Nella moda si gioca l’emancipazione femminile

Nella moda si gioca l’emancipazione femminile

A Milano capitale della moda italiana, dove vi è il maggior interscambio tra stilisti, aziende, professionisti del settore e appassionati di stile, a Palazzo Morando, settecentesca dimora nobiliare, sede di un museo dedicato alla città, possiamo scoprire un assai interessante percorso nella moda del Novecento raccontato dagli abiti e dagli accessori appartenenti alle sue collezioni. Momenti di Moda a Palazzo Morando. Dal busto alla salopette a cura di Enrica Morini, Margherita Rosina e Ilaria De Palma, racconta l’emancipazione femminile da un particolare punto di vista, mostrando come  la libertà di indossare  nuovi indumenti comporti in primis una maggiore naturalezza e benessere per la vita di ogni donna. L’antico Palazzo riapre i battenti delle sale dell’Ala Nuova con un’esposizione, la cui finalità è innanzitutto far conoscere le raccolte del museo. La collezione del Comune di Milano comprende  oltre 6.000 pezzi tra abiti e accessori che vanno dal XVI al XXI secolo. Quando negli anni Ottanta si cominciava a ragionare per un Museo della Moda a Milano, la prima stilista che donò una propria creazione storica “al costituendo Museo” fu  la famosa Mary Quant, l’inventrice della minigonna.

Divisa in sette sezioni, la rassegna ci permette di viaggiare nel tempo permettendoci di capire attraverso abiti, cappelli, borse e scarpe  un diverso modo di intendere il corpo femminile. Le protagoniste del Novecento furono donne  che  anche attraverso gli abiti, la pettinatura e il trucco  spiegarono i  profondi mutamenti dei tempi e del ruolo femminile. La moda fu espressione di  questo processo di emancipazione inventando forme e linguaggi sempre diversi. Le riviste diedero ampio spazio alle stoffe all’ultima moda fino a quando l’abito artigianale su misura non fu definitivamente sostituito dal prêt à porter. Per quasi tutto il Novecento i negozi di tessuto a metraggio erano un punto di riferimento per le sartorie e per una clientela che rinnovava il proprio guardaroba ispirandosi ai modelli proposti dai redazionali e dalla pubblicità delle ditte produttrici di sete, lane e cotoni. Tra le prime riviste di questo genere si possono ricordare: “Les Modes”, “Fantasie d’Italia”, “La donna” o “Fili Moda”. Nei primi decenni del Novecento continuarono a convivere modi di vestire di concezione opposta. Da un lato il rigido busto con stecche di acciaio o di balena che dalla prima metà dell’Ottocento limitava la gestualità femminile e ne modificava la silhouette,  dall’altro la moda nata da qualche decennio in Inghilterra che lo combattevano in nome di uno stile di vita più sportivo e sano. Fu merito di un artista e di sua moglie, Mariano ed Henriette Fortuny, la creazione del primo abito moderno da indossare senza busto. Alla metà del primo decennio del Novecento, Fortuny, un artista spagnolo che si era stabilito a Venezia nel 1889 e la sua compagna Henriette Nigrin furono affascinati dai reperti portati alla luce dagli scavi archeologici che si stavano compiendo a Delfi e a Creta e li trasposero nell’abbigliamento femminile. Nel 1907 realizzarono l’abito Delphos ispirato al chitone dell’Auriga di Delfi e alla Venere del Trono Ludovisi. Nel 1909 Fortuny brevettò sia il modello dell’abito sia il metodo per realizzarne la plissettatura. Si trattava di un capo rivoluzionario che prevedeva la totale eliminazione di busto e strati di biancheria, esaltando la bellezza naturale del corpo e di ogni suo movimento. Per quasi mezzo secolo fu infatti prodotto senza subire sostanziali modifiche per una clientela di donne colte e cosmopolite.

