Il fascino della luce: Previati tra futurismo e simbolismo

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Il rinnovarsi e il mutare dell’arte italiana tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento lo possiamo comprendere attraverso la mostra che ha riaperto i battenti in questi giorni a Ferrara: Tra Futurismo e Simbolismo: Gaetano Previati, all’interno dell’antica dimora degli Estensi: il castello che con la sua presenza, fatta di pietre e di storia, è una delle icone  di questa città. In questo scrigno che, come molti altri monumenti è ora visitabile dopo la forzata chiusura per l’emergenza sanitaria, si può conoscere la parabola artistica di questo pittore ferrarese, per molti aspetti rivoluzionario, di cui ricorre quest’anno il centenario della morte, e che fu capace di  confrontarsi con le tendenze culturali d’oltralpe nello sperimentare le possibilità espressive del colore e delle linee. Il percorso della rassegna, che ha la curatela della studiosa Chiara Vorrasi, inizia con  un bozzetto dell’artista: La resa di Crema, che è il racconto emblematico di una vicenda ambientata nel Medioevo, dove i corpi scolpiti dalla luce e quasi irriconoscibili, essi stessi fotoni di una materia corpuscolare, raccontano il finale dell’assedio più lungo  che ci sia stato  in Europa, in quelli che per antonomasia sono detti i secoli bui della civiltà: il Medioevo dei manieri espugnati con sanguinose e cruente battaglie a corpo a corpo. Questa tela che è quasi un’evocazione del dolore, che risuona attraverso le scaglie di colore e tocca  la nostra sensibilità divenne il trampolino di lancio del pittore ferrarese che vinse nel 1879 il prestigioso Premio Canonica per la pittura di storia. L’opera di Gaetano Previati è di una vastità e di un valore che sconcertano, affermava nel 1916 Umberto Boccioni, uno dei maggiori esponenti  del movimento futurista, quella corrente culturale dei primi  del Novecento che aveva recepito nella sua ideologia i cambiamenti dovuti all’enorme sviluppo della tecnologia e che aveva posto tra i suoi principi  il culto della velocità. L’arte di Previati precorreva i tempi e sembrava metter fine all’epoca del verismo. Dentro la mostra, promossa dal Comune di Ferrara e dalla Fondazione Ferrara Arte e che rimarrà aperta fino al 27 dicembre, noi possiamo osservare il processo evolutivo della storia  di Previati che diventa anche la cartina al tornasole della temperie culturale italiana. Cento opere fra dipinti ad olio, a pastello e disegni provenienti da raccolte ferraresi e da collezioni pubbliche e private, a cui si aggiungono documenti ancora inediti, illustrano le ricerche artistiche a lui contemporanee: dagli scapigliati, ai divisionisti e  ai simbolisti e, che riemergono nelle sue tele e disegni, nuove e di sapore diverso, come dopo un’immersione. Nel dipinto Hashish o Le fumatrici di oppio, dove belle fanciulle rimandano ad un harem, Previati si avvicina alle tematiche di Charles Baudelaire, il poeta maledetto francese che aveva evidenziato  il potere delle sostanze oppiacee di esaltare il senso dell’immaginazione e di inventare e costruire un’altra realtà. Sulla scia dei tempi I’artista sperimenta. Fondamentale sarà il viaggio a Parigi e  la sua amicizia con il  mercante di quadri  Vittore Grubicy che era in contatto con l’avanguardia belga ed olandese. Saranno importanti per lui la lettura degli articoli pubblicati su L’Art moderne, la rivista dell’associazione artistica belga Les XX a cui era abbonato Grubicy, che parlavano delle tecniche di divisione del colore, dove tocchi di materia colorata  venivano accostati senza essere mescolati, riuniti dall’occhio dello spettatore che veniva  affascinato dagli effetti luminosi. Nel PratoMattino i giochi di luce  e i tratti filamentosi traducono le emozioni del pittore poeta che ad esse ricorre, come soprattutto in Maternità, per svelare epifanie. Luce dorata, filamenti di colore e suggestioni diventano una triade che concentra i significati del sentire e sono il riflesso di una sensibilità attenta che inventa nuovi moduli espressivi. Nel 1889 il quadro Maternità, assieme all’opera Due madri  di Giovanni Segantini e ad Alba di Angelo Morbelli, annunciano la nuova arte, ideista o divisionista, che diventa dirompente nella società di allora per la sua carica di novità. Il piacere di comunicare il senso della bellezza diventa un compito del pittore – profeta che si avvale di alcune tecniche fornite dagli effetti della luce e da schemi circolari per riprodurre come, nella Madonna dei gigli, nella Danza delle Ore o nella prima Assunzione, l’idea dell’armonia universale. È lo svelarsi ancora una volta di qualcosa di straordinario, dove veniamo quasi trascinati sulle scie disegnate nel suo movimento da uno strumento musicale: un violino le cui corde sinuose   mutano in fili di un colore  che ci avvolge nel racconto del quadro. Con il ciclo della Passione Gaetano Previati raggiunge il culmine del suo rapporto di empatia con l’osservatore, grazie ai tagli ravvicinati e ai contrasti cromatici. La sua progettualità e i suoi studi si leggono nei suoi scritti. Nei Principi scientifici del divisionismo  egli spiega il suo alfabeto di segni e di colori capace di tradursi nel linguaggio delle emozioni. L’ultima creazione del ferrarese, nel salone di ricevimento della Camera di Commercio di Milano, si confronta con l’immaginario globale suggerito  dalle future vie di comunicazione. Le opere, quattro tele monumentali, intitolate le Vie del Commercio, come ad esempio, in Ferrovia del Pacifico, sembrano annunciare attraverso il senso di vertigine dovuto all’altezza e alla velocità, dentro una luce solare che riempie di scaglie d’oro le nostre pupille, la modernità capace di trasformare noi e il mondo che ci circonda.

