L’Angelo degli Artisti

  • Pubblicato in Cultura

L’arte del Novecento e il ristorante All’Angelo a Venezia. Un pezzo  di storia veneziana sommersa in parte, dallo scorrere del  tempo, è riemersa a dicembre sul palcoscenico della vita  e diventa piacevole  rivivere  l’atmosfera di un luogo quasi magico, dove e quando  la buona cucina si mescolava alle discussioni sull’arte, con gli effetti di  un’alchimia preziosa. Erano  uno spazio e un tempo in cui  gli artisti pranzavano e cenavano in osteria permutando la consumazione con  un disegno, tracciato, a volte, in pochi minuti. Siamo negli anni che seguono la  seconda guerra mondiale e lo spazio è quel ristorante All’Angelo, poco distante da piazza San Marco a Venezia. Sembra di sentire nell’aria, ancora mescolata con la polvere degli spari, quella voglia di cambiamento e quel senso di fratellanza che animavano le persone. Si ritrovavano per far arte, discutere e credere nel potere di modificare il mondo, attraverso il mestiere dell’artista e,  provavano ad inventare una Storia felice perché si pensava fosse realmente possibile. La mostra che possiamo vedere nelle sale della Fondazione Querini Stampalia fino al 1 marzo 2020, è ispirata alla mission dell’Istituzione veneziana che vuole favorire il sapere e la conoscenza e rientra nel programma di celebrazioni per i 150 anni  dalla sua nascita. La rassegna intitolata L’Angelo degli Artisti. L’arte del Novecento e il ristorante All’Angelo a Venezia ha la curatela degli storici dell’arte Giandomenico Romanelli e Pascaline Vatin.  Essa si è realizzata soprattutto   grazie alla  volontà di Luciano Zerbinati di ritrovare e riacquistare  nel mercato, il patrimonio di quadri e disegni che riempivano le basse sale dell’osteria All’Angelo, che per differenti ragioni era andato disperso, e quindi di riunirlo,   in un percorso che raccontasse la vitalità di un’epoca, le sue passioni, quelle  dei suoi proprietari, i signori Carrain,  e degli artisti che ne erano i principali protagonisti. Lì al ristorante All’Angelo, che apre nel 1928 nell’omonima stretta calle, avvengono dei  fatti che definiscono la fisionomia di un tempo: il 29 settembre del 1946, in un clima di festa, si inaugurano i tre trittici a olio su tela di Emilio Vedova, Giuseppe Santomaso e Armando Pizzinato, commissionati con grande sensibilità da Renato Carrain, figlio di quell’Augusto e di  Antonietta che avevano aperto il locale nella seconda metà degli anni Venti. Essi narrano della nascita di  Venezia e delle sue feste, dei suoi costumi e di quello che la caratterizza.  Due giorni dopo a Palazzo Volpi, sempre a Venezia, venne sottoscritto il manifesto del Fronte Nuovo delle Arti che, in prima battuta, con un nome assai simbolico era stato chiamato Nuova Secessione artistica italiana.   Simboleggiava infatti, una nuova dichiarazione d’intenti dopo il movimento artistico di Novecento di Margherita Sarfatti,  ed univa gli artisti più rappresentativi del panorama italiano che chiedevano fiducia nel loro lavoro. Quel gruppo si scioglierà nel 1950, ma ne fecero parte: Pizzinato, Vedova, Santomaso, Renato Guttuso, Renato Birolli, Giulio Turcato, Antonio Corpora, Alberto Viani, Leoncillo Leonardi, Pietro Franchini, Ennio Morlotti e Pericle Fazzini, il meglio della nuova generazione nell’Italia della Liberazione e dell’impegno etico, politico, sociale e, naturalmente artistico,  ha scritto lo storico Romanelli nel catalogo edito da Lineadacqua. La cosa bella è che, attraverso il percorso dell’esposizione, fra i documenti e le opere appese alle pareti, comprendiamo come il mondo dell’arte che noi associamo ai musei, alle gallerie o alle collezioni private, possa crescere e svilupparsi in contesti molto diversi. Questa mostra e, le successive su questo argomento, si propongono di mostrare un tipo di collezionismo che ha avuto come artefici ristoratori ed osti che, grazie alla loro genialità e a quella dei critici d’arte che li affiancavano, come Giuseppe Marchiori con Renato Carrain, hanno favorito un clima culturale vivace. La Venezia del dopoguerra possiamo raccoglierla, interpretarla e restituirla oggi, nel suo colore che la rende magica, grazie anche a questi ambienti, dove il cibo e il vino, scelti con cura, rappresentavano un momento di convivialità, apprezzato  da artisti, letterati, sportivi e politici. Era un modo di stare insieme che caratterizzava quell’epoca. Nel 1946 è ospite spesso All’Angelo anche Peggy Guggenheim che, assieme a Vittorio, il secondo figlio di Augusto, girerà l’Italia in cerca d’artisti. Negli spazi di Villa Morosini, che ha collaborato al progetto della mostra, a Polesella, è stato ricreato il salottino rosso che veniva destinato a Peggy, in quel ristorante che Antonietta dal 1928 e per lunghi anni aveva diretto con grandi capacità manageriali. La mostra riunisce, dopo tanta fatica e molti sforzi, due dei tre trittici, quelli di Pizzinato e Vedova, e permette quindi di ricostruire uno dei luoghi  simbolo del fervido dibattito intellettuale sull’arte, in quella Venezia che aveva visto nel ’48 la riapertura della Biennale e il ritorno massiccio degli artisti che si ritrovavano a tavola, nei locali della città lagunare, dove nascevano sempre nuovi concorsi, come quello dell’isola di Burano. Il sei giugno del 1948, nelle sale trentanove e quaranta del Padiglione Centrale della Biennale, venne ospitata la Mostra del Fronte Nuovo delle Arti.  Tante foto documentano, ora, sulle pareti della Fondazione Querini Stampalia, i sorrisi, le strette di mano, gli sguardi rivelatori, le intese, le titubanze, i momenti di socialità e le figure o i nomi importanti del jet set nazionale ed internazionale di quel periodo storico. I tre trittici sono pietre miliari del percorso dell’arte contemporanea  e rivelano i percorsi di ricerca originali di tre artisti prima di dividersi. Accanto ad essi disegni e dipinti di Guttuso, di Mario Sironi, Ennio Morlotti, Mario Deluigi, Felice Casorati, Ida Barbarigo, Zoran Music, Filippo De Pisis e di  tanti altri pittori e scultori che sono passati All’Angelo, e che  testimoniano accanto al loro valore artistico, il gusto per l’arte della famiglia Carrain.

