Quel foglio con la caduta di Icaro

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Mantova, capitale della cultura, celebra l'artista Giulio Romano in un evento di respiro internazionale.

Il foglio con la Caduta di Icaro, disegnato a penna ed inchiostro  da Giulio Romano per il soffitto della  Camera dei Cavalli, nell’appartamento di Troia di Palazzo Ducale, proveniente dal Musèe de Louvre di Parigi,  racconta storie del mito,  di lotte impari   fra il genio divino e  quello umano  e   ha il merito, piccolo e grande tassello della rassegna, di esplicare  la fantasia creativa del più rinomato e capace allievo di Raffaello: Giulio Pippi, detto Romano. Il disegno con una cornice assai pregiata dipinta dal famoso storico dell'arte del Cinquecento,  Giorgio Vasari,  è visibile, poco distante da uno specchio,  posto sotto l’affresco dell’infelice Icaro, in un appassionato gioco di rimandi figurativi, nella mostra che si inaugura al pubblico  il  sei ottobre nell’antica Reggia dei Gonzaga, una delle più grandi d’Europa per il numero delle sale e che  appare in tutta la sua maestosità, in una giornata di sole nel suo innalzarsi  sulle acque del lago. Il suo titolo Con nuova e stravagante maniera, dalla definizione  dello scrittore delle Vite degli artisti, Giorgio Vasari, condensa i significati  e soprattutto le modalità espressive della pittura del dopo Raffaello. Sulle  ceneri dell’artista urbinate la capacità creativa del suo  discepolo Giulio Romano cercherà la linfa vitale con cui sviluppare tante nuove idee mediante un recupero dell’antico ancora più pregnante. L'esposizione nata in sinergia e con l’intelligente collaborazione  del  Louvre di Parigi, che per la prima volta presta settantadue opere del genio manierista,   permette così di ricostruire il percorso di un artista che giunto da Roma alla Corte dei Gonzaga, già rivela la consapevolezza del suo valore   sia nei timori del duca che si preoccupa  che alcuni progetti  di Giulio siano stati rubati   sia nelle parole di  Vasari  che lo elogia nella sue Vite e acquista  il disegno che vediamo ora in mostra nella sala dei Cavalli a Palazzo Ducale. Quella sua capacità di disegnare, d’inventare lasciando ai  colleghi il colore delle immagini era una necessità continua per Giulio Romano come si può comprendere anche visitando Palazzo Te a Mantova dove si snoda l’altro percorso espositivo a lui dedicato:  Giulio Romano: Arte e desiderio. Le opere che possiamo ammirare a Palazzo Gonzaga sono propedeutiche, esplicative delle invenzioni che vediamo distendersi sulle pareti  e sui soffitti di Palazzo Te e di Palazzo Ducale. Racconti dell’epopea omerica, di storia romana, tratti dalla poesia antica e dalla fantasia del mito riempiono le stanze   e permettono di mettere a confronto l’idea, il disegno con l’opera pittorica o architettonica conclusa. Un’occasione straordinaria come si intuisce dalle parole del direttore del complesso Museale Palazzo Ducale di Mantova, Peter Assmann, che dall’inizio del suo incarico sognava di concretizzare una mostra sul pittore, architetto e uomo di cultura Giulio Romano. Il progetto elaborato dal comitato scientifico, di cui fa parte assieme a Laura Angelucci, Paolo Bertelli, Renato Berzaghi, Paolo Carpeggiani, Sylvia Ferino-Pagden, Augusto Morari, Roberta Serra e Luisa Onesta Tamassia diventa   un’opportunità anche per rafforzare l’immagine di Mantova come città d’arte in Europa e nel mondo. Nei fogli in mostra, Jean- Luc Martinez, direttore e presidente del Musèe de Louvre indica un’opportunità per conoscere  la