Patrizia Lazzarin, 15 giugno 2020

 

Patrizia Lazzarin, 15 giugno 2020

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Giapponismo. Venti d’Oriente nell’arte europea

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Fino al 26 gennaio 2020, a Rovigo, a Palazzo Roverella, va di scena la mostra Giapponismo. La matita e tempera su carta dal tono trasparente grigio azzurro, simile ai colori di un cielo nuvoloso visto dall’oblò di un aereo e che possiamo ammirare all’ingresso della mostra che reca con sé il mistero e il fascino dell’Oriente. L’opera è del pittore Antonio Fontanesi e rappresenta l’Ingresso di un tempio giapponese. L’artista era stato chiamato ad insegnare assieme allo scultore Vincenzo Ragusa e all’architetto Giovanni Cappelletti all’Istituto d’Arte di Tokyo dopo la fine del periodo Edo, un’epoca durata dal 1603 al 1868, durante la quale il Giappone aveva limitato i suoi rapporti con l’esterno: nell’unico porto aperto di Nagasaki potevano entrare solo navi cinesi ed olandesi. La nuova epoca Meiji diversamente mostra interesse al mondo europeo: alla sua cultura e alle sue scoperte in campo scientifico. La rassegna: Giapponismo. Venti d’Oriente nell’arte europea. 1860-1915 che rimarrà aperta al pubblico fino al 26 gennaio 2020, nel gioco delle reciproche influenze fra paesi europei e Giappone, illustra la bellezza della contaminazione di stilemi orientali nelle opere pittoriche, nella ceramica, nella porcellana, nella scultura, nelle stampe e nell’arredamento del nostro continente. Il momento clou è contemporaneo allo sviluppo del Modernismo e del gusto Liberty, nella tendenza ad una maggior volontà di semplificazione delle forme che si alleggeriscono ed acquisiscono morbidezza. Le grandi esposizioni internazionali come la  r del 1862, quelle di Parigi nel 1867 e nel 1878, poi quelle in Europa Centrale a Monaco, Berlino, Vienna e Praga e per completare la mappatura dei luoghi, quelle in Italia, a Torino nel 1902 e a Roma nel 1911 sono il punto di partenza ma soprattutto d’osservazione del progetto espositivo di Palazzo Roverella. L’iniziativa promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo in sinergia con il Comune di Rovigo e l’Accademia dei Concordi ha la curatela, assieme al catalogo edito da SilvanaEditoriale, del dott. Francesco Parisi. Attraverso le grandi Fiere internazionali, ma anche grazie a figure come Siegfried Bing, proprietario della galleria Art Noveau, il quale aveva organizzato all’Istituto Nazionale delle Belle Arti di Parigi L’Exposition de la gravure Japonaise e aveva promosso la pubblicazione trilingue (in inglese, francese e tedesco) della rivista Le Japon Artistique, si diffonde il fascinosottile per l’arte giapponese che ritroveremo nella pittura di Vincent van Gogh, Paul Gauguin, nei pittori Nabis, negli artisti di area mitteleuropea come Gustav Klimt o ancora nell’arte del manifesto o fra i pittori italiani, soprattutto quelli residenti a Parigi. Kimoni, porcellane e ventagli giapponesi cominciarono ad essere acquistati dagli artisti e poi inseriti nei loro quadri. Il primo fu il pittore americano James Whistler che risiedeva a Parigi dal 1855 e poi i più famosi Claude Monet, Edouard Manet e Pierre-Auguste