Canaletto & Venezia

  • Pubblicato in Cultura

Canaletto & Venezia, l’esposizione che si è aperta in questi giorni a Palazzo Ducale,  è un’immersione nella storia dell’arte e della cultura veneziana del Settecento. Questo secolo che assiste al declinare  della potenza della città lagunare mostra al contrario intatta e feconda la vena creativa  dei suoi artisti: il fascino del mito di Giambattista Tiepolo nei cieli popolati di divinità che incantano, le accensioni delle tinte del figlio Giandomenico nei racconti  della vita  veneziana, il pennello soffice nei ritratti di Rosalba Carriera o nelle favole del cognato Antonio Pellegrini e la maestria del disegno di  Giulia Lama, ammirata da  Giambattista Piazzetta che assieme a Sebastiano e Marco Ricci,  a Francesco Guardi  e a Bernardo Bellotto colgono le sfumature di un mondo vario e mutevole.  Fra di loro  chi sperimenta di più  con l’immaginazione, chi si avvale soprattutto dello spirito d’osservazione. Antonio Canal  detto Canaletto (1697-1768) appartiene a questa seconda schiera di maestri del colore ed egli traduce  nelle sue opere, con precisione ottica, arricchita dalla luce e dal colore, la bellezza del reale.  Le sue vedute hanno fatto innamorare dal Settecento ad oggi visitatori di ogni paese, felici di portare  con se uno scorcio di quella Venezia che nelle tele del pittore veneziano conserva la luce di una città che vive sospesa fra cielo e mare. Assieme alle tele dei musei veneziani la mostra ospita opere provenienti da importanti collezioni inglesi, americane, russe e francesi, ha spiegato il sindaco di Venezia  Luigi Brugnaro.  Il progetto dell’esposizione è stato sviluppato assieme alla Réunion des Musées Nationaux - Grand Palais ed esso  conclude la narrazione aperta al Grand Palais di Parigi a settembre 2018, mettendo in evidenza la dimensione europea dell’arte del Settecento veneziano e soprattutto il suo slancio verso la modernità, ha precisato la direttrice della Fondazione dei musei civici di Venezia,  Gabriella Belli nella presentazione del catalogo della mostra edito da Consorzio Museum Musei. Il Settecento è il secolo dei lumi dove le aspirazioni ad un’interpretazione più logica e razionale del reale si intuiscono anche nell’arte pittorica, in questa volontà di definizione e di comprensione  dei luoghi   per mostrarne la loro specificità. Quando ci poniamo  ad osservare la tela: La chiesa e la scuola della Carità dal laboratorio dei marmi di San Vidal  di Canaletto,  proveniente dalla National Gallery di Londra,  il nostro animo è avvinto da quel colore caldo che varia nelle sue tonalità dai gialli ai marroni spruzzati di rosso  e da quel biancore della pietra che nella sua purezza sembra far da contraltare e mettere in luce l’operosità della gente. E pare quindi straordinario ritrovare palazzi, monumenti, chiese, canali e campielli nelle opere del Canaletto, Guardi, Marieschi  e Bellotto, in visioni precise e nitide in alcuni, trasparenti quasi a dissolversi in altri, in un fermo immagine che ama cogliere la grandiosità e la bellezza di una città regina dei mari da  secoli. E’ una Venezia preziosa, racchiusa in una teca, in  equilibrio fragile, in un’epoca di cambiamenti che vedrà molti pittori, come lo stesso Canaletto, Bellotto e Pellegrini trasferirsi, per periodi più o meno lunghi, nelle corti europee. Il vedutismo nasce nei primi anni del Settecento con la pubblicazione della raccolta di incisioni intitolata: Le fabbriche e le vedute di Venezia disegnate, poste in prospettiva e intagliate da Luca Carlevarijs, ma Canaletto riesce a inventare una grafia che esprime  visioni che fanno emergere la poesia di un racconto essenziale del mondo veneziano, colto negli elementi che costituiscono la sua identità. Più sfocate ma al tempo stesso trasparenti le atmosfere che riempiono le tele di Francesco Guardi dove gli edifici, quasi presenze vitree, nel loro vibrare fanno trascorrere una luce che rende acque e palazzi, specchi, dove volgere il nostro sguardo per cercare un’umanità nascosta. Trasparenze che giungono a volte alle montagne e ci lasciano incantati ad osservare. Pietro Longhi  ci accompagna  dentro  le abitazioni dei veneziani  e nelle predilezioni e passioni dell’epoca, all’indomani dei mutamenti culturali che avevano posto maggiore attenzione anche al ruolo delle donne nella società. La dimensione europea degli artisti è illustratanella rassegna intesa a far conoscere come  nella scultura, nell’arte decorativa, nell’incisione, nell’editoria, nell’affresco e nell’architettura  vi siano  molte espressioni  che rappresentano la qualità creativa e innovativa dell’arte veneziana, capace di emergere nel contesto sovranazionale. Antonio Pellegrini, Giambattista Tiepolo nelle storie del mito o Sebastiano Ricci nei quadri di storia raccontano con stile elegante, a volte sontuoso,  leggende e avvenimenti che fanno parte del nostro patrimonio culturale. E’ un’esplosione di colore e di vitalità, di luci nuove, di bellezza che seduce, di morbidezza e a volte di sensualità che raffigura un mondo che quei valori intende esprimere, fatto di corti, di luoghi di cultura e di simboli. Agli antipodi  la pittura di coloro che come Giambattista Piazzetta nel suo dipinto la Ragazza che si spulcia o Il giovane pescivendolo che conta i denari, in tocchi di realismo che non s’ inchina a nessun perbenismo, mostra l’altra faccia della terra con naturalezza. Da ammirare per la loro modernità i ritratti in carboncino e gesso di questo pittore che si possono vedere in mostra. Più sezioni per evidenziare gli aspetti incredibili di una città che stupiva per le sue cerimonie e per le sue  feste, come nello Sposalizio del mare dove protagonita e  luogo designato era il Bucintoro, quella nave d’oro immortalata nelle opere, senza tempo, di Canaletto  e Bernardo Bellotto o quel Carnevale, ancora oggi straordinario nelle sue maschere, come quella di Pulcinella che incanta negli acquarelli di Giandomenico Tiepolo. Quanti colori invece: gialli, rossi e turchesi  riempiono assieme alle maschere la tela del Minuetto di Giandomenico  e irrompono nel nostro campo visivo portando tutta la vitalità di un’epoca e l’eccezionalità di una città: Venezia,  luogo speciale. Un mondo straordinario che la scultura di Antonio Canova, a fine percorso espositivo,  ma all’aprirsi del nuovo secolo, sembra salutare con la tristezza velata di  rimpianto.                                                                                                                               

