L’occhio in gioco

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Il nostro  modo di guardare e di comprendere  attraverso griglie che costruiscono il reale, come quando ci troviamo di fronte a un paesaggio naturale o ad un’opera d’arte, oppure attraverso canali sconosciuti alla consueta razionalità, come per merito dell’intuizione, sono degli ipotetici quesiti sulla percezione che potrebbero sorgere fermandoci ad osservare, nella rassegna L’occhio in gioco, le molte  creazioni, tutte dotate di una loro intrinseca armonia, che nel loro roteare a volte, nel movimento o nella staticità apparenti, raccontano lo Spirito hegeliano del suo inventore e dell’universo in cui esistiamo. L’esposizione che si è aperta oggi a Palazzo del Monte di Pietà  affascina per la bellezza delle opere, ma anche per i profondi significati che ci consegna quasi  su un piatto d’argento per farne in parte l’uso che preferiamo. La libertà sembra uno dei suoi comuni denominatori  come sembra sollecitare Otto Runge.  Il suo testo La sfera dei colori sarà infatti come scriverà anche Paul Klee un insegnamento imprescindibile per tutta la pittura a venire, incidendo in maniera profonda sull’elaborazione teorica delle avanguardie del Novecento. Runge, Goethe ed Henry saranno accostati nell’esposizione con i  grandi maestri del colore e del disegno quali Seurat, Kandinsky,  Klee e  Boccioni e moltissimi altri che hanno  ciascuno, a proprio modo, interpretato nelle loro opere il tema della percezione visiva. L’occasione d’oro da cui nasce la rassegna sono i festeggiamenti per gli Ottocento anni compiuti dall’Università patavina che in collaborazione con la Fondazione Cariparo ha ideato e promosso una mostra che, come ha detto anche il presidente dell’organizzazione filantropica, Gilberto Muraro: “si presume poter ammirare in una delle grandi sedi espositive di New York o Londra. Laddove ci si attende qualcosa che vada molto oltre il consueto, il già visto”. Essa  muovendosi sulla scia del rapporto tra arte e scienza, già sperimentato con la mostra Rivoluzione Galileo del 2017, ha la curatela per la parte storica di Luca Massimo Barbero  e per la parte dedicata al Gruppo N e alla psicologia della percezione, di  Guido Bartorelli, Giovanni Galfano, Andrea Bobbio e Massimo Grassi dell’Università di Padova. Suo fattore trainante la ricerca artistica sull’ottica e il colore da un lato e sulla percezione e sul movimento dall’altro  e alimenta le reciproche interferenze per diverse letture del reale e dell’immaginario. L’arco di tempo considerato comprende i secoli dal XIII al XX. Compaiono le prime miniature e le prime rappresentazioni della sfera celeste e del mondo, nell’Occidente e nel Medio Oriente, con una particolare attenzione a Galilei che insegnò all’Università di Padova. Simboli della cultura e della ricerca patavina sono leggibili anche nel Tractatus astrarii di Giovanni Dondi e nell’attività pittorica di Giusto de’ Menabuoi, con le schiere angeliche dipinte sui cieli del Battistero della città universitaria. Una parte considerevole della mostra è dedicata agli studi sul colore e sul movimento nell’Ottocento e nel Novecento e alle relazioni  esistenti tra arte, fotografia e cinema. In  Volo di Anselmo Bucci e la Danseuse di Gino Severini, dove la pittura  si confonde con l’azione, sono solo due episodi di questa mostra: due accadimenti in grado di far nascere il nostro stupore. Tante opere, grandi e piccole, come Primavera raggista di Natalia Goncharova, Bambina che corre sul balcone di Giacomo Balla, Profilo Continuo di Renato Bertelli,  Nude discending staircase   di Marcel Duchamp o di Gjon Mili, le tante opere eccezionalmente visibili di Victor Vasarely, di Alexander Calder, di Francois Morellet e di ancora molti altri, sono capaci di trascinarci letteralmente, attraverso la percezione delle forme e del colore, all’interno  di un’arte che interpreta e trasforma le sembianze del visibile. L’occhio in gioco è la ripresa del titolo The responsive Eye di un’altra mostra svoltasi al Museum Modern Art di New York nel 1965 e curata da William Seitz che dava valore alle opere  della nuova tendenza ottica e percettiva. Prima di fare  il nostro ingresso nella seconda sezione della rassegna, ci troviamo immersi nella musica di David Bowie e della sua canzone più iconica: Space Oddity, pubblicata l’undici luglio del 1969, nove giorni innanzi al primo sbarco dell’uomo sulla Luna. Il volto del musicista sulla copertina dell’album: un ritratto fotografico di Vernon Dewhurst, sovrapposto ad un’opera dell’artista Victor Vasarely, concentra uno dei principi basilari dell’Occhio in gioco che indaga sulla stranezza dello spazio tra gravità, percezione e ancora molto da scoprire. La sezione monografica mette a confronto l’attività artistica del Gruppo N, movimento  che ha operato a Padova tra il 1960 e il 1964 e che, come ha spiegato  il curatore Guido Bartorelli: non ha avuto un riconoscimento adeguato anche per il fiorire della contemporanea più popolare Pop Art, agli studi sulla percezione sviluppatisi nella città dalla fondazione nel 1919 del Laboratorio di Psicologia Sperimentale da parte di Vittorio Benussi. Il campo d’indagine dei fenomeni percettivi diventa  comune ad artisti e scienziati. Cesare Musatti, Fabio Metelli e Gaetano Kanizsa con le loro ricerche sulla percezione superano la cerchia dell’ateneo e alimentano attorno a loro un fermento culturale  fecondo. Il Gruppo N era formato da Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Toni Costa, Edoardo Landi, Manfredo Massironi e Marina Apollonio. Essi colgono nelle loro opere gli effetti ottici della visione, analizzandone la struttura fino a toccare con Apollonio le corde dell’inconscio e farci sperimentare un senso di vertigine. La mostra  invade  anche la città: installazioni del Gruppo N le potremmo vedere nel cortile antico del Bo, al Museo di Storia Naturale della Medicina e all’Orto Botanico. Potremmo concludere questo breve excursus nella rassegna che sarà visibile fino al 23 febbraio 2023 con le parole del curatore Luca Massimo Barbero: La percezione serve per uscire dalla gabbia, per stimolare la conoscenza. L’occhio in gioco è una mostra storica e pensata  per le nuove generazioni. Dimostra la vitalità della storia e al tempo stesso la sua  contemporaneità”.