Renoir. Gli echi orientali nei quadri di Monet sono tanti: da quelli con figura come nella Japonaise, che ritrae la moglie, ai paesaggi come nella veduta marina La terrasse à Saint-Adresse del 1867, vicina alle stampe di Katsushika Hokusai o Il ponte giapponese sul laghetto delle ninfee del 1899che si ispira alla pittura di Utagawa Hiroshige. Si citano due dei maggiori artisti giapponesi vissuti a cavallo tra la seconda metà del Settecento e la prima metà dell’Ottocento. Il Giapponismo in quell’epoca alimenta anche una serie di pubblicazioni come ad esempio La maison d’un artiste di Edmond De Gouncourt. Si hanno letture di questa corrente differenti in letteratura come in arte: nell’Impressionismo, nel Simbolismo o nel Decadentismo. Alcune volte è evidente come nel Giardino dei susini di Van Gogh altre volte più celato. Il giapponismo lo possiamo rintracciare nei tagli obliqui delle composizioni come nella Donna che pulisce la tinozza o Donna che si pettina, visibile in mostra di Edgar Degas e nelle linee o nei colori dell’impressionista americana Mary Cassatt. Un influsso straordinario ebbero sicuramente le stampe ukiyoe sui manifesti del francese Henri de Toulose-Lautrec. Fra il gruppo degli artisti Nabis, avanguardia post-impressionista di fine Ottocento, in mostra sono visibili opere di Pierre Bonnard e Paul Ranson che furono battezzati dai loro colleghi le nabi japonard e le nabi plus japonard … Gli appellativi spiegano quanto fossero attratti dalla cultura giapponese. Le silhouettes di Bonnard si muovono infatti su spazi vuoti dove la profondità viene resa dalle minori dimensioni delle figure mentre per Ranson quella cultura diventa una fonte inesauribile per spunti d’arabeschi e suggerimento per distese di colore à plat. Si respira un’atmosfera reale d’Oriente nel Paesaggio con il monte Fuji in lontananza, che è anche il più grande vulcano del Giappone, nel dipinto di Emil Orlik, pittore praghese che andò in Giappone due volte per apprendere le tecniche tradizionali della xilografia ukiyoe, la quale permette di ritrarre persone che contemplano paesaggi sublimi e/o apparizioni celesti. In area italiana sono suggestive le opere Pioppi nell’acqua e Betulle in riva al fiume di Giuseppe de Nittis che nelle sfumature del fogliame, dell’acqua e dei rami sembra conoscere la tecnica antica del tarashikomi che prevede la stesura di uno strato di pittura su un altro non ancora asciutto e mentre sgocciola, produce particolari effetti di colore. Nelle ultime sale dell’esposizione i manifesti a colori E.&A. Mele del 1907 di Marcello Dudovich e Corriere della Sera del 1898 di Vespasiano Bignami, entrambi di grande effetto, esprimono una diversa consapevolezza e recezione della cultura orientale. Cultura che possiamo apprezzare mediante il diretto confronto grazie alle presenza in mostra di opere di autori giapponesi assai famosi come Utamaro e Hiroshige a cui sono state dedicate importanti rassegne in Italia e artisti spesso a noi meno conosciuti, ma sicuramente interessanti anche per lo scambio di idee e di stilemi che ha favorito la loro conoscenza nei secoli passati.

Patrizia Lazzarin, 30 settembre 2019

 

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