Divine e Avanguardie. Le donne nell’arte russa

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Ieri ed oggi, il volto della cultura in Russia reca  le sembianze di una donna, sia che essa indossi le vesti eleganti di un’icona, con i lineamenti  della Madre di Dio, sia che porti gli abiti colorati e vivaci  di una solida contadina oppure sappia ancora, soprattutto, incarnare il Nuovo attraverso le opere di pittrici e scultrici che hanno interpretato in modo originale i fermenti e la vivacità del loro tempo, come nel periodo delle Avanguardie storiche. Le donne sono le protagoniste della rassegna che si è aperta questa settimana, a Palazzo Reale, a Milano e che reca il titolo Divine e Avanguardie. Le donne nell’arte russa: una mostra promossa dal Comune meneghino in sinergia con CSM  che si inserisce a pieni meriti nella programmazione cittadina dedicata ai Talenti delle donne. Grazie a novanta opere provenienti dal Museo di Stato Russo di San Pietroburgo, l’esposizione che ha la curatela di Evgenija Petrova  che ne è la Direttrice e di Josef Kiblitskij, mostra il contributo delle artiste russe alla modernità e alla Storia dell’Arte e il ruolo e l’immagine della donna nei secoli scorsi nel paese. Leggiamo l’evoluzione culturale e sociale come viene narrata  attraverso le espressioni artistiche: icone sacre, pittura a cavalletto, sculture, grafiche e raffinate porcellane in un arco di tempo che va dal XIV al XX secolo. Alle origini la Russia, quando veniva, prima della fine del IX secolo, chiamata Rus  era un paese pagano  e l’apertura  ad una nuova sensibilità fu possibile grazie alla principessa Olga, moglie di Igor, principe di Kiev, che alla  morte del consorte resse il regno per quindici anni facendosi  battezzare nel 969 con il nome di Elena. Suo nipote Vladimir dopo la sua conversione nel 988, molto osteggiata, trasformò il Cristianesimo in religione di Stato. Le icone che noi vediamo in mostra raccontano delle immagini religiose più amate dal popolo e dai sovrani. Accanto al Salvatore la Madre di Dio è una figura assai diffusa, sia che essa si riveli come nella dolce immagine della Madonna della Tenerezza che avvicina il suo volto al piccolo Gesù che la ricambia toccandole il mento, sia che ci appaia come nella Madonna Odighitria annunciando  le future sofferenze del Cristo. Scendendo dal cielo alla terra le immagini di regine ci accompagnano in mostra. Le zarine o imperatrici, furono quattordici da quando il regno di Russia diventò impero, di cui nove furono  straniere. Le incontriamo o ne facciamo conoscenza  nei quadri in  esposizione,  anche in profili inediti, come Caterina II nell’immagine che ci ha restituito Michail Šibanov del 1787. Egli  dipinse la sovrana in abiti da viaggio, già anziana con i riccioli grigi che le escono dal cappello. Attenta al suo aspetto questo quadro di Caterina II, donna  che si impegnò per promuovere la cultura e l’istruzione in Russia, contrasta con il suo consueto atteggiamento. Molti artisti come Ivan Kramskoy amarono dipingere i sovrani in maniera realista  come nel quadro con l’imperatrice Marija Fëdorovna, descritta nella sua indole elegante e volitiva. A queste donne potenti fanno da contraltare quelle che appartenevano alla servitù della gleba che è stata in  vigore  in Russia dal 1600 al 1861: esseri senza diritti cui spesso il marito veniva assegnato  dal proprietario terriero. Nel quadro di Alekseij Venetsianov: Il mattino della proprietaria terriera del 1823, per la prima volta viene rappresentata una scena di vita quotidiana dei padroni e dei contadini in Russia. A cavallo  dei secoli XIX e XX Filipp Maljavin  fornisce un’immagine