione con Kr8te ed il Comune di Padova, Assessorato alla Cultura, la rassegna rimarrà aperta fino al 21 gennaio 2024.

Patrizia Lazzarin, 17 settembre 2023

Leggi tutto...

Bob Dylan al Maxxi di Roma

  • Pubblicato in Cultura

Blues, ballate, canzoni di Bob Dylan sono patrimonio comune di intere generazioni. Joan Baez, l’altra cantante folk che divise con Dylan l’idolatria delle larghe minoranze, disse: “Bob esprime ciò che io e molti altri giovani sentiamo, ciò che vogliamo dire. Di solito le canzoni di protesta contro la bomba, contro il pregiudizio razziale e contro il conformismo sono stupide, prive di bellezza, ma le canzoni di Bob sono forti come poesia e forti come musica. E, Dio mio, come sa cantare”! Insieme agli adolescenti, lo applaudirono gli intellettuali che allora si chiamavano hip. Allen Ginsberg, il poeta che negli anni ‘50 aveva portato la poesia dalla campagna agli agglomerati urbani disse: “scrive una poesia migliore di quella che scrivevo io alla sua età. É un genio menestrello dell’età spaziale piuttosto che un vecchio poeta da biblioteca”. Diventa estremamente intrigante e curiosa la mostra che si è aperta in questo mese al MAXXI di Roma dedicata a Bob Dylan e che indaga un aspetto poco conosciuto del suo genio creativo.

Retrospectrum, a cura di Shai Baitel, è la prima retrospettiva in Europa dedicata alle opere di arte visiva di una delle più importanti icone della cultura contemporanea. Dopo essere stata al MAM di Shanghai e al Patricia & Phillip Frost Art Museum di Miami, la rassegna approda a Roma in una versione completamente ripensata per interagire con gli spazi all’avanguardia del MAXXI di Zaha Hadid. Sono esposte oltre 100 opere tra dipinti, acquerelli, disegni a inchiostro e grafite, sculture in metallo e materiale video che spaziano fra oltre 50 anni della sua attività. Dice lo stesso Dylan: “È molto gratificante sapere che le mie opere visive siano esposte al MAXXI, a Roma: un museo davvero speciale in una delle città più belle e stimolanti del mondo. Questa mostra vuole offrire punti di vista diversi che esaminano la condizione umana ed esplorano quei misteri della vita che continuano a lasciarci perplessi. È molto diversa dalla mia musica, naturalmente, ma ha lo stesso intento”.

Le sue opere d’arte visiva raccontano, come egli scrive nel catalogo edito da Skira: “il paesaggio americano come lo si vede attraversando il paese. Restando fuori dalle grandi arterie e percorrendo solo strade secondarie, in totale libertà”. Grandi metropoli, paesaggi brulli e sterminati, binari ferroviari, strade aperte, automobili, camion, pompe di benzina, motel, baracche, bar, negozi, cortili, cartelloni pubblicitari, insegne al neon: come nelle sue canzoni e nelle sue poesie, anche nei suoi dipinti Dylan rende poetica l’America più profonda. “Scelgo le immagini per ciò che significano per me – scrive -. Questi dipinti hanno il realismo dell’istante, arcaico, statico perlopiù, ma comunque percorso da un fremito. Sono il mondo che vedo o che scelgo di vedere, di cui faccio parte o in cui entro”. Con le sue rappresentazioni, dalla grande metropoli alle desolate distese attraversate da strade senza confini, Dylan evoca una visione profondamente americana. I suoi innumerevoli viaggi si traducono non solo in esperienza personale, ma anche in occasione per  raccontare, con le parole e con il disegno, il paesaggio americano e le vite dei suoi abitanti.

L’esposizione si chiude con la serie delle sculture in ferro, strutture funzionali composte da oggetti e attrezzi convertiti a nuovo uso e che richiamano, insieme al ricordo dell’infanzia di Dylan trascorsa nella zona mineraria del Nord del Minnesota, anche il passato industriale degli Stati Uniti. Il percorso di mostra si articola in otto sezioni che ripercorrono il viaggio dell’autore nelle arti visive e, al contempo, ci fanno entrare in contatto con la sua creatività di musicista, poeta e artista: Early Works, The Beaten Path, Mondo Scripto, Revisionist, The Drawn Blank, New Orleans, Deep Focus, Ironworks. Mondo Scripto presenta alcuni dei testi più noti di Dylan, trascritti personalmente dall’artista e accompagnati dai suoi disegni a grafite. Queste combinazioni di parole e immagini sottolineano il legame profondo e diretto tra la sua arte visiva e le sue composizioni scritte e illustrano  quel dialogo fra immagine e testo, passato e presente che ha cambiato il rapporto tra musica e parole.

New Orleans è la serie che immortala il legame tra Dylan e New Orleans, città natale del jazz, situata all'estremità meridionale della Route 61, una delle strade più famose d'America, nota anche come "The Blues Highway", la strada del blues  che attraversa da nord a sud la sezione centrale degli Stati Uniti, passando per i luoghi dell’infanzia di Dylan. I gesti e le abitudini dei suoi cittadini sono per lui fonte di ispirazione che si traduce, sulla tela, in scene di vita quotidiana dove viene privilegiato uno sguardo capace di creare una certa intimità tra i soggetti ritratti e chi li osserva.Il curatore Shai Baitel spiega: “Questa mostra, che abbraccia tutta la carriera di Bob Dylan, presenta il suo approccio unico all'arte visiva e la sua padronanza della pittura, del disegno e della scultura. Offre l'opportunità unica di vedere il viaggio creativo di Dylan attraverso il tempo e i luoghi, tra cui la scalinata di Piazza di Spagna, immortalata nell'opera Quando dipingo il mio capolavoro”. Verrà donata al MAXXI un’opera dell’artista che arricchirà la collezione pubblica del museo. L’opera è nata intorno alla celebre canzone del 1965: Subterranean Homesick Blues che comprende il primo video musicale della storia. Nel video, Dylan fa cadere al ritmo della musica una serie di fogli con il testo della canzone, scritti la sera prima da un gruppo di amici fra cui Allen Ginsberg, riconoscibile nel film. Nel 2018, Dylan ha riscritto questi testi su 64 cartelli, allestiti a comporre una parete di fianco allo schermo. Subterranean Homesick Blues Series unisce così arti visive, parole e musica. La rassegna sarà visibile fino al 30 aprile 2023.

Patrizia Lazzarin, 29 dicembre 2022

Leggi tutto...
Sottoscrivi questo feed RSS

Newsletter

. . . .