Il malpasso

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Nell’estate del ’45 a Prea non si trovava più neanche una goccia di latte, perché, come avveniva da sempre, tutto il bestiame e buona parte degli abitanti erano saliti ai tèč, ai casolari di mezza montagna, dai quali sarebbero scesi per la raccolta delle castagne.

Per evitare che le capre dessero una mano nella raccolta del prezioso frutto, in autunno venivano mandate in cřavèřa, cioè venivano riunite in un solo gregge sotto la tutela di un capraio (cřavé). Il quale, per una quarantina di giorni, le teneva al pascolo oltre i 900 metri - limite dei castagni in Val Ellero -accontentandosi del fřüč - frutti derivati dal latte – per il compenso.

Dopo i Santi, le capre ritornavano ai proprietari. Allora potevano liberamente andare al pascolo nei castagneti e spigolare (spiuřò) le castagne dimenticate assieme ai poveri del paese, ai quali era concesso di raccogliere anche la legna abbandonata.

 Se mettere assieme le capre era un’operazione semplice - per loro era una festa –, non lo era altrettanto separarle alla fine del piacevole soggiorno autunnale di mezza montagna. All’intera compagnia caprina – ingravidata dai cornutissimi signori del gregge – dispiaceva dover ritornare al paese e finire imprigionata in un recinto (triàu), dove i proprietari andavano a separare (triò) i propri capi da quelli altrui. La separazione (triàğ), che avveniva fra alti belati d’addio e di arrivederci, segnava malinconicamente la fine della loro colonia autunnale.

Le capre saranno anche dei quadrupedi ignoranti – come “sgarbatamente” vengono qualificate - ma non sono prive di sensibilità, quella che a volte manca al sapere ideologizzato di certi maestri del pensiero, che hanno creduto o credono ancora di avere la ricetta per costruire un mondo nuovo, un mondo finalmente senza guerre e senza fame.

A Prea nell’estate del ’45 non c’era più la guerra, ma era rimasta la fame. E a noi quattro bambini mancava il latte. Di quello conservato, comprato alla bottega (butea), non si parlava ancora. A quei tempi il latte era solo quello caldo e schiumoso che proveniva direttamente dalla “fonte”, attivata dal malgaro a due mani, sempre se la mucca era nel periodo di produrlo o se la sua “latteria” non era stata prosciugata dagli “aventi diritto di prelazione”.

Quando d’estate a Prea nessuna fonte lattifera era disponibile e quella di Roccaforte dei nonni paterni era troppo lontana per il fabbisogno giornaliero di quattro bocche ancora da latte, la fonte più vicina era quella dei Piani di Norea - una località all’inizio dell’Alta Val Ellero - a due chilometri di distanza dal paese. Allora la mamma - vedova da pochi mesi – mandava mio fratello Giovanni, di sei anni, a prenderne un bidoncino (barachìn) dalla Ramagneta, una vecchietta che, dopo la morte del marito, si era disfatta del piccolo capitale bovino (cavià), ma aveva ancora tenuto una vaccarella, perché vecchiotta un po’ come lei, quindi di scarso valore economico, ma non affettivo. Il fatto che la tenesse sempre per la cavezza quando la pascolava, stava a dimostrare quale fosse il legame fra loro.

Una volta Giovanni ritardò un po’ troppo a far ritorno, pur passando per la scorciatoia della Cařò (Calata), un tratto alquanto dissestato dell’antica mulattiera. Allora la mamma gli andò incontro con noi tre bambini per mano (Penso che sia stata l’ultima volta che ci siamo presi per mano, perché poco dopo – morta anche la mamma – fummo dispersi ai quattro venti da una diaspora senza ritorno). A metà strada trovammo solo il barachìn rovesciato e senza coperchio, vicino ad una pietra sporgente, probabile causa dell’incidente. Ma di Giovanni nessuna traccia. Al richiamo disperato della mamma, rispose un pianto che saliva dal fondo scosceso del greppo (ribàs). Il povero Giovanni stava cercando – quasi al buio, in mezzo ai cespugli e agli sterpi – il coperchio a tappo che, cadendo a terra, non aveva retto alla spinta del latte ed era rotolato chissà dove.

