Arlecchino, muto per spavento

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Arlecchino muto per spavento in scena al Teatro Goldoni di Venezia fa rivivere una delle più antiche anime del Carnevale,  in una città popolata di  maschere e di gente venuta da ogni parte per partecipare a  questa festa. Lo spettacolo era molto atteso. Esso ha suscitato  risate catartiche, liberatorie, capaci di scoppiare improvvise come le invenzioni dei protagonisti della piece teatrale. Un’empatia immediata fra attori e pubblico nasceva dalle battute e dai lazzi degli attori che con nonchalance hanno saputo coinvolgere le persone in sala, andandogli vicino  e rivolgendosi direttamente ai presenti.  Chiedevano pareri su questioni vitali come quelle suggerite dall’intrigante Arlecchino, servitore del nobile Lelio, costretto a fingersi muto per non incappare nelle ire del diavolo.

Questo accorto  interagire ha fatto sentire il pubblico veramente parte  della rappresentazione scenica. Arlecchino un po’ tonto, credulone ma capace di mettere in gioco differenti stratagemmi per arrivare a ciò che desidera, veniva interpretato da Marco Zoppello, anche regista dello spettacolo. La sua mimica persuasiva, suadente, era spassosa e all’occorrenza si prendeva gioco della smania di guadagno del locandiere Trappola, impersonato dal molisano Pierdomenico Simone.  Arlecchino muto quando, come gli era stato intimato, non poté più proferir parola, si contorceva  allora dentro un corpo che prendeva a prestito  le forme del vocabolario delle smorfie e dei gesti per raccontare la sua storia o meglio  la sua versione di quella vicenda intrigata.

 In scena uno dei canovacci più acclamati nei teatri parigini del ‘700, quando i Comici italiani nel 1716, dopo quindici anni di forzato esilio, tornano protagonisti nella città della Lumiere. La compagnia era quella di Luigi Riccoboni, in arte Lelio che assume allora i migliori interpreti dello Stivale fra cui quel Tommaso Vicentini proveniente dalla città berica che però non conosceva la lingua francese. E allora “per mano” di Riccoboni, il servo bergamasco diventa muto. Una bella pensata per questo testo che si ispira alla Commedia dell’Arte con il tipico repertorio di amori contrastati e lazzi. Le azioni  spesso inaspettate, nella loro immediatezza,  suscitavano ilarità. Gli attori recitavano bene. Erano “tipi” ben caratterizzati che adoperavano differenti registri di comunicazione. La loro mimica, espressività, canti, ritmica e musica formavano  un continuum coinvolgente trapassando l’una nell’altra.

 Protagonista la stessa Venezia con le sue  figure come Pantalone de’ Bisognosi, interpretato dall’attore Stefano Rota, padre di Flaminia (Marie Coutance) che ha vissuto a lungo a Parigi e torna nella città lagunare dopo la morte della madre.  Innamorata di Lelio (Matteo Cremon), ma promessa sposa dal padre, a Mario (il toscano Michele Mori), figlio di Stramonia Lanternani (Anna De Franceschi), commerciante di tessuti a Milano, ma  di origini veneziane, nel suo frasario d’oltralpe usato a sproposito crea le occasioni per far scoppiettare Pantalone che come una pentola a pressione esplode   facendo da contraltare alla vecchia Stramonia che cerca di accasare il figlio, un mammone che non osa mai contraddirla.

Mario però da tempo vive un amore idillico con Silvia (la vicentina Maria Luisa Zaltron) che in una trama amorosa che si complica di malintesi cercherà di spuntarla sulla progenitrice Stramonia.

Mario è proprio mammone, su questo nessuno ha niente da obiettare, buono da strappare il cuore, ma dopo molti colpi di scena dove egli appare in una gamma di espressioni e atteggiamenti caricaturali che fanno scompisciarsi, sembra arrivare infine anche la sua agognata autonomia.

La lingua serviva a  colorare  l’amor proprio del tipico veneziano, fiero da sempre della sua città e che non poteva anche qui non essere “la migliore del mondo”. I  costumi sono stati ideati da Francesca Parisi, Sonia Marianni e Caterina Volpato e realizzati utilizzando stoffe e materiali a basso impatto ambientale.