Patrizia Lazzarin, 20 dicembre 2019

Leggi tutto...

Il Belpaese va a fondo

(Tra tutti i Paese dell'Unione Europea, ndr) l’Italia resta il paese che cresce meno. L’anno dovrebbe chiudersi con un prodotto interno lordo che varia dello 0,1 per cento, mentre nel 2020 non dovrebbe superare il mezzo punto percentuale (la media dell’area dell’euro è rispettivamente 1,1 e 1,2 per cento). Una performance così asfittica non la registra neanche la Germania che pure sta entrando in recessione tecnica: già a partire dall’anno prossimo, l’economia tedesca è attesa in recupero, con una crescita dell’ordine dell’1 per cento. Il commento di Veronica De Romanis su Il Foglio.

Palazzo Chigi dimentica il problema numero 1 del Belpaese, l'economia

Leggi tutto...

Un Paese che non sa decidere

si dichiarano ansiosi di metterci la faccia, il decisore pubblico è in realtà paralizzato da molti anni. La paura delle Procure e della Corte dei conti spinge chiunque abbia il potere di agire a soprassedere, a temporeggiare, ad aspettare che firmi un altro, a chiedere un «parere» che lo metta al riparo, in modo che la sua responsabilità si diluisca in quelle di altri dieci, per evitare di doverne rispondere un domani.

Immaginatevi la scena a Venezia, i due commissari del Mose nella notte del disastro, chiamati a decidere se «testare» il sistema, mai prima collaudato, e vedere se funziona. L’ha raccontata Francesco Battistini sul Corriere e dice tutto del problema che abbiamo: nel dubbio, hanno preferito non rischiare. Poi magari non sarebbe servito a niente, magari avrebbe pure peggiorato le cose: nessuno sa se e come funzionerà il complesso di dighe mobili che dovrebbero proteggere Venezia dall’acqua alta. Ma di certo sappiamo che quella responsabilità i due commissari non se la sono presa. E, francamente, chi l’avrebbe fatto al posto loro?