trama di relazioni intessute da   Giulio con i  suoi più stretti collaboratori,  a cui affidava le sue “idee” e disegni: Fermo Ghisoni, Rinaldo Mantovani e soprattutto Giovan Battista Bertani che dopo la sua morte  assumerà la direzione dei lavori del Palazzo. Altre collezioni museali italiane e straniere hanno prestato assieme  ai disegni anche dipinti e arazzi come il Victoria &Albert  Museum di Londra e l’Albertina di Vienna. Lungo le sale  dell’antica reggia possiamo ricostruire nella loro fase di progettazione tutte le attività e i cantieri  seguiti dall’artista sia nel territorio mantovano sia in altre regioni, nei palazzi  e nelle chiese o nei disegni per arazzi come i Trionfi di Scipione per il re di Francia, Francesco I, portati oltralpe dal suo allievo Primaticcio. Un tracciato a serpentina  di luoghi e momenti clou   che iniziano dalla sua collaborazione romana con Raffaello nelle Stanze del Vaticano, nella villa del banchiere Agostino Chigi o nella loggia di Villa Madama, commissionata dal papa Giulio II, fino a comprendere l’intero arco  ventennale della sua permanenza a Mantova. Le invenzioni di Giulio Romano si esplicano in  campi diversissimi, anche in quello dell’arredamento  come può essere uno degli oggetti  realizzato per la mostra sull’antico  progetto del pittore. Nell’appartamento   della Rustica vediamo tanti disegni di architetture destinate  alla costruzione  di Palazzo Te dove spiccano nella loro luminosità,  fra la forza espressiva data dal bugnato e dalla solidità delle colonne doriche, la bellezza di  luoghi chiusi che si relazionano in maniera armonica con l’ambiente. Un arazzo  in lana e seta con Giochi di putti svela il nascere progressivo  in epoca rinascimentale di un interesse  per un amore più libero, sciolto dai vincoli dell’idealizzazione  di stampo petrarchesco  che  lascia maggior spazio alle forme d’espressione.  Questo pezzo  è di eccezionale valore storico, come si legge nella scheda dell’opera di Claudia Bonora Previdi, nel catalogo  edito da Skira, perché è il primo soggetto di questo genere voluto da Federico II Gonzaga e disegnato dall’artista Giulio Romano. Una Venere fra mille Amorini intenti a giocare, pescare e cogliere frutti dai rami mentre un Satiro seminascosto la sta spiando. Alcuni acquerelli colorati, uniti insieme, visibili in mostra mostrano la bellezza di puttini che catturano una lepre: sono opera di Giulio Romano che poi vediamo  riprodotta al centro dell’arazzo.  Le sfumature di colore rendono la consistenza della materia: il rosa delle carni, il piumaggio delle ali e il pelo dell’animale. Ancora una volta un’occasione per vedere il processo creativo dall’inizio alla sua realizzazione: dall’arazzo all’acquarello del particolare, dal disegno-progetto d’insieme all’arazzo. A Palazzo Te la mostra Arte e Desiderio, promossa dalla Fondazione Te e Comune di Mantova, in collaborazione con la casa editrice Electa ha come protagonista l’erotismo nell’arte e propone ai nostri occhi modi nuovi di pensare al corpo e alla sessualità nel Rinascimento. La statua di Venere acefala,  emblema dell’amore, appartenuta allo stesso Giulio Romano grande collezionista di opere antiche,  ci introduce nella prima sala alla celebrazione della bellezza femminile e al desiderio che essa  suscita. L’esplorazione del mondo statuario e scultoreo classico favoriva negli artisti la scoperta di nuove forme, di soggetti ed atteggiamenti inusuali che si riflettevano  sul modo comune  di pensare  provocando anche decise reazioni. La storia dei Modi, di cui si riproduce