Le (deprimenti) lezioni che arrivano da Londra

Le questioni complesse non hanno soluzioni semplici. Ne è una conferma drammatica la Brexit, che – dalla campagna pre-referendaria a oggi – è stata motivata con una patetica sequenza di semplificazioni, dagli slogan iniziali («leave the EU», «take back control!») fino a quelli di questi giorni («deliver a clean Brexit», «out means out!»).

La complessità si affronta con altrettanta complessità; la quale però richiede fatica molto maggiore di quanta ne richieda la proclamazione di slogan. È deprimente constatare che, sebbene della questione estremamente complessa del distacco della Gran Bretagna dall’Ue si sia parlato ininterrottamente da quando il referendum del 2016 fu annunciato a oggi, i britannici hanno dimostrato pochissimo interesse a saperne di più. La conoscenza di concetti base (che cos’è l’Unione Europea e quali sono i suoi poteri? quanto versa il Regno Unito alla Ue e come vengono utilizzati questi fondi? e così via) è scarsamente diffusa; e i sondaggi mostrano che, nel caso di un secondo referendum, gran parte degli elettori non saprebbero come votare perché si sentono ancora poco informati!

Diversi psicologi, tra i quali Daniel Kahneman, hanno mostrato come le persone, nel momento in cui viene posta loro una domanda difficile, spesso finiscano per rispondere riferendosi nella loro mente a una domanda più facile, senza neanche accorgersene (il fenomeno si chiama attribute substitution). Per esempio, alla valutazione dell’operato di Mario Draghi alla Bce si può sostituire inconsapevolmente la valutazione del suo aspetto fisico o del timbro della sua voce.

La cosa più sconvolgente, nel caso della Brexit, è che queste semplificazioni sono ormai diventate la normalità incontrastata, con i media che – salvi rari casi – preferiscono la drammatizzazione all’informazione e con il Paese piombato in un’interminabile lotta tra Montecchi e Capuleti, destinata a durare quale che sia l’esito della vicenda.

Una delle lezioni da trarre dalla Brexit è che gli slogan non si possono combattere solo con altri slogan: occorre confutare costantemente le soluzioni semplici proposte dalla parte avversa, affrontando la fatica di comunicare la complessità a un’opinione pubblica distratta. Questo si può fare con successo quando si hanno media veramente indipendenti, che traggono la propria autorevolezza proprio dal rifiuto della fuga nella semplificazione; ma occorre anche un’opinione pubblica in qualche modo interessata a fare le pulci ai politici sulle cose che contano, non sui pettegolezzi da bar o da spiaggia.

La vicenda della Brexit ha mostrato che questo interesse al dibattito serio è poco diffuso persino in un Paese che pensavamo altamente pragmatico e razionale, come la Gran Bretagna; e ha mostrato quali danni enormi possano derivarne. Ma la lezione vale a tutte le latitudini e longitudini. E tanto più vale in un Paese come l’Italia, dove da un paio d’anni si assiste al trionfo nei sondaggi e nelle consultazioni elettorali di un leader che può permettersi di predicare l’uscita dell’Italia dalla Ue d’inverno, primavera ed estate, per poi in autunno dichiarare all’improvviso che l’appartenenza dell’Italia alla Ue e al sistema dell’euro è irreversibile, senza che alcun giornalista gli chieda le implicazioni pratiche di questa inversione a U sul suo programma. Perché l’opinione pubblica si appassiona di più a discutere di come i leader se la cavano nei talk show televisivi, come si vestono, dove cenano e con chi vanno in vacanza.

Trarre tutti gli insegnamenti dalla lezione della Brexit significa prendere atto di questa grave disfunzione che colpisce non solo la democrazia più antica del mondo, ma tutte le democrazie occidentali. E impone, per prima cosa, di mettere profondamente in discussione gli spazi nei quali possono operare utilmente oggi la democrazia diretta, l’assemblearismo, il metodo referendario e la consultazione online. Se non si vuole che le grandi questioni dalle quali dipende il nostro futuro vengano trattate nello stesso modo in cui si fa un «re-tweet» o un «like» di una foto postata su Facebook.