La colpa della paralisi totale della pubblica amministrazione, che è molto ben visibile nello stallo delle opere pubbliche di ogni genere, non è infatti dei singoli funzionari. La colpa è del legislatore.

Nel corso degli anni il Parlamento ha costruito una trama inestricabile di norme, spesso demagogiche, sull’onda della pressione dell’opinione pubblica. Una montagna di leggi-manifesto che ha avuto un duplice effetto: accrescere quella discrezionalità dei dirigenti che puntava invece a limitare, consentendo loro di scegliere come in un cesto di frutta la norma che preferiscono, o di non sceglierla affatto e aspettare; e d’altra parte allargare il ventaglio di presunte irregolarità e omissioni su cui la giurisdizione penale e amministrativa può indagare. Il risultato è la fuga dalla responsabilità: chi avrebbe il potere di agire, evita. Il presidente dell’aran ha detto l’altro giorno in un convegno che le sole norme per la trasparenza e l’anticorruzione impegnano il 30% del lavoro della pubblica amministrazione. Ne deriva una burocrazia addestrata all’adempimento, non all’azione, la cui principale preoccupazione è appunto adempiere ai mille atti e procedure previste, il cui mancato rispetto potrebbe un giorno condannarla, se le cose vanno male. La burocrazia in Italia è fatta dalle leggi, non dagli uomini, è un pachiderma perché si porta sulla groppa un castello di norme. E i politici non la smettono. Ogni nuovo governo, ogni nuovo partito, presenta una nuova «riforma», per farsi bello con l’elettorato, abbastanza incurante dell’effetto concreto, che dipende da regolamenti attuativi destinati di solito a non vedere mai la luce.

A tutto questo si aggiunge la confusione dei poteri che il bricolage politico-parlamentare ha creato in questi anni. Il pubblico decisore opera in un Paese per metà federalista e per metà centralista. Il pendolo oscilla di qua e di là col mutare delle ere politiche, in un continuo scambio di ruoli. Su ogni singola decisione incidono così una miriade di enti, comuni, province, regioni, provveditorati, prefetture, sovrintendenze. Per mostrare i muscoli hanno abrogato le province, solo che hanno dimenticato di abrogarne le funzioni. Così ci sono lo stesso, ma senza più fondi e senza più amministratori che ne rispondano agli elettori. Nell’anniversario della caduta del Muro di Berlino sono stato invitato in un liceo romano a parlarne ai ragazzi, splendida iniziativa. Nell’aula magna però pioveva: per l’occasione al posto del secchio avevano messo una pianta a raccogliere

l’acqua. Riparare toccherebbe alla provincia, ma da quando non ci sono più gli assessori la preside può chiamare solo un funzionario, che naturalmente aspetta di essere autorizzato alla spesa. La paralisi è tale che per evitare la matassa delle norme annodata dal legislatore si finisce con il dover concedere poteri speciali per eluderle. La disgraziata storia del Consorzio Venezia Nuova, nato proprio per fare il Mose, dimostra che il rimedio può essere molto peggiore del male.

L’impotenza dello Stato è certificata dalla flebile reazione alla drammatica emergenza di Venezia. Un super commissario al posto dei due commissari. La convocazione di un «Comitatone interministeriale per la salvaguardia di Venezia». E la previsione del premier Conte che il Mose si completerà «verosimilmente nel 2021». Questo è tutto. Più di così, onestamente, non si può annunciare. Viene il dubbio che lo Stato stesso abbia smesso di credere alla sua forza. Quando i socialisti andarono per la prima volta al governo, nel secolo scorso, pensavano di poter finalmente entrare nella «stanza dei bottoni». Poi Pietro Nenni ci entrò e scoprì che non c’erano i bottoni. Oggi, mezzo secolo dopo, non c’è neanche più la stanza. È questo il nostro problema: la scomparsa della decisione.

Antonio Polito – Corriere della Sera – 17 novembre 2019

Leggi tutto...
Sottoscrivi questo feed RSS

Newsletter

. . . .