Sabine Weiss: la poesia dell’istante

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“Si intuisce un velo  di malinconia, nelle sue immagini, anche quando le persone sorridono”. Le parole appartengono ad una giovane ragazza intenta ad ammirare le fotografie di Sabine Weiss esposte nella rassegna in corso alla Casa dei Tre Oci a Venezia. Una breve frase che ho voluto riprendere e che concentra la sensibilità discreta, ma allo stesso modo attenta di quest’artista che, nata il 23 luglio del 1924 a Saint-Gingolph in Svizzera, avrebbe compiuto fra poco cento anni. Sabine ha iniziato ad utilizzare la pellicola fotografica quando aveva solo undici anni e a diciotto anni era già apprendista fotografa a Ginevra presso la famosa Maison di Paul Boissonnas. Il bianco e il nero delle foto del dopoguerra disegnano, come la china su carta, la fisionomia di un’epoca storica con le sue ombre e le sue luci. Potremmo definirlo un teatro dell’anima, dove gli attori o meglio i protagonisti sono così reali da poterne cogliere i sentimenti e leggerne le intenzioni. Venditrici di patatine fritte, poveri gitani, gruppi di bambini che mostrano i loro sorrisi e  vecchietti con i loro cani che vanno a seppellire rappresentano un universo umano palpabile, tanto vicino, anche se lontano nel tempo. In quei volti, siano essi di francesi, spagnoli o  italiani, i tratti così ben definiti sembrano contenere la forza tenace di popoli che hanno sofferto i mali di una guerra non voluta, ma sanno ancora immaginare, tra le verdi foglie dei rami che popolano i loro quartieri, l’azzurro di un cielo che illumina il futuro. Le strade ed i vestiti, i luoghi e la loro vita recano  tutta la durezza di quel momento di ripartenza fra le macerie appena scomparse.  L’entusiasmo per la sua professione è quello che Sabine Weiss è riuscita anche a riversare in quest’ultima mostra che stava progettando e preparando quando la sua vita si è conclusa. Nel 1946, solo  dopo un anno che aveva ottenuto il certificato di idoneità professionale, in seguito ad una delusione d’amore, ma soprattutto per il desiderio di conoscere il mondo, si trasferisce a Parigi dove si propone come assistente del fotografo Willy Maywald, amico degli artisti che la introduce nei circoli mondani parigini. Tre anni dopo incontrerà il grande amore: il pittore americano Hugh Weiss con il quale vivrà  in una casa studio per tutta la vita. Il loro primo viaggio li porterà alle Isole Borromee, a Stresa, a Milano, a Verona, a Padova e infine a Venezia. La sua poetica si definisce in modo chiaro  leggendo questo suo pensiero: “È nei piccoli fatti della vita quotidiana e anche nei riti, nelle fiere, nelle riunioni politiche, nelle guerre, nell’amore e nella morte che un fotografo può testimoniare quanto esiste di più profondo nell’uomo; là dove è da solo di fronte all’incomprensibile, all’ineffabile.” Nel 1952 entra a far parte dell’Agenzia Rapho, segnalata dal famoso Robert Doisneau che appoggia anche la sua candidatura alla rivista “Vogue”, con la quale collaborerà per una decina d’anni. Dal 1953 le sue immagini vengono pubblicate sui maggiori giornali internazionali. Sabine ed il marito vivono circondati da figure emblematiche del mondo culturale loro contemporaneo. In mostra possiamo ammirare, fra gli altri, i ritratti  degli artisti Alberto Giacometti,  Kees van Dongen, Niki de Saint-Phalle, della scrittrice Françoise Sagan, delle attrici Simone Signoret, Romy Schneider e Brigitte Bardot.  Con i  fotografi come Doisneau, Willy Ronis e Edouard Boubat, Sabine Weiss è stata un’esponente della scuola umanista francese che sceglie l’uomo di strada come uno dei suoi soggetti preferiti. Fin dall’inizio della sua carriera è stata affascinata dalle ambientazioni notturne, ma in particolare dagli spettacoli della strada e dalle persone fragili. Il suo sguardo si è appoggiato in particolare sui bambini, sul loro corpo, i loro gesti e sguardi e ha voluto  farci sentire l’emozione che lei ha provato nel ritrarli. Già negli anni Cinquanta fa numerosi viaggi in Europa, Marocco, Medio Oriente e Stati Uniti. Nel 1958 viene realizzata la sua prima retrospettiva al Centro Culturale Noroit di Arras in Francia. Tra la fine degli anni 70’ e i primi anni 80’ i suoi viaggi continuarono in Giappone, Portogallo, Grecia, Turchia,  Ungheria e ricevette la borsa di studio sui copti d’Egitto del Ministero della Cultura. Donna estremamente dinamica e curiosa continuerà ad attraversare città e  paesi da Nord a Sud e da Ovest ad Est nel nostro emisfero, fino a dopo gli ottanta anni raccogliendo e restituendoci il suo sguardo sul mondo.  Patrizia Lazzarin, 18 agosto 2022

   
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Andy Warhol. Icons!