Patrizia Lazzarin, 4 marzo 2019

Leggi tutto...

A Venezia i tesori dei Moghul e dei Maharaja

  • Pubblicato in Cultura

Un dossier prezioso è la mostra che si è aperta il nove settembre a Palazzo Ducale   per la comprensione delle relazioni di Venezia con i paesi dell’Asia e del Mediterraneo.  La città lagunare è stata chiamata a  ragione la porta  d’Oriente. Le esposizioni nel palazzo dei Dogi: Venezia e l’Islam nel 2007  e Venezia e l’Egitto nel 2011  che  avevano preceduto la rassegna odierna Tesori dei Moghul  e dei Maharaja    avevano già fatto conoscere l’esistenza una  lunga  e lontana amicizia  della Repubblica marinara con l’Oriente, come ha sottolineato la direttrice della Fondazione dei Musei Civici, Gabriella Belli.  Palazzo Ducale, antica sede del potere è sembrata cosi il luogo ideale per ospitare,  per la prima volta in Italia, le  gemme e i gioielli della Collezione Al Thani, una delle più stupefacenti raccolte esistenti al mondo di preziosi indiani o d’ispirazione indiana degli ultimi cinque secoli. Gioielli dai significati profondi che alla bellezza uniscono la storia e i miti di uno spazio temporale racchiuso fra l’epoca  degli imperatori Moghul (1526-1858): i discendenti di Tamerlano,  del  Raj britannico (1858-1947)  e quella contemporanea. Venezia  dunque,  dopo  Londra e   Parigi,  è la città  che ha l’onore di   essere   lo scrigno  che accoglie e dove possiamo ammirare i  duecentosettanta gioielli dello Sceicco Hamad bin Abdullah  Al Thani.  Opere d’arte dove la vista del taglio  e dell’incastonatura  di verdi smeraldi, rossi rubini e spinelli, bianchissime perle e diamanti lucenti ci lasciano letteralmente a bocca aperta. L’India è  una terra nota da sempre per la presenza di favolose ricchezze: il Kashmir era il luogo dove si potevano trovare i zaffiri delle più svariate tonalità,  il Badakhshan offriva gli spinelli, pietre preziose simili ai rubini, nel Deccan vi erano  magnifici diamanti e nel Golfo Persico si potevano raccogliere le perle. Già Marco Polo ci raccontava di favolosi tesori. Sulle gemme esposte in mostra troviamo incisi i nomi dei monarchi,  cosa abituale  sulle pietre più preziose che finivano così per diventare delle testimonianze del valore di una dinastia.  Questa mostra attraverso le sue  articolate sezioni ci svela un mondo. Alcune gemme vantano poi  una provenienza illustre. Arcot II è uno dei diamanti regalati da  un nobile musulmano alla regina Carlotta moglie del re Giorgio III (1738-1820) e poi incastonato nella corona di Giorgio IV, mentre l’Occhio dell’idolo è considerato il diamante blu tagliato più grande del mondo. Splendidi sono   gli smeraldi, molto apprezzati dai sovrani islamici dell’India poichè il verde era il colore preferito di Maometto. I poteri salvifici e protettivi  delle pietre preziose sono  tenuti    in considerazione ancora oggi in India  e antichi trattati li descrivono con dovizia di particolari. Ogni gemma per gli induisti ha un significato che si collega all’universo e alle sue leggi. Molte persone indossano preziosi che allontanano sfortune e malattie e altri che aiutano a raggiungere la felicità e la ricchezza ritenendoli permeati da una forza vitale e positiva sulle vicende dell’uomo.  Ai sovrani dell’impero Moghul venivano destinate le pietre più grandi e pregiate estratte nel territorio a cui si aggiungevano quelle provenienti dagli ambasciatori che le portavano in dono e quelle degli acquisti effettuati dai mercanti europei. Molti pezzi nella rassegna rivelano il gusto artistico della dinastia Moghul e il dialogo del mondo indiano  con il continente europeo. Possiamo osservare entrambi questi aspetti: da un lato l’applicazione di tecniche autoctone come quella Kundan, dove le gemme venivano posizionate senza adoperare griffe visibili e conservando, per quanto possibile, le dimensioni originali della pietra e dall’altro l’utilizzo da parte degli orafi indiani di tecniche quali la smaltatura conosciuta in Oriente grazie all’arrivo degli artisti delle corti rinascimentali europee. Tra gli oggetti realizzati con una decorazione di smalti policromi e con la tecnica kundan spiccano il portapenne e calamaio del 1575 -1600 originario del Deccan, un esemplare che veniva donato  dai sovrani ai cortigiani più anziani come segno di distinzione. Fra le chicche della collezione Al Thani vediamo la più antica giada Moghul datata: essa risale al 1607-08. Si tratta della Coppa da vino dell’imperatore Jahangir. Questo oggetto di valore inestimabile che contiene un’iscrizione in versi in lingua persiana è interessante perché realizzato  con un materiale: la giada che veniva ritenuta capace di svelare la presenza del veleno e favorire la vittoria. Questo pezzo raro racconta ancora quindi sulla storia e sui valori del mondo indiano dove smeraldi, perle, rubini, zaffiri, giacinti, topazi, occhi di gatto e coralli possedevano proprietà benefiche e rappresentavano l’universo in miniatura come nel gioiello –talismano per eccellenza il navaratna. Il  dialogo che si era creato a partire dal Rinascimento fra la cultura indiana e quella europea è continuato  nelle epoche successive. Le opere nate dallo scambio culturale fra Oriente e Occidente costituiscono una sezione di grande rilievo della collezione Al- Thani che possiamo osservare in mostra a Palazzo Ducale. Fra queste le spille di Cartier: ricordiamo quella disegnata per l’Esposizione Internazionale di Arti decorative e industriali  moderne di Parigi nel 1925 o sempre di Cartier la collana di rubini di Nawaganar.