Patrizia Lazzarin, 24 settembre 2022

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Oltre il visibile, De Chirico a Milano, a Palazzo Reale

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Cavalli in una stanza e sulla  riva del mare, destrieri che si solidificano in pietra  bianca o grigia, costruiti con schegge di gesso e di marmo. Cavalli  liberi  a volte e prigionieri in altre, nella natura  e fra le pareti di un edificio, vivi o  pietrificati, ma senza occhi. E’ questo un  particolare comune ad uno dei soggetti  che più affascinano nella mostra dedicata a Giorgio de Chirico  che si è aperta  il 25 settembre a Milano  a Palazzo Reale. La capacità visionaria di questo pittore trova un’espressione bellissima, luminosa e stimolante attraverso le immagini di  animali, simbolo eterno di libertà che siamo abituati a vedere, nella nostra mente, muoversi su vaste praterie. L’arte  in De Chirico è una ricerca sapiente che si svolge  durante tutta la sua vita. E’  un voler guardare oltre, al di là del visibile. Pittura la sua spesso, se non sempre, autobiografica per i tanti rimandi alla propria  vicenda esistenziale a cominciare da uno dei primi quadri che vediamo in mostra La partenza degli Argonauti del 1909. In esso racconta, trasfigurandolo con l’ausilio del mito,  il suo abbandono e quello del fratello Alberto della terra greca dopo la morte del padre ingegnere.  La storia di Giasone e Polluce alla ricerca del vello d’oro è solo l’inizio di quel viaggio che attraverso le favole del mito   affonda le  radici nell’antichità   e finisce per svelare sentimenti e pensieri dell’artista che si nutrono di filosofia, di letteratura e d’arte.  Friedrich Nietzsche è stato  il suo amato  filosofo, Arnold Böcklin il pittore simbolista con  cui ha condiviso  le atmosfere  agli inizi del suo percorso artistico. Certamente la vasta cultura  dell’artista non si esaurisce qui, se pensiamo al suo recupero della lezione giottesca e di Piero Della Francesca nei dipinti che lo hanno reso famoso e al tempo stesso l’hanno definito intrigante. Una vena di provocazione più o meno sottile  attraversa l’intera  l’opera di Giorgio de Chirico che distende  davanti ai nostri  occhi piazze vuote popolate da  architetture che misurano esse stesse lo spazio, geometrie in primis  che recuperano il significato originario di questa scienza: misura della terra, ossia  del luogo in cui  viviamo. O forse non viviamo più. La piazza simbolo di socialità ribalta il suo significato di momento d’incontro. Nessuno o solo qualche statua  e manichino riempiono di nuovi significati quegli spazi.  Nell’olio del Metropolitan Museum of Art di New York Arianna abbandonata da Teseo e sposa di Dioniso, giace solida nel suo manto di pietra, a lato dello spazio vuoto, sola. Gli sbuffi di un treno in lontananza e le vele bianche dalla parte opposta si coniugano nel definire il sentimento del luogo. Sentiamo brividi di freddo percorrere le nostre membra mentre osserviamo il quadro e mentalmente attraversiamo quella piazza.  Il Grande Metafisico, l’inventore  di una nuova avanguardia, assai originale, diversa da quella cubista o futurista, con i suoi Manichini di legno svela in questa mostra, come ha dichiarato il curatore Luca Massimo Barbero durante la conferenza stampa, anche  la sontuosità pittorica degli anni Venti e Trenta che spesso scontenta la critica ufficiale.  Pittore conteso soprattutto discusso, fino al culmine di una causa contro la Biennale del 1948, nell’esposizione aperta fino al 19 gennaio 2020 si sono condensati nuovi studi che ne rivelano attraverso i cento capolavori presenti in mostra giunti da musei milanesi, ma anche da istituti museali internazionali e da collezioni private la ricchezza e al tempo stesso la varietà della pittura di De Chirico. Il suo voler farci guardare oltre è una sfida anche per le nuove generazioni come ha fatto notare l’assessore alla Cultura del Comune di Milano, Filippo del CornoLo scopo di questa mostra è anche quello di far conoscere questo artista ai giovani  e di