nella mostra una copia, lo spiega. I disegni di pose erotiche realizzati da Giulio Romano, commentati da Pietro Aretino in maniera licenziosa  e infine stampati da Marcantonio Raimondi causarono l’arresto di quest’ultimo. L’insofferenza per un amore platonico e al contrario l’inclinazione verso una bellezza che si traduce in desiderio carnale è anche il fil rouge di questa mostra su Giulio Romano che esplora le diverse inclinazioni del sentire amoroso. Il progetto scientifico curato da Guido Rebecchini, Barbara Furlotti e Linda Wolk-Simon si concentra sul tema della rappresentazione del desiderio che si esplica nel Palazzo Te in più parti, dalla Camera di Ovidio a quella di Amore e Psiche e che culmina nelle sale finali con la visione di quadri straordinari. Quadri che chiudono un’epoca e che precedono  i nuovi dettami della Controriforma del Concilio di Trento di lì a pochi anni. Si “scopre” il corpo femminile sia nel quadro della Fornarina di Raffaellino del Colle sia nella Cortigiana di Giulio Romano. Le due tele appaiate sulla parete fanno emergere una diversa interpretazione del nudo, che nel pittore della corte dei Gonzaga non ha timore di mostrare la naturalezza, quasi invitante, con cui si presenta allo sguardo dello spettatore la donna vestita di trasparenze e gioielli. In maniera diversa nella sanguigna con Venere e Adone destinata alla Stufetta del Cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena nel Palazzo Apostolico, Giulio Romano racconta un eros intriso di passione e bellezza. Dopo la censura dei Modi e il sacco di Roma nel 1527 gli artisti attingono dal mito e in particolare dalle Metamorfosi di Ovidio, per esprimere la potenza della passione amorosa. Michelangelo, di cui si riproduce in mostra una copia del suo disegno di una Leda con Giove trasformato in cigno, accanto all’eros mostra  nella scelta della figura del dio  anche un simbolo del potere apprezzato dalla committenza aristocratica. I nostri occhi si sgranano sulla materia del quadro che sembra sempre più splendente, ne I due amanti di Giulio Romano, opera emblematica del mondo d’intendere  l’ars amandi del pittore, dove giovinezza e piacere erotico dei due amanti  sembrano staccarsi per forte contrasto dalla donna anziana che si nasconde dietro la porta. La tela che proviene dall’Ermitage di San Pietroburgo torna a Mantova dopo trent’anni per questa mostra, dopo essere stata cinque secoli fa l’occasione  per Giulio Romano di farsi apprezzare dal Duca di Mantova. Più vicino ad una sensibilità raffaellesca è invece l’arazzo posto accanto ai Due amanti, Visione di Aglauro nella camera matrimoniale di Erse, del Metropolitan Museum of New York che nella delicatezza delle trame racconta la storia d’amore di Erse  con Mercurio, con un’imagerie e una sensibilità adatta a giovani fanciulle dove  Cupidi e angeli  sembrano confondersi. Le grandi aspirazioni dei Gonzaga e le loro importanti relazioni con l’imperatore Carlo V, si traducono  nella tela con la Danae di Correggio, ultima opera visibile in mostra  e uno dei quattro dipinti regalati al monarca che dominava su un regno su cui  si diceva non tramontasse mai il sole. Qui  la bellezza del corpo femminile si esprime nella straordinaria delicatezza delle forme.  Il  sindaco  di Mantova Mattia Palazzi ha ricordato il conferimento della Medaglia  del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, all’iniziativa  di portata internazionale che si concluderà il 6 gennaio 2020 e che ha avuto fra i tanti sostenitori come sponsor principale  la Banca Intesa Sanpaolo.

