Renzi, premier "esperto" di educazione linguistica?!?

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Come è possibile (e auspicabile) insegnare Italiano oggi?”. Il recente intervento alla Leopolda del Capo di Governo Matteo Renzi sulla necessità di tornare a dettati e riassunti nella scuola elementare ha suscitato accanto a numerosi consensi un nutrito coro di critiche. Da segnalare,fra le voci critiche, quella apparsa sulla rivista online “Insegnare” a firma del direttore Mario Ambel. (www.insegnareoggi.org). Il direttore della rivista del Cidi, proprio nella sua qualità di insegnante e di formatore, rimprovera la legittimità dell’intervento, istituzionale e politica, in primo luogo, oltre che ideologica e pedagogica. In poche parole, proprio per il suo ruolo, il premier avrebbe dovuto limitarsi a chiedere risultati più efficaci nell’insegnamento dell’italiano, senza fornire indicazioni didattiche (su cui non è certamente competente), che sono frutto di una visione tradizionale e poco scientifica dell’insegnamento (“ideologia passatista e pensiero unico da bar dello sport”, la definisce Ambel).

Pensiamo all’aspetto più propriamente pedagogico. Il dettato e il riassunto - come vanno ripetendo da decenni le associazioni professionali che si occupano di educazione linguistica (Cidi, Giscel, Lend) – sono “procedure linguistico-cognitive” molto serie, pertanto richiedono “elevate competenze scientifiche e metodologiche” da parte degli insegnanti, se non vogliamo ridurle a fruste pratiche immotivate, ripetitive e, pertanto, inefficaci. Anzi, di più. Come già ai tempi di don Milani, esse diventano nella scuola strumento di selezione dei ragazzi socialmente e linguisticamente più svantaggiati. Pensiamo solo alla pratica del dettato nelle attuali classi multilingui, con una lingua di studio come l’italiano molto diversa da quella materna (con tutte le difficoltà fonetiche implicate), un italiano appreso molto spesso nelle sue varianti regionali e quindi ben lontano nell’uso quotidiano dal modello standard e scritto, a cui fanno riferimento i dettati. Quante e quali ostacoli pone ad una sua efficace realizzazione!

Soffermiamoci sul riassunto. Come la parafrasi, è una delle forme di riscrittura, che hanno come condizione di partenza la lettura e la comprensione dei testi. Attività queste, non certo scontate, che vanno insegnate attraverso un opportuno percorso di “metacognizione”, cioè di riflessione da parte di chi apprende sui processi attivati durante la lettura. Se poi aggiungiamo l’altro versante del riassunto, cioè la scrittura a partire da testi di altri, si potrà intuire anche senza essere degli specialisti, la complessità di ciò che viene chiesto ai nostri figli a partire dalla scuola elementare fino alla prova finale dell’Esame di Stato, quella definita come Articolo e Saggio Breve.

In un recente Convegno tenutosi a Torino, sui temi dell’Educazione Linguistica Democratica, Gabriele Pallotti ricordava la riforma dell’Esame di Stato nel 1999, quando con altri propose per la Prima Prova la “scrittura documentata”, per liberare i maturandi dalla “fatica di trovare le cose da dire” su argomenti di attualità sociale, scientifica e tecnologica. In realtà, tale scrittura si è trasformata in una ‘copiatura mutilata’ del dossier ministeriale. Per questo a Scienze della Formazione di Reggio Emilia si sono avviati percorsi di “scrittura documentata” nella scuola primaria. A partire da stimoli visivi, come una sequenza cinematografica narrativa (tratta da un film di Harry Potter)i bambini, suddivisi in gruppi, dividono il racconto cinematografico in pezzi, lo titolano, lo confrontano con gli altri e, infine, riscrivono la scena del film sulla base di una scaletta. La riscrittura a partire dalle sequenze viene infine sottoposta ad una revisione tra pari, su singoli aspetti (punteggiatura, capoversi, lessico, tempi verbali, ecc.).  Gli esempi di tali percorsi mostrati dal professore hanno dimostrato che prepararsi alla scrittura significa allenarsi ad operazioni cognitive che si possono apprendere fin dall’ infanzia: dal pensiero di gruppo a quello individuale (raccogliere idee, metterle in fila, organizzarle), per arrivare alla scrittura vera e propria (fare diverse versioni, abituarsi a revisionare e migliorarsi da soli e con i compagni). Dall’agire concreto al pensiero astratto. Il tutto, infatti, avviene attraverso un lavoro manuale di taglia e incolla: scrivere su strisce di carta, incollarle su scatole, riordinarle, usare pennarelli, ecc. Si tratta di una formazione metacognitiva, basata sulla manualità, sull’autostima, sulla collaborazione.