Lo spettacolo sarà ancora in scena stasera e nelle serate di lunedì e martedì.

Patrizia Lazzarin, 11 febbraio 2024

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Diversamente magri: Alimentire

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Da dove cominciare per ragionar di cibo? Alimentire il nuovo spettacolo di Arianna Porcelli Safonov, andato in scena ieri sera al Teatro Toniolo di Mestre, ironizza su tutte quelle parole sinonimo di una dieta sana ed equilibrata. Insieme si prende gioco della cerebrale ricerca delle proprietà dei cibi più sani nella nostra contemporaneità che ci vede impegnati  a scovare il miracoloso elisir della salute. Dobbiamo cercare bene perché sicuramente ci deve essere …

Ecco allora che parole a stento nominate e quasi masticate, nostro malgrado, compaiono esse stesse evocate sul palco. Tanti, tanti bei nomi poco pronunciabili dall’uomo comune ma da cui ci aspettiamo miracoli.  Il cibo ci riempie la pancia, ma anche lo  “spirito”.

L’attrice tuttavia ama subito precisare che esso non è tutto e che fra i suoi interessi vi è  anche quello di fare scelte alternative come scendere a precipizio  su un banalissimo slittino rosso lungo una pista nera  fra snowboard e sci griffati. Veramente elettrizzante buttarsi a capofitto in mezzo a gente che se la tira, normalmente se la tira. Cosi si usa e così si dice. Ma poi ha altri piaceri …

Racconti e ricordi di bambina a casa, dove normalmente e incomprensibilmente si mangiavano schifezze. Ed era pure  poca roba. Lì dove c’era l’aiutante filippino che faceva tutto … senza “nessuna tutela sindacale”. Non si capisce se quel cibo dell’infanzia aveva lo scopo di essere particolarmente sano e/o forse  troppo leggero per riempire la pancia. Scoprire poi  che l’amica e vicina di casa si nutriva di pasta al pomodoro. Neppure la scoperta dell’America in proporzione, nel suo piccolo mondo di bambina, avrebbe recato tanti benefici. L’acquolina in bocca contorce Arianna Porcelli Safonov ancora oggi, al solo pensiero di quel succulento cibo. Ricordi dolci come quando afferriamo dal vassoio le frittelle ripiene … Ricordi genuini. Genuino  come il vino che vorremmo bere dissetandoci.

 Genuina, vera come forse vorremmo che fosse la vita. E c’è chi per questo abbandona la città dove ha vissuto molto tempo per andare a vivere in campagna. Ma forse non basta per ribaltare sul tavolo della nostra esistenza il sapore dell’autentico.  Dal 2014 Arianna scrive libri per Fazi Editore e Fottuta Campagna, da a lei scritto nel 2015, è una collana di racconti sull'esperienza vissuta in cima agli Appennini tra Lombardia e Liguria. Tutto qui è molto distante dalla moda contemporanea del Green. L'attrice ama andare contro corrente e ribaltare la comune opinione che abbiamo delle cose e della vita. Lo fa giocando con il gusto del paradosso perché forse anche il rovescio della medaglia potrebbe piacerci e perché nel mondo c'è dell'incredibile. E poi a volte non ti puoi proprio fidare di nessuno. Il filippino che si mangia quanto tu hai di più caro e quando tu sei in vacanza e, quindi "sei in un altro mondo, non lo puoi capire. Se lo porti in tribunale lui spiegherà per difendersi che infine, ed è quello che sapevamo in fondo anche noi, che il cibo è cultura. Ogni popolo ne ha una propria.

Ricette e alimenti che tramandano abitudini culinarie, sapori, colture, modi di vivere. Diversamente magri, per non dire un po' grassi, può essere un'alternativa quindi valida, anche se non dichiarata. E poi ci divertiamo in questo universo di valori e significati che la nostra Arianna ama rovesciare per consegnarci, come nella storia mitica del Minotauro di Creta, il filo per uscire da schemi di pensiero poco veramente messi alla prova e ragionati. E si, perché poi alla fine sembra che in questo mondo pervaso da buonismo, almeno quello di certi partiti politici, non si capisca bene cosa poter dire o meglio cosa fare bene.