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Rivivono i miti e le icone degli anni ‘60 - ‘80, espressione di un sentire collettivo e fotografia di un’epoca in progress, nella mostra che è visitabile da oggi 10 novembre, al Palp Palazzo Pretorio  di Pontedera, fino al venti marzo del 2022. ANDY WARHOL. ICONS! Risuona il titolo già nei nostri orecchi come un richiamo ad un periodo storico effervescente e nella volontà rivoluzionario. Andy Warhol, l’artista statunitense originario di Pittsburgh, fece entrare nelle case degli americani e non solo, le immagini degli idoli della cinematografia, della musica e dell’arte, adoperando come strumento la  tecnica della  serigrafia. Marilyn Monroe, Elvis Presley, Michael Jackson, Brigitte Bardot, Marlon Brando, Liza Minnelli ed in particolare Elisabeth Taylor  sono riprodotti sulle tele più volte, mutando i colori che possono quindi conferire ai volti, diversi toni di  drammaticità, accentuando come nel caso di Liz, come viene spesso chiamata con il nomignolo la grande attrice, i tratti peculiari: i bellissimi occhi e la bocca espressiva che la distinguevano. Warhol, pittore, scultore, grafico, regista, produttore cinematografico ed anche attore si collega nelle sue creazioni artistiche  al mondo della sua infanzia e all’humus culturale in cui è vissuto. Bambino timido e riservato collezionava le foto dei grandi divi di Hollywood, come Cary Grant, Humphrey Bogart e Clark Gable quasi a possederne un po’ della loro genialità e fama, ma che anche amava. Nella prima sezione della mostra, Fame,  compaiono quindi, come eco di questo  mondo “ancestrale”, anche il ritratto della madre.  Immagini simbolo di un mondo dorato quali potevano  essere le principesse Diana Spencer e Grace Kelly o di uno spazio quasi esotico, come l’imperatrice consorte dell’Iran, Farah Pahlavi, accanto allo statista cinese Mao Zedong  e al rivoluzionario Che Guevara, diventano in seguito i soggetti delle sue opere che, nella loro riproduzione seriale, favoriscono anche l’appropriazione di miti comuni da parte del nostro universo abitato. Farsi ritrarre dall’artista americano diventò dimostrazione di aver raggiunto uno status sociale,  e quindi ricchi e potenti, ma anche persone più semplici cercheranno di realizzare questo sogno, come potremmo vedere nella seconda sezione della mostra Still Life. A questa democrazia del sentire e del sapere che si diffonde con facilità si accostano le  altre opere molto famose di Andy Warhol: le Campbell’s Soup o la Coca-Cola. Le prime tratte dagli scaffali del supermercato per la loro ispirazione e riprodotte in serigrafia in tutti i loro gusti, celebravano la società del tempo che aveva reso anche più facile e veloce la gestione del menage familiare. Le nuove nature morte sembrano quasi vibrare della vivacità della modernità, che accelera e dilata gli spazi e i tempi per riempirle di tante cose. Le immagini traghettano o meglio permettono il passaggio, come quel ponte che compare nello stemma del Comune di Pontedera, unico nel Medioevo, sul fiume Era che lo attraversava, dell’arte dal supermercato, luogo di comune frequentazione, ai grandi mercati delle quotazioni dei beni di valore, a cui approdano nel giro di pochi anni le creazioni di Warhol. Esse rilevano anche nuovi soggetti e temi che acquisiscono lo status onorifico dell’arte: le icone, ad esempio,  consacrate dei gusti culinari della contemporaneità. Nel 1983 Andy Warhol modifica i suoi interessi per abbracciare anche tematiche ambientaliste. Già in precedenza aveva realizzato, fra il 1966 e il 1976,  molti dipinti della serie “Cow”,  le famose mucche  e la serie Flowers,  ma si avvicina negli anni Ottanta anche alla questione ambientale ritraendo dieci animali in via di estinzione. Sono sue le parole: ”Quale migliore modo di fare arte se non quella di preservare la Terra?”  In mostra accanto alle Cows e ai Fiori compare  in modo esemplare l’opera Vesuvio.   Per l’artista simbolo della Pop Art, il Vesuvio o ancora più Napoli, gli ricorderanno,  per la grande effervescenza e la vivacità culturale,  la sua New York. La serie delle sedie elettriche e quelle delle proteste di strada si collegano per l’impegno etico e sociale alle tematiche della difesa dell’ambiente ed entrambe troviamo rappresentate nella quarta sezione della mostra che si intitola World’s Life. L’ultima sezione è dedicata alla musica e testimonia le tante collaborazioni che egli ebbe con musicisti, attraverso i loro ritratti, ma anche  grazie ad oggetti diversi come le copertine dei dischi o i cimeli. La rassegna, che ci permette di ammirare centoquaranta delle sue opere, è stata promossa dal Comune e dalla Fondazione Culturale di Pontedera ed ha  il patrocinio della Regione Toscana.  Essa prodotta ed organizzata da Piuma e che ha  come sponsor Knauf  e partner Ecofor,  ha la curatela degli storici  Nicolas Ballario ed Edoardo Falcioni.

Patrizia Lazzarin, 10 novembre 2021

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