facilitare un loro contatto diretto con l’opera d’arte. Fra le molte città dove il pittore  ha vissuto sicuramente lo aveva ispirato Ferrara: la città dei duchi d’Este che aveva ospitato gli artisti  visionari Ercole de’ Roberti e Cosmè Tura  e che con le sue vie e ampie arterie e i palazzi dal rigore geometrico aveva  stimolato la sua vena fantastica. Nel Saluto dell’amico lontano,  di quegli anni, ricompare l’occhio, quello che a partire dal 1918 egli invitava a vedere in ogni cosa. Il presidente della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, Paolo Picozza, ha mostrato tutta la sua meraviglia per gli esiti di questa mostra su De Chirico. Un’esposizione, questa, come ha sottolineato il direttore di Palazzo Reale, Domenico Piraina,  che si è arricchita di costanti approfondimenti critici e che quindi rispetto alla grande antologica sull’artista a Palazzo Reale nel 1970 e a quella del 1987 dedicata in maniera specifica agli anni Venti della sua arte, riconduce la complessiva opera dell’artista entro coordinate più corrette e giustificate dal punto di vista storico e documentale. Nelle linee programmatiche di Palazzo Reale anche l’idea di proporre un autore che testimoniasse, come già fatto con Rubens, Ingres, Picassoil significato del mito nella cultura occidentale. Ecco dunque che un artista come Giorgio de Chirico  non poteva mancare. Corazze con cavaliere, quasi di sapore ariostesco dipinto negli anni Quaranta sembra riprodurre nell’immacolata cittadina arroccata sul colle echi di atmosfere cavalleresche: miti di mondi d’altri tempi.  Il figliol prodigo, opera del 1922 e   anche  icona  della mostra e  Ettore ed Andromaca del 1923 racchiudono due temi essenziali del pensiero e dell’espressione di De Chirico: gli affetti importanti e il modo di relazionarsi  con essi. Ettore è quasi un manichino, Andromaca e il padre si stanno trasformando in pietra, una materia che sembra avere a tratti ancora la morbidezza di un mantello. Una sostanza che sembra solidificare l’essenza e la bellezza di chi amiamo nell’eternità ma al tempo stesso indicare lo spessore o la natura dell’animo umano. La pietra diventa anche quella summa di minerali in cui si trasforma il  pittore-poeta nell’Autoritratto del 1924/25 di collezione privata,   dove    la pelle della mano si mostra  come  creta bagnata. La storia di  Giorgio de Chirico è ancora colore, quelle tinte che hanno  la forza dell’antica pittura veneta come nell’Autoritratto nel parco eseguito nel 1959. Quei toni accesi che egli usa per ironizzare e anche, per svolgere un filo che ci conduce a guardarlo  proiettato in un lontano Seicento. Viaggio nella storia ma anche meditazione su di essa. Una Storia a volte riesumata, masticata come le rovine di propilei, templi e statue greche nel ventre dell’Archeologo, metafora di un passato non elaborato e faticoso o invito a riappropriarsi in maniera adeguata dell’antico? Rebus ed interrogativi riempiono le tele del pittore dove l’intensità del colore avvolge e allo stesso tempo indica con le sue sfumature le tonalità di un uomo e quelle di tanti periodi storici, da fine Ottocento agli ultimi anni  70’ del 900’. Nel catalogo pubblicato da  Marsilio Electa, come anche nell’esposizione,  il curatore Luca Massimo Barbero propone confronti fra i soggetti e le immagini dechirichiane, ossia degli inciampi per esprimere la  metafisica del quotidiano nella pittura dell’artista. Molti i saggi di approfondimento come quelli di Cristina Beltrami, di Giovanni Casini, di Andrea Cortellessa e quelli della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico. La mostra, che ha come principale sponsor M&G Investment, termina con  l’ottava sala dedicata alla Neometafisica che chiarisce la forza concettuale dell’ultima produzione dell’artista originario di Volos nella Tessaglia e che rappresenta una sintesi del suo pensiero.                                                                                

Patrizia Lazzarin, 25 settembre 2019

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