Attenzione alle parole, a come le prendi, a come le dici, potrebbero far uscire aculei con cui potersi ferire.

Patrizia Lazzarin, 10 febbraio 2024

 

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Tagliar la Testa del Toro

Sul palco di Piazza San Marco questo pomeriggio ha preso vita la scenografica rievocazione del Taglio della Testa del Toro. Una vicenda radicata nel lontano 1162, quando il Doge Vitale II Michiel  vinse sul patriarca Ulrico di Aquileia che aveva tentato di conquistare Grado, città della Serenissima. Da quella vicenda  è poi scaturito un modo di dire veneziano diventato universale, “tagiar la testa al toro”, ossia prendere una decisione dopo tanto che se ne parla.

La performance a cura dell’Associazione “Compagnia L’Arte dei Mascareri”, in collaborazione con la Compagnia teatrale Pantakin e una delegazione proveniente dalla città di Aquileia,  questo giovedì grasso ha   lasciato il pubblico del Carnevale di Venezia a bocca aperta.

A narrare la vicenda la maschera di Pantalone, accompagnata dalla nipote e dalla balia friulana, mentre la delegazione di Aquileia, vestita di mantelli neri con gorgiera e dai mascheroni da Maiale, ha interpretato il Patriarca Ulrico e i dodici feudatari ribelli. Lo storico rito del “sacrificio” dell'animale andato in scena sul palco di Piazza San Marco ha ricordato la vittoria del doge Vitale II Michiel  sul patriarca Ulrico di Aquileia e sui suoi dodici feudatari ribelli. Un trionfo ottenuto nel sangue che costò ai traditori un pegno all'epoca salatissimo.

In memoria del tentativo di insurrezione infatti, ogni anno anche i successori del Patriarca dovevano inviare in dono e a risarcimento al Doge  un toro, 12 pani e 12 porci ben pasciuti. Il toro-Patriarca con i 12 Porci-Feudatari venivano poi messi allo scherno della pubblica piazza con un rituale che prevedeva al suo culmine lo spettacolare taglio della testa del toro.

Gli animali venivano successivamente macellati e cucinati e la loro carne distribuita durante i banchetti tra i nobili, il clero, il popolo e i carcerati. Da qui l’espressione “Tagiar la testa al toro”, ossia “tagliare la testa al toro”: un modo di dire che è diventato universale ma che nasce a Venezia e proprio nel periodo di Carnevale. Il suo significato metaforico, come noto, è quello di arrivare finalmente a prendere una decisione dopo che se ne discute da tanto tempo.

Nella rappresentazione storica protagoniste anche le 12 Marie del Carnevale di Venezia che hanno partecipato alle celebrazioni sul palco di piazza San Marco insieme ai tanti figuranti in maschera che hanno prima sfilato sotto i portici del cuore della piazza San Marco.

Il consigliere delegato alla Tutela delle Tradizioni del Comune di Venezia Giovanni Giusto ha detto: “Questa rievocazione è l’occasione per far conoscere un’antica usanza della Serenissima, che poi si è trasformata in un modo di dire che tutti conosciamo e che ancora oggi usiamo. La tradizione per noi è continuità, è un modo per tramandare la nostra storia. Ecco perché il Carnevale non è solo un evento da subire passivamente, ma un’occasione da vivere come protagonisti”.

Con lui il sindaco di Aquileia, Emanuele Zorino che ha voluto festeggiare a Venezia insieme ai suoi concittadini arrivati al Carnevale di Venezia per interpretare il Patriarca Ulrico e i dodici feudatari ribelli: "Per Aquileia questo è un modo di far rivivere la nostra storia comune con Venezia tramite le tradizioni, perchè il futuro ha radici antiche".

Patrizia Lazzarin, 8 febbraio 2024

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