Patrizia Lazzarin, 6 ottobre 2019

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Venezia, una mostra da Tiziano a Rubens

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Da TIZIANO  a RUBENS, la mostra  visitabile nelle sale del Doge di Palazzo Ducale a Venezia dal cinque settembre al primo marzo, è espressione e testimonianza storica  delle relazioni culturali fra gli  artisti italiani e del Nord Europa che dal lontanissimo Medioevo proseguirono  poi durante il Rinascimento e nei secoli successivi. Fra le chicche dell’esposizione un prezioso Ritratto di dama con la figlia di Tiziano, tornato a Venezia dopo cinquecento anni,  una descrizione familiare:  un doppio ritratto di madre e figlia , rimasto incompiuto, che rappresenta un episodio raro non solo nella ritrattistica tizianesca, ma in generale nella pittura veneziana dove  implicitamente era bandita l’iconografia dinastica. Molte domande si sono poste sull’identità delle due donne raffigurate. L’ipotesi ora accreditata è che la bambina potrebbe essere Emilia, la figlia della donna amata dal pittore dopo la morte della moglie. Questa dama che nel quadro  indossa una camicia candida con una sopraveste di marrone dorato e  porta al collo fili intrecciati di perle come gioielli  rimane  misteriosa. Forse il figlio legittimo Pomponio ha cancellato ogni prova della sua identità.  Si conserva tuttavia il documento di una dote che Tiziano assegna allo sposo di Emilia, un mercante di grano. La rassegna a Palazzo Ducale è un racconto serrato dei  reciproci influssi  fra l’arte fiamminga e quella italiana che tra la fine del Cinquecento e la metà del  Seicento  riflettono  il gusto di un colore “sonoro” e il dinamismo  della linea. Sullo sfondo del pullulare di commissioni artistiche e di viaggi che arricchiscono il bagaglio culturale di artisti di fama mondiale come   Peter Paul Rubens e Anthony Van Dyck, di cui possiamo ammirare in mostra le creazioni artistiche,  c’è la città di Anversa, da cui provengono buona parte delle opere presenti nell’esposizione, accanto a quelle di altre città fiamminghe. Giungono così per la prima volta  in Italia quadri mai visti, appartenenti anche a collezioni private. Si riattaccano i fili di una narrazione che nel fluire ininterrotto durante i secoli  di scambi,  fra  Nord e Sud, riscopre la qualità di una pennellata ricca di colore e di luminosità, la bellezza del corpo umano nella sua pienezza e  l’attenzione e la cura del particolare soprattutto nei paesaggi e  nelle nature morte. Si legge fra le righe  anche la storia del collezionismo sia pubblico sia privato: negli inventari di antiche  nobili famiglie veneziane si è scoperto  l’interesse per la pittura olandese e fiamminga  ed è utile rammentare che  pittori come Tiziano e Tintoretto  ebbero come assistenti pittori nordici. Fino alla seconda metà del secolo Anversa  fu un luogo vitale per le arti ed il commercio, dove fiorivano le botteghe degli artisti e i mercanti  vendevano  con facilità e buon guadagno le loro merci.  Le guerre di religione fra protestanti e cattolici culminate nell’anno 1585 con la presa della città da parte della cattolica Spagna e  che provocarono la cessazione dei traffici navali sul fiume Schelda, cambiarono il destino della città che vide allontanarsi i mercanti e  decadere le attività economiche. Fortunatamente il crollo non fu  immediato: infatti  in quegli anni sono  ancora attivi artisti come Maarten De Vos di cui ci rimangono numerosi studi di teste ad olio, chiamati  in seguito tronies, allora in voga sulla scia di maestri come Frans Floris, visibili anche nell’esposizione.  Testimone di una sensibilità ricca di sfumature Marteen De Vos è autore anche del quadro  Maria Maddalena penitente, che ammiriamo  nelle prime sale e che ricorda la bellezza femminile della Venezia del XVI secolo, nella declinazione tipica  delle composizioni tizianesche. Le opere monumentali di Jacques Jordaens: Nettuno e Anfitrite e Amore  e Psiche sono il trionfo della vitalità naturale, una natura raccontata attraverso l’espediente della mitologia, che in Anfitrite moglie di Nettuno e in Psiche diventa un tributo alla morbidezza dei corpi. La seconda opera visibile nella rassegna era nella casa del pittore ed è  l’unica che si é salvata, mentre quelle con lo stesso soggetto destinate alla regina Cristina di Svezia e alla corte inglese non sono sopravvissute. Belle anche le voci femminili come Michaelina Wautier con la sua opera Ritratto di due fanciulle come Sant’Agnese e Santa Dorotea. Il suo è uno stile raffinato con linee delicate che riescono a creare un’atmosfera intima. Qui le giovani sono dipinte con un’accurata analisi psicologica come future martiri sulla scia del pensiero dottrinale della Controriforma. Clara Peeters con le sue nature morte,  come quella con formaggi e burro, aragoste, gamberi, pane e vino comunica invece  la concretezza e il fascino  degli oggetti fatti di vetro e d’argento  e il sapore del cibo con una precisione che rivela le sue origini fiamminghe. La mostra che si sviluppa con un ritmo narrativo lungo le sale è il risultato del lungo lavoro di Ben Van Beneden, direttore della Casa di Rubens ad Anversa. Nella penultima sala risuonano le note dei musicisti fiamminghi. In particolare ad Adrian Willaert venne affidata la più importante istituzione musicale lagunare: la cappella del Doge, chiamata anche  della Serenissima Repubblica che egli farà lievitare trasformandola nella nota Scuola veneziana  e che sarà composta soprattutto da allievi italiani. Merita una pausa di riflessione e un ritorno sui propri passi, all’inizio del percorso espositivo,  la tela che raffigura il vescovo Malderus di Anthony Van Dyck dove lo sguardo intenso del prelato ci induce a seguirne la direzione e il pensiero. Nella rassegna di opere pittoriche  i  nomi noti come Rubens o Van Dyck, spesso nella trama di relazioni e di lavori eseguiti in team, ci conducono a scoprire o a conoscere meglio altri  artisti come Theodoor Rombouts, uno dei principali caravaggisti fiamminghi.

