Willem De Kooning e l’Italia

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La pennellata di Willem de Kooning, soprattutto nelle opere della piena maturità, possiede la qualità dell’eloquenza. L’artista statunitense di origini olandesi, di cui domani apre al pubblico alle Gallerie dell’Accademia di Venezia una  rassegna  che ha come tema principale  il suo legame con il paese italiano e la sua arte, è stato uno dei massimi esponenti dell’espressionismo astratto assieme a Jackson Pollock. De Kooning era affascinato dalla pittura veneziana del passato e secondo lui nessuno poteva dipingere meglio.

Quando guardiamo alle sue opere degli anni ’80 la fluidità e l’energia della sua action painting  materializza forme che si compongono nello spazio con naturalezza, quasi che uno spirito nel suo aleggiare recasse ordine e armonia. Quando per la prima volta nel 1959, egli giunge in Italia, era in un momento felice della sua carriera. Una personale nella Sidney Janis Gallery, da poco conclusa, aveva avuto il consenso della critica e le opere erano state vendute tutte in un solo giorno. Willem de Kooning aveva abbandonato nel 1926, a ventidue anni, Rotterdam, la sua città natale, imbarcandosi clandestinamente per gli Stati Uniti.

Nella  mostra vediamo anche le opere che egli dipinge negli anni Cinquanta, prima del suo arrivo in Italia  e che fanno parte della serie denominata Abstract Parkway Landscapes. Sono immagini - emozioni come egli le spiegava, sensazioni legate ai paesaggi che poteva vedere mentre viaggiava in auto tra New York e la zona est di Long Island, dove in quegli anni aveva fatto costruire la sua casa e il suo studio. I dipinti di questo periodo caratterizzati da dinamismo e che colpiscono per i colori accesi testimoniano il suo successo di pubblico.

Alla fine degli Anni Cinquanta avviene il suo ritorno,  per  alcuni giorni, in Europa, a Venezia e a Roma. Un’esperienza per lui estremamente coinvolgente  che lo convinse  a  tornare dopo alcune settimane. A Roma si ferma per circa quattro mesi, fino all’inizio  del gennaio del 1960. Qui lavora nello studio prestatogli da Afro in via Margutta e studia l’arte italiana. Disegna su grandi fogli di carta fine Fabriano, dove applica  vernice smaltata nera e pietra pomice macinata. Sono momenti di sperimentazione: dipinge sul pavimento,  strappa e fa collage con la carta.

 Tornato a New York de Kooning crea allora grandi dipinti astratti nei quali si rivela una nuova luminosità e una struttura più aperta. Tre grandi capolavori del 1960 Door to the River, A Tree in Naples e Villa Borghese, provenienti da importanti collezioni pubbliche saranno esposti insieme per la prima volta in questa rassegna.

Dieci anni dopo, nel 1969, Kooning ritornerà in Italia, come ospite del Festival dei Due Mondi di Spoleto, ma  molto del suo tempo lo trascorrerà a Roma, dove già nella precedente permanenza aveva stretto buoni legami con la comunità artistica locale. Nel ‘69 nella capitale romana plasma  le sue prime sculture in bronzo usando  la creta per realizzare   tredici piccole figure. Successivamente, nei primi anni ’70,  a New York egli  scolpirà bronzi  di maggiori dimensioni facendo tesoro della precedente esperienza in Italia.

Dopo tre anni in cui si dedica quasi interamente a questa arte torna anche alla pittura. L’influenza dell’ambiente acquatico dell’East End è presente nelle creazioni di quel tempo  ed egli  a questo proposito nel 1975 raccontava: L’acqua è radicata nel mio spirito. Due di queste opere sono presenti nella rassegna di Venezia, quasi a testimoniare il rapporto speciale che molti pittori hanno avuto con questa città. Nelle sculture de Kooning guarda anche a  Michelangelo. Egli dirà dopo aver visto Il Giorno dello scultore toscano del Rinascimento: tutto ritorna al centro, la figura galleggia a partire dal centro.” Il suo interesse per i corpi fluttuanti o sospesi nello spazio si comprende osservando le sculture  Cross Legged Figure e Floating Figure.

Egli commentava: il corpo diventa vettore di tensione dinamica … la figura non è nulla se non la si torce come uno strano miracolo … L’artista saprà sempre inventare, sperimentare, guardando tuttavia alla storia dell’arte che l’aveva preceduto.