La quinta sezione della mostra raccoglie tanti gioielli realizzati da rinomate maison occidentali  come la piuma di pavone eseguita per un maharaja di Kapurthala per la giovane moglie di origine europea Anita Delgado. Una precisazione utile perché spesso nel mondo indiano i monili preziosi venivano indossati  dagli uomini. Altri oggetti ci tramandano il cerimoniale e gli usi di corte come il diffusore di acqua di rose con cui venivano profumati gli ospiti al termine di un pasto o di una visita come segno di accoglienza e favore. Nell’esposizione sono visibili   collezioni di oggetti del 1700 a smalto verde con gemme incastonate,  adoperati nelle udienze di corte e che ora rappresentano delle   importanti testimonianze dell’antica tradizione indiana. Tanti sono gli ornamenti e i simboli del potere come le spade e i pugnali o il favolosotessuto ricamatoche faceva parte del famoso Baldacchino di perle di Baroda, dove la seta che ricopre la pelle di cervo è letteralmente tappezzata di pietre preziose e perle per un totale di  circa 950.000 piccole gioie. L’esposizione che si protrarrà fino al 3 gennaio 2018 e  che  ha visto la partecipazione di studiosi  come Amin Jaffer e Gian Carlo Calza si chiude con un omaggio all’arte orafa contemporanea mettendo in vetrina gioielli indiani ed europei ispirati alla tradizione indiana. In mostra ammiriamo le opere di Viren Bhagat, accanto a quelle di Cartier e di Jar. Nei manufatti dell’orafo si intrecciano motivi e forme molto antichi con materiali e tecniche moderne. Questa rassegna importante sotto tanti profili vede anche la collaborazione veramente straordinaria di tante persone della Fondazione dei Musei Civici di Venezia e un ringraziamento particolare  è stato fatto  a Bianca Arrivabene dalla direttrice dei Musei Civici veneziani, la dr.ssa Gabriella Belli.

Patrizia Lazzarin, 12 settembre 2017

Leggi tutto...
Sottoscrivi questo feed RSS

Newsletter

. . . .