Questo, sì, è un buon esempio di percorso per arrivare poi alle varie forme di “riscrittura”, fra cui, appunto, il riassunto, non liquidabile con un suggerimento volante, più simile ad uno slogan populista che ad un suggerimento fattivo per il miglioramento della scuola italiana (ci vuole ben altro …).

Clara Manca - Cidi - Torino - 8 gennaio 2016

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Multilinguismo, plurilinguismo e formazione in Europa

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Due prospettive diverse. In questi giorni assistiamo ad accesi dibattiti sull’esistenza di una reale unità europea di fronte alle sfide del terrorismo internazionale e alla necessità di una risposta univoca. Può sembrare marginale una riflessione sulla posizione dell’Europa circa l’educazione linguistica dei suoi cittadini, eppure, a suo modo, è rivelatrice delle diverse ‘anime’ di questa Europa dai confini non ben definiti. Vediamo perché.

L’ Unione Europea è un'alleanza economica e politica tra 28 Paesi, che coprono buona parte del continente. Nata sulle rovine della II Guerra mondiale, con l'obiettivo di promuovere innanzitutto la collaborazione economica tra i paesi, si è poi allargata all’unione politica. Mobilità, crescita, stabilità e moneta unica sono diventati i suoi obiettivi. Grazie al mercato unico, garantisce la libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone. Le lingue ufficiali sono 24, anche se per i suoi tratti principalmente economici, a prevalere è l’inglese per tutti gli usi comunicativi legati a ricerca, scambi commerciali, impiego, lavoro, mobilità degli studenti ecc. L’UE considera il multilinguismo (che contraddistingue un territorio in cui sono parlati idiomi diversi) un elemento importante della competitività europea. Uno degli obiettivi della politica linguistica dell'UE è pertanto che ogni cittadino europeo abbia la padronanza oltre alla propria lingua madredi altre due lingue, tra cui ci deve essere l’inglese.

Il Consiglio d’Europa, nella consapevolezza delle troppe sfide a livello nazionale, propone un approccio più articolato per la formazione linguistica nei 48 stati (tra cui i 28 membri dell’UE) che lo compongono. Ricordiamo, che si tratta di un organismo internazionale, e non di una istituzione europea, nato nel 1949 per proteggere i diritti umani, la democrazia e lo stato di diritto, quindi con una prospettiva diversa da quella dell’UE. Proprio in questi giorni esso si è riunito a Lisbona (3-4 dicembre) per discutere come combattere la radicalizzazione e il terrorismo, mentre venti di guerra percorrono i singoli stati dell’Unione: Francia per prima, Inghilterra poi, e ora Germania…

Ebbene, tale organismo- che dispone di risorse economiche limitate -utilizza solo due lingue ufficiali, inglese e francese.

Nella consapevolezza che il successo scolastico passa attraverso la competenza linguistica, il Consiglio ha pensato ad una piattaforma costituita dai principi basilari per l’educazione linguistica negli stati membri, in cui si dà spazio al plurilinguismo (che consiste nella padronanza di lingue diverse da parte di uno stesso parlante). Si tratta di una educazione linguistica pluriculturale, che tiene in considerazione le differenti funzioni svolte dalle lingue nel contesto scolastico e le relazioni che le legano: le lingue insegnate sono prima lingua o seconde lingue /lingue straniere per gli alunni; esse sono studiate come materia specifica (nel nostro caso, l’italiano) o sono usate come strumento di apprendimento in altre materie. In determinati contesti scolastici possono essere presenti lingue regionali, minoritarie o delle popolazioni migranti. Quale è la logica sottesa a tale ‘vision’? E’ l’assunzione nel discorso scolastico della varietà e della diversità dei repertori linguistici e culturali ivi presenti; è la convergenza tra l’insegnamento delle lingue e quello delle altre discipline, nonché delle lingue fra loro (da quelle di scolarizzazione a quelle classiche fino a quelle minoritarie). Ovviamente, perché tutto questo si realizzi in maniera efficace ed efficiente si rende necessaria una stretta collaborazione fra Università e docenti per attivare una metodologia di azione e di ricerca insieme (ricercazione).