assai vitale del mondo rurale  nelLe due contadine vestite con colori sgargianti, quasi maestose ed estremamente naturali. Le forme geometriche, limpide e seriche dei contadini di Kazimir Malevič, artista delle Avanguardie, inventore dei  Movimenti del Suprematismo e del Supronaturalismo, spiccano invece nella loro monumentalità. Nella sezione della mostra Verso l’indipendenza in un ritratto di Aleksander Golovin  scopriamo Nadežda Evseevna Dobičina, donna vulcanica, che dal 1911 al 1920 tenne aperto un salone artistico a Pietrogrado  ed in seguito divenne collaboratrice del Museo della Rivoluzione. Organizzò numerose mostre tra le quali ebbero particolare risonanza quella su Natalija Gončarova nel 1913 e  l’ultima mostra di quadri futuristi “0. 10” nel 1916. Negli anni 20’ del Novecento l’ottimismo nel futuro e l’esaltazione della vita quotidiana trovò espressione anche nell’arte. Il mondo dell’industria partecipa di questi fermenti come possiamo vedere in una delle opere giovanili di  Aleksandr Dejneka, Operaie tessili, dove aleggia quasi un’aria epica nello svolgimento del lavoro. Operaia del 1923 del  pittore Malevič ha creato l’immagine della tipica donna sovietica degli anni Venti e Trenta del Novecento con i capelli corti e con  sulla testa il fazzoletto al posto del cappello o del velo.  L’artista Sof’ja Dymšits Tolstaja, una delle rappresentanti di spicco dell’avanguardia, nei primi anni Trenta mentre lavorava alla rivista Lavoratrice e contadina decise di dipingere i ritratti delle eroine dei primi piani quinquennali: andò in viaggio di lavoro nel distretto Volosovskij nella regione di Leningrado, dove incontrò donne che ispirarono le sue opere in stile realista: una di loro fu Evdokija Sergeevna Fëdorova, presidente del kolchots “Vozroždenie”. Il significato della maternità in Russia sembra legarsi al rigoglio e alla rinascita della natura come in Lillà di Boris Kustodiev ma assume altre forme, quasi monumentali, nella Maternità di Kliment Red’ko. Narrare la bellezza del corpo femminile è stato possibile in Russia con opere autonome solo a partire dagli anni a cavallo del XIX e XX secolo, ma di lì a poco, dagli anni Trenta agli anni Sessanta venne nuovamente vietato il nudo femminile. Fino alla metà dell’Ottocento le donne in Russia non potevano ricevere un’educazione artistica per cui molte di loro dotate di talento si formarono all’estero, ma già dalla fine  dell’Ottocento troviamo in questo paese molte di loro che si occupavano d’arte in maniera professionale.  Nei limpidezza dei paesaggi di Zinaida Serebrjakova o nei suoi autoritratti si svela la capacità di questa pittrice di cogliere la magia e al tempo stesso la freschezza di volti e luoghi intorno a lei. Le opere di Natal’ja Gončarova rivelano un legame profondo con l’arte popolare russa  come nelle composizioni monumentali:  La vendemmia e La mietitura, dove i contadini sono brillanti sagome, artefici di una epica ancora da narrare. Olga Rozanova, una delle rappresentanti più talentuose dell’avanguardia, morta prematuramente si lasciò incantare dal neoprimitivismo come in Paesaggio urbano, che affascina per l’armonia del colore. Le donne russe hanno contribuito a creare il mito.  L’operaio e la kolkotsiana, l’opera più conosciuta di Vera Muchina, è diventata il simbolo dello stato sovietico. Per la conversione del modello in metallo che ha  un’altezza di  24 metri nel 1941 Muchina venne insignita del premio Stalin di primo grado. Dal 1939 la scultura è installata all’interno dell’ Esposizione delle conquiste dell’economia nazionale. La mostra Divine e Avanguardie. Le donne nell’arte russa rimarrà aperta fino al 5 aprile.