Patrizia Lazzarin, 5 settembre 2019

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A Venezia i tesori dei Moghul e dei Maharaja

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Un dossier prezioso è la mostra che si è aperta il nove settembre a Palazzo Ducale   per la comprensione delle relazioni di Venezia con i paesi dell’Asia e del Mediterraneo.  La città lagunare è stata chiamata a  ragione la porta  d’Oriente. Le esposizioni nel palazzo dei Dogi: Venezia e l’Islam nel 2007  e Venezia e l’Egitto nel 2011  che  avevano preceduto la rassegna odierna Tesori dei Moghul  e dei Maharaja    avevano già fatto conoscere l’esistenza una  lunga  e lontana amicizia  della Repubblica marinara con l’Oriente, come ha sottolineato la direttrice della Fondazione dei Musei Civici, Gabriella Belli.  Palazzo Ducale, antica sede del potere è sembrata cosi il luogo ideale per ospitare,  per la prima volta in Italia, le  gemme e i gioielli della Collezione Al Thani, una delle più stupefacenti raccolte esistenti al mondo di preziosi indiani o d’ispirazione indiana degli ultimi cinque secoli. Gioielli dai significati profondi che alla bellezza uniscono la storia e i miti di uno spazio temporale racchiuso fra l’epoca  degli imperatori Moghul (1526-1858): i discendenti di Tamerlano,  del  Raj britannico (1858-1947)  e quella contemporanea. Venezia  dunque,  dopo  Londra e   Parigi,  è la città  che ha l’onore di   essere   lo scrigno  che accoglie e dove possiamo ammirare i  duecentosettanta gioielli dello Sceicco Hamad bin Abdullah  Al Thani.  Opere d’arte dove la vista del taglio  e dell’incastonatura  di verdi smeraldi, rossi rubini e spinelli, bianchissime perle e diamanti lucenti ci lasciano letteralmente a bocca aperta. L’India è  una terra nota da sempre per la presenza di favolose ricchezze: il Kashmir era il luogo dove si potevano trovare i zaffiri delle più svariate tonalità,  il Badakhshan offriva gli spinelli, pietre preziose simili ai rubini, nel Deccan vi erano  magnifici diamanti e nel Golfo Persico si potevano raccogliere le perle. Già Marco Polo ci raccontava di favolosi tesori. Sulle gemme esposte in mostra troviamo incisi i nomi dei monarchi,  cosa abituale  sulle pietre più preziose che finivano così per diventare delle testimonianze del valore di una dinastia.  Questa mostra attraverso le sue  articolate sezioni ci svela un mondo. Alcune gemme vantano poi  una provenienza illustre. Arcot II è uno dei diamanti regalati da  un nobile musulmano alla regina Carlotta moglie del re Giorgio III (1738-1820) e poi incastonato nella corona di Giorgio IV, mentre l’Occhio dell’idolo è considerato il diamante blu tagliato più grande del mondo. Splendidi sono   gli smeraldi, molto apprezzati dai sovrani islamici dell’India poichè il verde era il colore preferito di Maometto. I poteri salvifici e protettivi  delle pietre preziose sono  tenuti    in considerazione ancora oggi in India  e antichi trattati li descrivono con dovizia di particolari. Ogni gemma per gli induisti ha un significato che si collega all’universo e alle sue leggi. Molte persone indossano preziosi che allontanano sfortune e malattie e altri che aiutano a raggiungere la felicità e la ricchezza ritenendoli permeati da una forza vitale e positiva sulle vicende dell’uomo.  Ai sovrani dell’impero Moghul venivano destinate le pietre più grandi e pregiate estratte nel territorio a cui si aggiungevano quelle provenienti dagli ambasciatori che le portavano in dono e quelle degli acquisti effettuati dai mercanti europei. Molti pezzi nella rassegna rivelano il gusto artistico della dinastia Moghul e il dialogo del mondo indiano  con il continente europeo. Possiamo osservare entrambi questi aspetti: da un lato l’applicazione di tecniche autoctone come quella Kundan, dove le gemme venivano posizionate senza adoperare griffe visibili e conservando, per quanto possibile, le dimensioni originali della pietra e dall’altro l’utilizzo da parte degli orafi indiani di tecniche quali la smaltatura conosciuta in Oriente grazie all’arrivo degli artisti delle corti rinascimentali europee. Tra gli oggetti realizzati con una decorazione di smalti policromi e con la tecnica kundan spiccano il portapenne e calamaio del 1575 -1600 originario del Deccan, un esemplare che veniva donato  dai sovrani ai cortigiani più anziani come segno di distinzione. Fra le chicche della collezione Al Thani vediamo la più antica giada Moghul datata: essa risale al 1607-08. Si tratta della Coppa da vino dell’imperatore Jahangir. Questo oggetto di valore inestimabile che contiene un’iscrizione in versi in lingua persiana è interessante perché realizzato  con un materiale: la giada che veniva ritenuta capace di svelare la presenza del veleno e favorire la vittoria. Questo pezzo raro racconta ancora quindi sulla storia e sui valori del mondo indiano dove smeraldi, perle, rubini, zaffiri, giacinti, topazi, occhi di gatto e coralli possedevano proprietà benefiche e rappresentavano l’universo in miniatura come nel gioiello –talismano per eccellenza il navaratna. Il  dialogo che si era creato a partire dal Rinascimento fra la cultura indiana e quella europea è continuato  nelle epoche successive. Le opere nate dallo scambio culturale fra Oriente e Occidente costituiscono una sezione di grande rilievo della collezione Al- Thani che possiamo osservare in mostra a Palazzo Ducale. Fra queste le spille di Cartier: ricordiamo quella disegnata per l’Esposizione Internazionale di Arti decorative e industriali  moderne di Parigi nel 1925 o sempre di Cartier la collana di rubini di Nawaganar.