Clara Manca, Cidi, Torino, 5 dicembre 2015

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Biblioteche 2.0, cambiano le carte in tavola

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"La Biblioteca scolastica: una risorsa per la scuola delle competenze". Se ne è parlato venerdì 21 novembre, al Convitto Umberto I di Torino, in un convegno organizzato  da Torino Rete Libri  insieme ad AIB, Biblioteche civiche torinesi,  Cidi, Insegnare, Iter. Si è mostrato, infatti, quanto si sta facendo, pure in una situazione di risorse sempre più scarse, ma anche quanto c’è ancora da fare per promuovere la lettura, attività centrale nella formazione del cittadino.

Lo studioso di letteratura per ragazzi Pino Assandri ha ricordato che nelle riforme sulla scuola è stato riservato poco o nessun spazio alle biblioteche  e ai libri (anche nella proposta “La Buona scuola”) e che la biblioteca è vissuta come un luogo “separato”dal resto della società. Per Caterina Ramonda, saggista e responsabile delle Biblioteche del Fossanese, qui entrano in gioco gli insegnanti, i quali dovrebbero farsi supportare dalla biblioteca civica, per i  validi strumenti di conoscenza che essa offre ai docenti di “tutte” le materie (non solo a quelli di lettere!), visto che la lettura è una competenza trasversale!

Le biblioteche  - come il polo fossanese e quello torinese – possono offrire corsi di apprendimento di lettura veloce e momenti di lettura ad alta voce, ma anche laboratori per l’uso di stampanti in 3D, o ancora le  reti wi-fi protette, perché, oggi si può parlare di lettura come di un “letto a due piazze”  (secondo Fabio Fabbroni). Restano, però, imprescindibili alcune condizioni, non troppo onerose, secondo il professor De Mauro (due anni fa su “La Stampa”): avere libri in casa, leggerli, leggerli ai bambini per sviluppare intelligenza ed emozioni, convincere le autorità a creare luoghi di lettura. Quindi, si deve insistere su alcuni aspetti: 1. leggere come sinergia fra librerie, famiglie, biblioteca, scuola; 2. creare spazi per leggere dentro e fuori dalla scuola; 3. insegnare la strada che porti da lettore apprendente a cittadino-lettore.  Il mondo è cambiato …. sono cambiate le “carte in tavola”; c’è una nuova “narrazione”;  anche se l’esperienza della lettura resta un momento privilegiato.

Del resto, la bozza delle nuove Linee guida IFLA (International Federation of Library Associations and Istitutions), presentata da Luisa Marquardte attualmente al vaglio dell’Unesco, propone di trasformare le biblioteche scolastiche in un ambiente di apprendimento secondo la filosofia anglosassone dei Learning Commons, spazi educativi  e informativi aperti a contributi diversi per natura (es. digitale, con piattaforme o in presenza) e per attività (incontri, studio, discussioni, azioni di tutoraggio, ecc.), ma sempre attenti alla centralità di chi apprende. Il prof. Giovanni Solimene (Università di Roma, La Sapienza) esperto del settore, ha posto la sua attenzione su due aspetti: il ritardo culturale del nostro Paese e le trasformazioni in atto nel mondo della conoscenza. In Italia, non c’è una politica della conoscenza e non c’è spazio per il libro! Lo mostrano con evidenza i dati delle indagini internazionali, che mostrano l’Italia come un paese di ignoranti, con solo il 15% dei laureati ( ai livelli di Messico e Turchia, a fronte del 28% della media UE), con una partecipazione ad attività culturali molto bassa (un esempio: l’alto numero di laureati che non legge più di un libro all’anno), con l’ultimo posto fra i Paesi dell’OCSE per competenze linguistiche e comprensione dei testi. A ciò si aggiunga un altro dato: in Italia la Tv –seguita dal 98% della popolazione mondiale- è ancora per tanti il solo punto di riferimento per “uscire di casa”, il solo momento di fruizione culturale. E’ quindi evidente come per tanti ragazzi, scuola e biblioteche siano in tanti casi l’ unico canale di contatto con i libri. Purtroppo, ha fatto notare Mario Ambel (direttore della rivista on line “Insegnare”), le biblioteche non sono state citate nel documento “La Buona Scuola”, perché lì non si parla neanche di  inclusione, integrazione, territorio, cooperazione, curricolo (ma di “programma”…),  parole-chiave per associazioni come il Cidi (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti) che vuole rilanciare un’idea di scuola, a partire da una relazione educativa che si basi sulla serenità e sulla produttività del fare quotidiano.