«Restare dentro la storia dell’arte cercando una via d’uscita è la dannazione concettuale e il premio più ambito per l’artista moderno. Willem de Kooning, uno dei più grandi protagonisti dell’arte americana del secolo scorso, incarna perfettamente questa aspirazione». Le parole sono di Mario Codognato, uno dei curatori, assieme a Gary Garrels della mostra, e direttore dell’Anish Kapoor Foundatione della Berggruen Arts and Culture di Venezia. 

La mostra rappresenta il primo progetto espositivo che analizza l’influenza dei soggiorni italiani di de Kooning sulle sue successive opere. Riunendo circa 75 lavori appartenenti al periodo che va dalla fine degli anni Cinquanta fino agli anni Ottanta, essa si presenta come la più grande rassegna su  de Kooning mai realizzata in Italia. Il catalogo viene edito da Marsilio Arte.

 Patrizia Lazzarin, 15 aprile 2024

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Uno sguardo sull’arte contemporanea giapponese

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Un braccio nudo si allunga verso una fonte di luce che rischiara parte di un volto di donna. Il suo lento movimento concentra l'attenzione su uno svolazzare di piume che riempiono la parete alle sue spalle. Sono forme di carta, bianca e gialla, increspate che suggeriscono il racchiudere, nel loro moto ondoso, del sentimento e del desiderio di navigare dell'uomo e del suo librarsi nell'aria, senza la consapevolezza del tempo. L'opera appena descritta appartiene all'artista giapponese Ami Yamasaki, una vocalista che combina i suoni della sua voce con i movimenti del corpo e costruisce installazioni dove entrano in campo tecnologia, scienza e cinematografia.

Da oggi al PAC di Milano la rassegna JAPAN.BODY PERFOM LIVE ci porta in un viaggio dentro l'universo dell'arte giapponese contemporanea, grazie alle creazioni di nove donne, sette uomini e un collettivo. Gli artisti sono nati fra il 1924 e il 1987 e per alcuni di essi è la prima volta che espongono a Milano. Altri invece hanno fatto parte dell'Associazione Gutai che, come molti sanno, ha avuto un ruolo storico. Il leit motiv dell'esposizione è la riflessione sulla politica e in generale sulla società giapponese, ma anche sul senso dell'identità, come viene percepita dagli artisti nel paese del Sol Levante. Si consolida con la mostra la missione del PAC che intende allargare la nostra comprensione e concezione del mondo, scartando pregiudizi che ne ridurrebbero la percezione.

La rassegna si articola in capitoli. In Prospettive storiche, osserviamo le opere di Atsuko Tanaka, una delle artiste di punta del dopoguerra, e di Kazuo Shiraga, entrambe figure centrali dell'Associazione d'arte Gutai, un gruppo d'avanguardia nato nel Kansai. Avremmo forse già avuto occasione di vedere, e non solo nei manuali, Electric Dress di Atsuko Tanaka: un abito costruito con cento luci al neon e novanta lampadine verniciate in nove differenti tipi di colori che una volta indossato concentrava l'attenzione dello spettatore sul corpo dell'artista. Shiraga invece seppe sperimentare una nuova modalità pittorica chiamata in inglese foot-painting. Legatosi a una fune utilizzava i piedi per tracciare disegni, scivolando e trascinando il colore su grandi tele distese sul pavimento. Ogni schema intellettuale nella creazione veniva così abolito e nel confronto con l'action painting di Jackson Pollock si completava la liberazione del gesto del pittore da ogni condizionamento o cultura acquisita rimasta a dirigere il suo braccio. In Prospettive storiche sarà proiettato anche un video della nota musicista e cantautrice Yoko Ono, autrice di varie performance a partire dagli anni Sessanta. In Vita e morte: cicli e dinamica dell'anima, accanto all'opera di Saburo Muraoka, contemporaneo del gruppo Gutai, scopriamo Chiharu Shiota che ne ha ereditato la sua ricerca esistenziale. Il suo nome è diventato famoso in Italia per l'installazione The Key in the Hand al Padiglione Giappone della Biennale d'Arte di Venezia del 2015, in cui aveva realizzato un'intricata rete di fili rossi di lana da cui centinaia di chiavi pendevano sopra il relitto di una piccola barca. Essa era una denuncia dei tanti sogni spezzati di chi attraversava ogni giorno il mare, in cerca di una vita migliore. In questa occasione presenta Empty Body, una creazione imbevuta di sensibilità femminile. Sempre in questo ambito, il prossimo gennaio, è in programma una performance di Fuyuki Yamakawa che si avvale del suo battito cardiaco e del canto khoomei per esprimere l'esuberanza della vita.