La quinta sezione della mostra raccoglie tanti gioielli realizzati da rinomate maison occidentali  come la piuma di pavone eseguita per un maharaja di Kapurthala per la giovane moglie di origine europea Anita Delgado. Una precisazione utile perché spesso nel mondo indiano i monili preziosi venivano indossati  dagli uomini. Altri oggetti ci tramandano il cerimoniale e gli usi di corte come il diffusore di acqua di rose con cui venivano profumati gli ospiti al termine di un pasto o di una visita come segno di accoglienza e favore. Nell’esposizione sono visibili   collezioni di oggetti del 1700 a smalto verde con gemme incastonate,  adoperati nelle udienze di corte e che ora rappresentano delle   importanti testimonianze dell’antica tradizione indiana. Tanti sono gli ornamenti e i simboli del potere come le spade e i pugnali o il favolosotessuto ricamatoche faceva parte del famoso Baldacchino di perle di Baroda, dove la seta che ricopre la pelle di cervo è letteralmente tappezzata di pietre preziose e perle per un totale di  circa 950.000 piccole gioie. L’esposizione che si protrarrà fino al 3 gennaio 2018 e  che  ha visto la partecipazione di studiosi  come Amin Jaffer e Gian Carlo Calza si chiude con un omaggio all’arte orafa contemporanea mettendo in vetrina gioielli indiani ed europei ispirati alla tradizione indiana. In mostra ammiriamo le opere di Viren Bhagat, accanto a quelle di Cartier e di Jar. Nei manufatti dell’orafo si intrecciano motivi e forme molto antichi con materiali e tecniche moderne. Questa rassegna importante sotto tanti profili vede anche la collaborazione veramente straordinaria di tante persone della Fondazione dei Musei Civici di Venezia e un ringraziamento particolare  è stato fatto  a Bianca Arrivabene dalla direttrice dei Musei Civici veneziani, la dr.ssa Gabriella Belli.

Patrizia Lazzarin, 12 settembre 2017

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