Patrizia Lazzarin - 30 ottobre 2020

 

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Carla Accardi, una donna all'avanguardia

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Se proviamo a far scorrere su un tapis roulant verticale le immagini delle opere di Carla Accardi, in mostra ora a Milano al Museo del Novecento, l'effetto è quello di una una giostra dai toni ora luminosi ora bui, ora ancora vivaci: forme di ogni genere, quadrati, triangoli, finestre, colori che diventano protagonisti, motivi che si inseguono e riempiono gli spazi e i nostri occhi. Un'unica parola, fantasmagoria, è idonea a riassumere la sensazione ricevuta, pari agli esiti delle piroette di una lanterna magica sopravvissuta ad una rivoluzione. Carla Accardi, (1924-2014) artista trapanese, è stata una grande astrattista, riconosciuta a livello internazionale, fatto questo ancora più significativo, se consideriamo la temperie culturale degli anni in cui lei ha esordito, ancora così scarsamente pronti a riconoscere i meriti artistici delle donne. La mostra vuole porre in rilievo le tappe creative di Accardi ed analizzare questo fatto riferendosi soprattutto agli ambiti in cui ha operato. Tante sono le relazioni, le fascinazioni ricevute e le idee che si sono fuse nella suo immaginario e che hanno contribuito agli esiti che ha raggiunto. Tracciare poi la storia delle sue principali esposizioni, come si è cercato di fare nell'occasione di questa esposizione che è la prima monografica dedicata da un'Istituzione pubblica, a sei anni dalla sua morte, è un modo anche per studiare l'evoluzione del suo fare artistico, dalle personali romane degli anni Cinquanta a quelle parigine, dalla Biennale del 64' fino alle prime retrospettive, a partire da quelle ravennati. La giovane Accardi il quindici marzo del 47', nell'ambito del dibattito fra Astrattisti e Realisti, firmò con il gruppo costituito dagli artisti Antonio Sanfilippo, che fu anche il suo compagno, Pietro Consagra, Giulio Turcato, Piero Dorazio, Achille Perilli e Mino Guerrini, il Manifesto del Gruppo Forma. Le prime esposizioni che ebbero rilievo le condividerà assieme a loro. Il quadro Scomposizione del 1947 si lega proprio alla fase più geometrica che caratterizzò il gruppo che fu vicino per sensibilità alle avanguardie e aperto ad un'arte internazionale. Lo racconta la stessa artista: dipingevo dei triangoli che s'incrociavano; come padri artistici [...] i grandi astrattisti dell'inizio del secolo: Kandinskij, Klee, Mondrian [...] e i futuristi: Boccioni, Severini, e per me, soprattutto Balla... In verde blu, tela del 1949 abbandona le griglie fatte di luce e colore e predilige le forme più curvilinee che si avvicinano a quelle create da Jean Arp ed Enrico Prampolini. In esse emerge il vitalismo e il desiderio di aprirsi ad un racconto per immagini. Il 1953 è l'anno in cui incomincia a prediligere lo studio, uno studio matto, a partire dal quale rallentano le esposizioni. E' il periodo dei Negativi, che segue alla partecipazione al gruppo Forma, quando inventa un nuovo linguaggio costituito da segni bianchi su fondo nero. Arciere nel 1955 nasce da questa crisi: il segno tracciato per terra era come un segno lasciato sulla sabbia; l'ho creato in un azzeramento culturale. Dopo la partecipazione al gruppo Forma avevo cercato un mio linguaggio [...] ma non avevo trovato un'espressione che mi appartenesse veramente. Questa espressione è nata in quel momento e non la devo a nessuno. Michel Tapié inserirà Carla Accardi, in una recensione, nel gruppo dell'informel o art autre, con gli americani Pollock e Tobey, i francesi Mathieu, Riopelle e Wols. NelLe zanne del mammuth, Animale