Generare ecosistemi e relazioni accoglierà le installazioni site-specific di Kishio Suga, uno degli artisti "Mono-ha" (Scuola delle cose), vicino al concetto di Arte Povera, e di Yuko Mohri, autore di fama internazionale degli anni 2000 che gioca con la fisica, costruendo equilibri sottili che si originano ricavando idee dal magnetismo e dalla gravità e avvalendosi dell'aria e della luce. Le opere di entrambi dialogano con l'ambiente e lo spazio e sono poste a confronto nonostante i differenti contesti storici in cui sono maturate.

La politica dell'identità e il corpo che resiste racconta di Lieko Shiga che studia attraverso la fotografia il rapporto fra uomo e natura e fra la vita e la morte. La sua esperienza si condensa in arte. Kitahama, sulla costa nordorientale del Tohoku, dove lei aveva il suo studio, nel 2011 vanni da quell'evento catastrofico e, attraverso scatti fotografici impressionisti, mostra le ferite ancora vive sugli abitanti riflettendo su come gli eventi naturali influenzino la salute fisica e mentale delle persone. Chikako Yamashiro, invece è un'artista multimediale. Nelle sue creazioni si respira la bellezza di Okinawa, la sua terra natale, nota per le sue acque cristalline e anche per i tifoni stagionali. Un territorio che presenta accentuati contrasti e dove accanto ad una forte presenza militare americana, spiccano i tanti monumenti dedicati ai caduti dell'ultima guerra, mentre sembra regnare su tutto una Natura lussureggiante. In questa sezione troviamo anche Dumb Type, un collettivo di artisti multimediali che hanno lavorato, a partire dagli anni Ottanta, sia nelle arti performative sia in quelle visive, per testimoniare le tensioni tra arte e società.

Nell'ultima sezione: Corpi coreografati e rappresentati, politica e genere si parla della situazione sociale e politica del Giappone contemporaneo. La narrazione si svolge attraverso video che possiedono un'ottima efficacia teatrale. Makoto Aida, Kota Takeuchi, Mari Katayama, Meiro Koizumi e Yui Usui sono le voci che si fanno interpreti dei drammi della guerra, del sacrificio individuale, del lutto, dell'uso della tecnologia in modo distruttivo, della disuguaglianza di genere e dei pregiudizi sulla diversità. L'esposizione che ha la curatela di Shihoko Iida e Diego Sileo e che rimarrà aperta al pubblico fino al 12 febbraio 2023, è stata promossa dal Comune di Milano – Cultura e prodotta dal PAC, insieme a Silvana Editoriale.

Patrizia Lazzarin,22 novembre 2022

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Gorky a Venezia a Ca' Pesaro