La biblioteca scolastica è condizionata dai soggetti che vi operano (bibliotecari e insegnanti), dai tempi, dagli spazi e dagli oggetti fisici (che sempre più si smaterializzano …. ), oggi però sottoposti a dei cambiamenti che sono delle vere e proprie “torsioni”. Che può fare un allievo, allora? Immergersi  nelle novità e diventarne padrone. Per questo, si può parlare di “nuovo umanesimo” delle biblioteche, che può essere ottenuto facendo sperimentare al giovane lettore tutta la varietà di relazioni umane che stanno intorno all’atto di lettura (individuale o sociale, per piacere o per studiare)

Per tutte le trasformazioni in atto, se ieri era chiaro dove si potevano cercare le fonti e le conoscenze sembravano  la cosa più importante per l’uomo “colto” (si pensi alle trasmissioni di Mike Bongiorno, tanto per intenderci!), oggi sono enormemente aumentate le opportunità di accesso alle informazioni, sempre più elaborate, grazie alla Rete (ormai anche … in tasca con gli smartphone).ma solo come  frammenti di sapere, per cui si deve  oltre che saper cercare, anche saper scegliere e rielaborare. Ebbene,  biblioteche e libri sono strumenti che educano alla complessità (e non solo, fare zapping!). Si tratta, perciò, di sviluppare la Information Literacy, l’educazione ad un uso consapevole del sapere, competenza a cui dovrebbe essere dedicato parte dell’insegnamento disciplinare, che ha il compito sì di dare contenuti, ma anche di fornire strumenti per conoscere la disciplina. Utile per questo motivo, anche la “Settimana della lettura” nelle scuole, durante la quale al posto delle solite lezioni si legge, si discute e si parla di libri, cercando di coinvolgere le famiglie, alle quali bisogna far capire come non sia una perdita di tempo ma parte del programma, anzi un arricchimento per i ragazzi.

Per i “nativi digitali” è indispensabile  recuperare la consapevolezza delle differenze fra vari tipi di “fonte” per riconoscerne l’autorevolezza di caso in caso. E questo, a cominciare dalla scuola superiore, dove ci sono ragazzi che confondono “editore” con “autore” …. Certo, c’è  internet,dicevamo, ma per capire le cose devi possederne la “grammatica” , una struttura logica- informatica che oggi manca ai giovani. Perché? Perché non leggono! Solo se leggi puoi avere una grammatica culturale, che oggi i più non possiedono, per cui si vive un senso di perdita, come ha sottolineato la pedagogista Anna Anfossi, responsabile del progetto Nati per Leggere, con cui ci si propone di diffondere i libri nei luoghi frequentati da bambini e  famiglie (rioni marginali, Asl, ambulatori pediatrici, ecc.).

Molti gli esempi di “buone pratiche”. Dalle iniziative di TorinoRetelibri (19 scuole e 38 biblioteche), con mercatino di libri,  concorso fra studenti per la produzione di trailer, video, grafica, corsi di vario genere, letture ad alta voce, a quelle della  Biblioteca civica di Venaria, aperte al territorio e ad una rete di scuole (una per tutte: il  “Gioco dell’Oca”, per le classi quinte della primaria, con titoli di libri,  nelle caselle) fino al “Book stock” e al Salone off 365, del Salone del Libro di Torino. C’è poi l’attività delle biblioteche civiche torinesi, diretta principalmente ad accrescere le competenze dei cittadini e ad evitare l’esclusione di tanti dall’informazione e dalla conoscenza, nonché ad aiutare la creatività, per una crescita corale della reazione al cambiamento (obiettivi UNESCO).

Di grande interesse, due esperienze lontane tra loro: la bibliomediateca di Bella (PZ), attualmente in difficoltà per risorse finanziarie e umane, che ha fatto per anni da polo culturale per le scuole e il territorio, e il centro di letteratura infantile e giovanile di Bolzano, Jukibuz (Iung Kinder Book Center), con seminari e letture ad alta voce per bambini, adolescenti e adulti, spot televisivi di libri preparati dai ragazzi, laboratori di lettura  per le classi su un tema, fino alle uscite dal centro culturale per “leggere” “la” e “nella”  natura. Perché la lettura dovrebbe seguirci ovunque. … come lo spazzolino da denti!

Insomma, meno risorse, più idee!

Come diceva Lionello Sozzi, la Biblioteca è più di altri “luogo dell’anima”, perché racchiude sogni, progetti e valori interiori.  

 Clara Manca - Cidi - Torino

 

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