immaginario del 1954 compare il motivo bio e meccanico nato dall'ispirazione successiva alla visita del Musée de l'Homme a Parigi. Si origina da qui l'idea di incastri di forme di carattere arcaico da lei sviluppate in una direzione più segnatamente geometrica e in una più antropologica. Alla fine degli anni Cinquanta nella serie delle Integrazioni o Labirinti e dei Settori i segni nelle sue tele si raggruppano in strutture e si infittiscono: le sue creazioni diventano di grandi dimensioni e si ricollegano nell'immaginario alla cartellonistica pubblicitaria o al fotogramma cinematografico. Negli anni 60' si situa la sua svolta coloristica visibile nella rassegna, nella tela A strisce del 1963, dove il segno diventa minuto, ma si ripete. Strisce orizzontali di colore si relazionano nei toni di una bicromia vivace che varia in continuazione e ha suggerito un'interpretazione della sua ricerca visiva in direzione calligrafica. Verso gli anni 70' si orienta verso quella che possiamo definire l'antipittura di matrice concettuale e si avvicina alla tematica di genere che si lega alla sua militanza femminista nel gruppo Rivolta, costituito a Roma nel 70' con Carla Lonzi ed Elvira Banotti. Già dal 1965 adotta vernici fluorescenti che stende su sicofoil, un materiale plastico trasparente, allora venduto a rotoli, dove lei dipingeva motivi che si fondevano con il supporto e che nel momento che veniva attraversato dalla luce realizzava l'effetto di pittura espansa. Tenda del 1965 è un'opera pioneristica che indaga da un lato sul tema dello spettatore attivante e dall'altro sul tema del femminile, grazie alle caratteristiche di trasparenza della tenda, intesa come rifugio ma, al tempo stesso oggetto, prodotto con materiale tipico della società dei consumi. A Gent abbiamo aperto una finestra è un grande lavoro sulla parete del 72', opera immersiva dove si semplifica la gamma cromatica: molti grigi, bruni, argenti ed ori. Riprende qui l'immagine albertiana del quadro come finestra sul mondo, ma Carla Accardi si ricollega anche ai maestri dell'avanguardia come Duchamp e Matisse. L'artista dipinse, in quest'opera come in molte altre, i fogli di sicofoil con i suoi motivi a coda di rondine e nell'86' li montò in una casa di Gent. Si veniva a costituire, attraverso il sicofoil e i segni tracciati, un gioco di riflessi e un effetto di vibrazione, dove il telaio visibile in trasparenza, manteneva un ruolo fondamentale. La serie dei Trasparenti a metà degli anni 70' appartiene alla fase più concettuale dell'Accardi dove il colore scompare e le opere sono costituite da bande di sicofoil trasparenti intrecciate. Mentre la superficie manca o è traslucida, il telaio diventa, spesso dipinto, la base di installazioni complesse. Nel 1977 si allontana dal movimento femminista per dedicarsi in prevalenza alla pittura. Negli anni Ottanta sulla scia del fascino di Matisse realizza grandi tele con morbide campiture di colore. Pur muovendosi in accordo con il coevo movimento della Transavanguardia rinasce qui lo spirito di Accardi che fin dagli esordi si era distinta per i suoi tratti decisi, per la ricerca cromatica - luministica e la curiosità per la cultura figurativa orientale. Nelle Geometrie analitiche degli anni 90' sembra tornare sulle tracce dell'arte concettuale di Sol Lewitt, ad una pittura più intellettuale, forse più fredda che sul finire della sua vita e all'inizio del XXI secolo, viene superata da opere che recano titoli lirici che si rifanno alle sue letture poetiche. La mostra, promossa dal Comune di Milano e curata da Maria Grazia Messina e Anna Maria Montaldo con Giorgia Gastaldon sarà visitabile fino al 27 giugno 2021.