Pietro Ichino e Pietro Micheli - Corriere della Sera – 21 novembre 2019

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L'alternanza scuola lavoro non funziona

  • Pubblicato in Cultura

La lobby delle multinazionali ha raccomandato di adattare la scuola alle esigenze degli imprenditori, che più di tutto esigono che si lavori tanto, senza diritti – né contezza di quali siano i diritti da esigere – e senza oneri per l’azienda, ossia gratis. Da qui l’alternanza scuola-lavoro. L'intervento di Francesca Fornario su il Fatto Quotidiano.

La Buona Scuola? Imposta dalle lobby delle multinazionali

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Riforme (?!), la prova di forza di Renzi

Matteo Renzi le sta studiando tutte. Sta distruggendo il partito democratico (il suo partito) e nessuno sembra capacitarsene. Ormai ha dato ampie prove di un atteggiamento molto disinvolto. Al limite dell’indecenza. Ha sostenuto innumerevoli volte che avrebbe dato nuova linfa alla politica attenta ai bisogni dei cittadini. Ha deciso la rottamazione della vecchia e incartapecorita dirigenza dei democratici. Fin qui niente di nuovo sotto il sole. Però, però … l’ha sostituita con i suoi baldi amici fiorentini che hanno mostrato abbondantemente tutti i loro limiti. A parte la Maria Elena Boschi, i suoi collaboratori a Palazzo Chigi appaiono quali controfigure del premier alquanto sbiadite. E se provano a sostenere qualche concetto che il ragazzotto di Rignano sull’Arno detesta, apriti cielo! Viene messo alla porta. Vengono accettati i transfughi, come nel caso degli ex di Scelta Civica (Stefania Giannini, Andrea Romano, Carlo Calenda, Pietro Ichino, Linda Lanzilllotta, Gianluca Susta,  Alessandro Maran, Ilaria Borletti Buitoni e Irene Tinagli.  Scelta Civica, il movimento inventato da Mario Monti per contrastare il fu Pdl di Berlusconi ed il Pd di Bersani nelle consultazioni elettorali del 2013, si è praticamente dissolta e nessuno ha avuto da ridire per questa trasmigrazione in massa nelle file del partito renziano. Il partito della nazione è ormai realtà. I tanti Scilipoti e Razzi hanno avuto (in)degni emuli. La stampa, in generale, salvo rare eccezioni, non ha avvertito alcun sussulto. Nessun mal di pancia. Il PdN, un partito senza identità. Non è di destra, non è di centro, non è di sinistra ma, nello stesso tempo, è di destra, di centro, un po’ meno (molto meno) di sinistra. Come la vecchia, gloriosa, democrazia cristiana. Solo che a guidare la Dc erano personalità di spessore come Amintore Fanfani, Aldo Moro, Giulio Andreotti. I quali sapevano scegliere i propri collaboratori. Mai e poi mai si sarebbero sognati di imbarcare nell’esecutivo personaggi mediocri come Marianna Madia (che, giova ricordare che quando Walter Veltroni la mise capolista alle elezioni politiche disse di sé stessa “di portare in dote alla Camera la propria ignoranza” (!). E infatti la Dc ha fatto uscire l’Italia dalle macerie del secondo dopoguerra ed  ha governato il Paese per oltre 40 anni. Renzi non riuscirà nell’impresa di stravolgere la Costituzione. Lo avrebbe potuto fare se avesse optato per una Assemblea Costituente eletta con suffragio proporzionale, così come è stato fatto nel dopoguerra. Ma allora c’erano personalità come Alcide De Gasperi, Pietro Nenni, Palmiro Togliatti, Umberto Terracini. Non burattini come i la maggior parte dei componenti della Camera e del Senato odierni. Che votano, non discutono, obbediscono bovinamente agli ordini di scuderia. In buona parte poi sono dei voltagabbana. Degli Scilipoti, dei Razzi, insomma. E questo parlamento può fare le riforme costituzionali? Se l’Italia è un Paese serio, boccerà il progetto renziano. E tutto tornerà al punto di partenza. Il referendum non l’ha concesso Renzi. E’ previsto dall’art 133 della Costituzione. Giova ricordarlo. Il Paese che il premier configura nella sua mente è un’Italia che non esiste. Avesse optato per il modello tedesco, forse avrebbe avuto migliori chances. Oppure quello francese. Invece non assomiglia né all’uno né all’altro. Vedremo nel prossimo autunno. Le riforme sono tutte molto pasticciate e dettate da Confindustria.

Marco Ilapi, 3 gennaio 2016

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