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Quella di Arshile Gorky è certamente una figura cardine dell'arte americana del XX secolo.  A Ca' Pesaro si confrontano arte americana ed arte europea, in una vivace dialettica, nella città di Venezia: storie diverse che s’intrecciano  a cominciare dall’esposizione dell’Armory Show, la prima grande rassegna d’arte che si realizzò nel 1913 a New York e  che  fece conoscere al grande pubblico statunitense  l’arte contemporanea  del continente europeo. ARSHILE GORKY  nato in Armenia nel 1904, ma giunto negli Stati Uniti  a sedici anni, figura  di rilievo dell’Espressionismo Astratto americano accanto al noto  Jackson Pollock, è il protagonista della rassegna che si è aperta a Ca’ Pesaro e che sarà visitabile  fino al 22 settembre. La conoscenza e l’assimilazione di stilemi, contenuti e forme dell’arte europea antica e moderna si condensano nella vicenda umana e artistica del pittore americano. I primi ritratti ed autoritratti respirano la lezione della pittura antica  dei famosi dipinti del Fayyum, nei colori che virano dai gialli ocra ai rossi e ai marroni,  ma elaborano nelle forme gli spunti che nascono dall’osservazione alle opere cubiste  di Pablo Picasso. Sono colori caldi che ritorneranno anche in alcune  sue nature morte o nei dipinti astratti e che ci trasportano come su un tappeto armeno nella   terra dove era nato e  da dove era dovuto fuggire a causa delle persecuzioni che avevano causato la morte dell’amata madre, per fame e stenti. La mostra che si può ammirare nelle sale di Ca’ Pesaro analizza  una delle figure cardine della pittura americana del XX secolo  e ha la direzione artistica di Edith Devaney, curatrice alla Royal Academy of Art di Londra e di Gabriella Belli, storica dell’arte e direttrice della Fondazione Musei Civici di Venezia. L’esposizione ha un doppio significato poichè è la prima retrospettiva  antologica dedicata in Italia a questo artista che segue quella tenutasi nel 2009 nel Museo di Philadelphia e come quest’ultima vuole rilevare o meglio riconoscere in tutto il percorso dell’artista americano la sua vena creativa che alcuni, a torto, avevano giudicato presente solo nell’ultimo decennio della sua carriera. Nelle opere di Arshile Gorky  è facile individuare degli archi temporali dove influenze di altri pittori  ed elaborazioni personali dell’artista producono esiti assai differenti. Il periodo iniziale prende avvio  dalle opere della metà degli anni Venti  e prosegue fino alla fine degli anni Trenta. Il secondo momento interessa gli anni Quaranta fino alla sua morte, avvenuta nel 48’.  Vosdanig Adoian, questo è il  nome di battesimo del pittore che cambierà in  Arshile Gorky, dedicherà tutta la sua vita all’arte, studiando questa materia a scuola e da autodidatta, insegnando, dipingendo nel suo atelier e visitando musei e gallerie. La sua diversità e la sua alterità che gli derivavano dalla sua condizione di esiliato e che a differenza di molti artisti europei che con il secondo conflitto mondiale erano emigrati negli Stati Uniti,  ma poi erano   tornati in Europa, sarà anche il magma interiore che egli poi scioglierà nella sua arte. La lezione  sui quadri di Cezanne, di Ingres e di Mirò lo avvicinerà a un medium in grado di trasportare sulla tela la sua visione del mondo. Accostando alcune nature morte   di Gorky e di  Cezanne, come quella in cui, ad esempio,  compare il Teschio si notano le differenti pennellate: più scure, più dense quelle del primo  che mutano anche il senso di costruzione e la  profondità dello spazio. Il pittore americano molto discusso anche dai contemporanei  era apprezzato  dall’artista e studioso John Graham, il mentore dei pittori dell’Espressionismo Astratto americano che nel suo libro System and Dialectic of Art, trattando il tema dell’Avanguardia, si chiedeva cos’è un’opera d’arte. Concludeva che essa è l’immediata, disadorna testimonianza di una Reazione intelletto- emotiva dell’artista … La pittura di Gorky si modifica dopo l’incontro con i pittori surrealisti e inizia un percorso di astrazione visibile anche nei disegni come Nightime ed Enigma e nostalgia. I disegni numerosissimi sono fondamentali per comprendere il suo interrogarsi sui soggetti  che diventano biomorfici rendendo leggibili pulsioni ed emozioni. Forme di vita fluttuanti che disegnano un universo di significati nuovi. Un mondo che è mutato nel grande sconvolgimento  seguito agli avvenimenti storici di quel periodo  come fu la seconda guerra mondiale. Le ultime opere sono infatti un vocabolario di forme fantastiche: The Liver is the Cock’s Comb (1944), One Year the Milkweed (1944) e Dark Green Painting (1948 circa). Quando si svolgerà la Biennale del 1948, Arshile Gorky si era da poco suicidato. Si delineava   allora in maniera più chiara quella disputa fra artisti  astratti  e  realisti che era iniziata a metà degli anni Trenta e di cui il segretario generale della manifestazione di allora,  Rodolfo Pallucchini, nella presentazione al catalogo della mostra, si interrogava sugli esiti possibili e futuri. La XXV  Biennale veneziana del 1950 consacrerà l’astrattismo americano  di Jackson Pollock, Willem de Kooning e Arshile Gorky, in grado di rappresentare con più rispondenza e precisione i nuovi tempi in confronto alle vecchie correnti come il surrealismo. La prima emozione che si riceve da una tela di Gorky”, sosteneva Scialoja, “è quella di un colore tutto offerto, tutto affiorato. Potremmo dire che  la sua pittura è la musica di un’anima che osserva la natura e la sua bellezza, ma ne vede anche l’implicita tragicità. Questa retrospettiva realizzata in stretta collaborazione con The Arshile Gorky Foundation e i membri della famiglia più stretti include opere che raramente sono state esposte e illumina zone buie della nostra storia dell’arte andando ad esplorare le relazioni artistiche  fra l’Europa e l’America.

Patrizia Lazzarin, 8 maggio 2019

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