Fra il 1914 e il 1918  la prima guerra mondiale  provocò la temporanea chiusura delle case di moda parigine, ma anche l’accorciamento delle gonne. L’impiego di giovani donne nella cura dei feriti impose un modo di vestire pensato per il lavoro. I grembiuli delle crocerossine e le divise di taglio maschile entrarono nei guardaroba delle signore. L’icona degli Anni Venti è una ragazza emancipata, androgina, con i capelli tagliati à la garçonne, la cloche calata sugli occhi truccati e la gonna sempre più corta a mostrare le calze e le scarpe. Per lei la moda creò abiti adatti al movimento, allo sport e al ballo: la tunica diritta e il vestito in sbieco. Messa a punto da Madeleine Vionnet in anni di lavoro, la tecnica dello sbieco, che sfrutta l’elasticità del tessuto usato in diagonale, dava agli abiti una vestibilità nuova. Alla metà del decennio, quando le sartorie iniziarono a padroneggiarla, tunica e sbieco si combinarono: le gonne furono arricchite con godet e pannelli di forma irregolare che fluttuavano a ogni movimento. La crisi del 1929 spazzò via gli Anni Folli. La rovina di molti patrimoni e i dazi imposti sulle importazioni di lusso negli Stati Uniti costrinsero l’haute couture a una svolta. Il nuovo ideale fu una giovane donna atletica, sicura di sé, capace di usare l’abbigliamento per affrontare le difficoltà e per sedurre, incarnato dalle dive di Hollywood. “Che il seno torni ad avere il posto che gli compete, si imbottiscano le spalle. Si rimetta la vita dov’era! Si allunghino le gonne!” decretò Elsa Schiaparelli.

Per la sera entrarono in scena abiti che scolpivano il corpo grazie alla sinuosità dello sbieco. La nuova parola d’ordine fu “eleganza”. Gli anni successivi alla Prima guerra mondiale furono un periodo particolarmente interessante nella storia del tessile di abbigliamento, poiché accanto alle fibre naturali quali lana, seta, cotone, lino, ci fu un massiccio uso di fibre artificiali. Questo avvenne in particolare in Italia, che ne era grande produttrice, quando il fascismo dalla metà degli anni Trenta adottò l’autarchia anche nel settore tessile. Il rayon, ottenuto dalla trasformazione chimica della cellulosa, si caratterizza per una lucentezza serica che lo impone come sostituto più economico della seta. Nonostante il clima di guerra, alle sfilate dell’haute couture parigina del gennaio 1940 assistettero molti compratori americani. Non sarebbero più tornati fino alla liberazione dai nazisti della capitale francese. Per cinque anni l’abbigliamento europeo fu dominato dalle dure condizioni di vita e dalla mancanza di materie prime  cui le donne sopperirono con ingegno. Tornata la pace, Milano diede un nuovo impulso alla moda: nuovi atelier diretti da giovani donne si aggiunsero alle poche sartorie degli anni Trenta ancora aperte. La moda veniva da Parigi e l’élite più raffinata voleva abiti originali, ma la creazione di modelli ispirati alle tendenze francesi affinò l’estro delle sarte. Nel 1951, alla prima sfilata di moda italiana organizzata a Firenze da Giovan Battista Giorgini parteciparono nove case di alta moda, quattro delle quali erano milanesi: Marucelli, Noberasco, Vanna, Veneziani. Imprenditrici aperte all’arte e alla socialità e attente agli affari, le nuove signore della moda meneghina avevano capito che il futuro dell’Italian Style si giocava all’estero.

Il successo della moda italiana nel mondo si fondò sull’alta moda, sulla boutique, sugli accessori, ma anche sull’alleanza dei suoi creatori con i setaioli comaschi e i lanieri piemontesi. Le industrie tessili italiane erano cresciute di importanza già tra le due guerre mondiali, ma negli anni Cinquanta, grazie anche agli aiuti economici e tecnologici legati al Piano Marshall, poterono in breve competere a livello europeo. Supportate da disegnatori abilissimi, caratterizzate da costi di produzione contenuti e da grande rapidità nelle consegne, riuscirono a penetrare anche sul mercato parigino.  I Baby Boomers e i movimenti giovanili sono stati invece i protagonisti degli anni Sessanta. La haute couture e le sartorie dovettero lasciare il passo a più moderne forme di consumo della moda: boutique e store frequentati dai più giovani proponevano abiti progettati da nuovi designer e prodotti in serie, mentre i grandi magazzini innovarono la loro offerta. Per l’Italia, fu l’inizio della stagione degli stilisti che, alleandosi con l’industria, trasformarono l’offerta di moda. Nell’aprile 1971, Walter Albini, Jean-Baptiste Caumont e Cadette presentarono le collezioni invernali a Milano, che in breve diventò la capitale di quel prêt à porter Made in Italy che avrebbe avuto tanto successo nei decenni successivi.

Patrizia Lazzarin, 14 gennaio 2023

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