Patrizia Lazzarin, 21 ottobre 2020

 

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A Treviso il Museo Nazionale Collezione Salce

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Una pagina di storia strappata dalla furia del tempo e degli uomini ritorna a far parte del voluminoso palinsesto di immagini della città di Treviso, che nei suoi palazzi antichi, piazze, vie e canali d’acqua racchiude, come in una teca, la propria bellezza che narra ed intreccia la vita dei suoi abitanti di ieri e di oggi. Si stanno infatti concludendo i lavori di restauro della chiesa di Santa Margherita, affacciata su via Reggimento Italia Libera, a pochi passi dall’ansa del fiume Sile.  Opera attesa già dagli anni Cinquanta del Novecento è un grande edificio  appartenuto all’ordine degli Eremitani, di cui la prima pietra di fondazione risale al Medioevo. Era l’anno 1282 quando il Consiglio dei Trecento che reggeva la città ne autorizzò la costruzione. All’aula grande e semplice, secondo l’abitudine degli Ordini Mendicanti, vennero aggiunte in seguito cappelle, altari e suppellettili. L’interno venne completamente affrescato. Intorno alla metà del Trecento il pittore Tomaso da Modena copri le pareti dell’abside con le Storie di Sant’Orsola, suddividendo la narrazione in riquadri appaiati su tre registri sovrapposti. Il martirio della giovane  Orsola, delle sue undicimila compagne e del Papa nella città di Colonia, per decisione del principe unno che pretendeva di sposarla, era raccontato in uno spazio doppio per dimensioni, nella parte inferiore della parete destra. Il passato è d’obbligo perché  il ciclo di dipinti, salvato per fortuna al degrado della chiesa avvenuto a  seguito soprattutto del decreto napoleonico del 1810 che destinava i beni di monasteri e conventi allo Stato, era stato scoperto nel 1882-83, sotto uno strato d’intonaco dall’abate Luigi Bailo che lo aveva strappato e trasportato su telai lignei. Oggi possiamo vederlo nel Museo di Santa Caterina a Treviso. Non è stato possibile riportare  fisicamente gli affreschi nell’antica chiesa che verrà inaugurata alla fine dei lavori, il 4 dicembre, con la presenza del Ministro dei Beni  e delle Attività Culturali, Dario  Franceschini, ma come ha spiegato l’architetto della Direzione Regionale dei Musei Veneti, Chiara Matteazzi, le pareti, dove un tempo si svolgeva la  narrazione sacra si riempiranno come allora delle storie di Sant’Orsola, grazie ad un sistema di proiezione in 3D. Il desiderio di far rivivere le superfici murarie e di sentirci quindi come quegli spettatori che  quasi settecento anni fa  potevano godere lo spettacolo degli affreschi alimenta il tempo dell’attesa che ci rimane fino a dicembre. L’imponente edificio che è lungo quasi cinquanta metri, se si comprende la zona absidale, ed è largo internamente poco più di quattordici, si avvia a divenire in maniera ufficiale, con l’inaugurazione di fine anno, una delle sedi, forse la più ambita per le sue potenzialità, del Museo Nazionale Collezione Salce di Treviso, che rappresenta la più importante collezione italiana di affiches. I pezzi  in esso conservati sono oggi circa cinquantamila. Fra pochissimo tempo essi troveranno la loro sede nel caveau tecnologico realizzato all’interno della chiesa di Santa Margherita, costruito  con metodi che garantiscono contro l’incendio e i danni derivanti da terremoti. Saranno posizionati in grandi cassettoni e  saranno visibili su richiesta e previo appuntamento. Un codice a barre sui manifesti leggibile da un personal computer, sempre nel caveau, permetterà una facile selezione e la vista dei cartelloni pubblicitari. Nel 2011 il Ministero dei Beni Culturali aveva deciso di far rimanere la collezione Salce a Treviso dove era nata ed aveva destinato due edifici di proprietà demaniale a tale scopo. Il palazzo vicino alla Chiesa di San Gaetano, in via Carlo Alberto, dopo il restauro era stato il primo ad essere aperto nel 2017 ed è stato fino alla prossima inaugurazione nell’ex chiesa di Santa Margherita,  anche la sede espositiva del Museo. I lavori di sistemazione per i due spazi hanno richiesto un impegno complessivo di spesa di 7 milioni di euro finanziati dal Mibact e  da un contributo della Regione del Veneto. Grandi lavori di restauro che hanno interessato in particolare tutta la copertura della Chiesa di Santa Margherita e la costruzione di nuovi spazi sopraelevati adibiti ad esposizione per un totale di superficie ora disponibile  di 800 mq. Essi permetteranno alla città di Treviso di poter disporre di ulteriori luoghi  per mostre, conferenze ed incontri. È un evento quello che si annuncia significativo per la città ma non solo,  e non poteva quindi mancare un’occasione che ne sottolineasse il significato. Sempre ai primi di dicembre viene aperta al pubblico nelle due sedi del Museo Nazionale Collezione  Salce, in via Carlo e in via Reggimento Italia Libera, a cui si aggiunge il  Museo di Santa Caterina, la rassegna dedicata a  Renato Casaro, trevigiano doc come amano definirlo i suoi concittadini, quello che è considerato l’ultimo dei grandi  cartellonisti, cioè uno di quegli artisti che sapevano cogliere l’anima di un film e trasferirla nel disegno che diventava il testimonial dell’opera cinematografica. Egli firmò infatti opere di Sergio Leone, film come Amadeus e l’Ultimo Imperatore, capolavori senza tempo del cinema, da Cinecittà ad Hollywood.

Patrizia Lazzarin, 12 ottobre 2020

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