Il barachìn d’alluminio – privo del suo “baschetto” con il pomello nel mezzo – non venne più usato, né Giovanni venne più mandato ai Piani a prendere il latte. Ora giace - un po’ ammaccato e ingrigito dal tempo – nella parte bassa e buia di un vecchio armadio (giüieřa) con le ante superiori a vetri opachi, che una volta avevano pudicamente celato tazzine con il bordo dorato, calici modesti e bicchierini da cichèt, non certo di cristallo: i soli “gioielli” che la povera gente possedeva, ma che non amava ostentare per rispetto di chi non possedeva neanche quelli.

Quando ora mi capita di aprire il vecchio armadio – ormai ridotto a contenitore di cianfrusaglie – mi soffermo a guardare per un momento il vecchio barachìn, che mi fa ricordare non solo il latte versato da mio fratello, ma anche quello versato da me proprio nello stesso punto della mulattiera e  nella stessa parte del giorno dell’anno precedente.

In un tardo pomeriggio del ’44 – probabilmente era estate – mio padre ed io tornavamo da far visita ai nonni di Roccaforte: lui con lo zaino pieno di materiale per calzature, io a cavalluccio con la funzione di “salvacondotto”, indispensabile per attraversare una zona dove la Resistenza era particolarmente attiva. Arrivati, sul far della notte, quasi al termine della mulattiera, con una mia improvvisa acrobazia – probabilmente causata da un inciampamento di mio padre – feci cadere la bottiglia del latte che nonna Caterina era riuscita ancora ad infilare in qualche parte esterna dello zaino. Il rumore della bottiglia, andata in frantumi, mise in allarme la sentinella del blocco che i partigiani avevano posto presso il pilone di Sant’Anna, dove la mulattiera sbocca nella strada carrozzabile. All’altolà chi va là, mio padre non rispose con la parola d’ordine che non conosceva, ma con il proprio nome, cognome e professione. Superammo il blocco senza difficoltà, perché quei partigiani erano soliti venire a casa nostra a farsi aggiustare gli scarponi e a sentire Radio Londra al nostro apparecchio, che era regolarmente disturbato dal solito “temporale” del Regime nero.

       Già quella volta, il mattino dopo, noi bambini eravamo rimasti senza latte a colazione, molto probabilmente per colpa di quella “pietra d’inciampo”, che per due volte aveva fatto sentire la sua presenza premonitrice. La prima volta pochi mesi prima della perdita del papà per mano dei nazifascisti; la seconda volta pochi mesi prima della perdita della mamma, vittima di due “cecchini” (tifo e paratifo), lasciati dalla guerra a completare la sua opera nefasta.

Il medico condotto, chiamato d’urgenza, non intervenne immediatamente, perché impegnato in una  partita di caccia - appena aperta -, quando la caccia ai fascisti non era ancora stata chiusa (molte volte la vendetta privata passava come assassinio politico rispettabile) e il Paese rischiava di passare dal regime nero a quello  rosso, quando il vento dell’est, a quel tempo, soffiava  forte.

Allora fu chiamato il parroco, che non andava a caccia e aveva in cura solo le anime dei suoi parrocchiani. Confessò e comunicò la mamma, prima di impartirle l’Unzione dei malati: era  tutto l’occorrente per l’ultimo viaggio, una volta  chiamato giustamente Viatico.

Il medico venne il giorno dopo, solo per diagnosticare – a tempo scaduto – la causa della morte, dovuta ai due killer che, dopo la guerra, stavano mietendo vittime un po’ ovunque.

Don Giovanni Milano aveva partecipato alla Prima guerra mondiale come tanti altri chierici che non avevano ancora ricevuto l’ordine del diaconato. Molti di essi persero la vita, non pochi anche la vocazione al sacerdozio. Don Giovanni perse l’indice della mano destra, il dito che aveva usato per premere il grilletto per uccidere, ma non perse la vocazione per la salute delle anime.

         Notai la sua menomazione quando – a cinque anni – mi diede l’ostia della Prima comunione, il giorno della festa patronale della S.S. Trinità del ’45. Di quel giorno conservo la fotografia che la mamma mi aveva scattato assieme a Giovanni – anche lui comunicato la prima volta a sei anni – con una “scatolina” della gloriosa e italica Ferrania sul sagrato della chiesa davanti al monumento dei Caduti, tra i quali il nonno materno, Giuseppe Somà, caduto sul Carso nel ‘17, ma salvato dall’onta di Caporetto.

Quella fu forse l’ultima foto che la mamma ci fece, prima di cadere anche lei vittima della guerra e del dopoguerra, ma non ricordata da nessuna lapide.

Tornando alle due coincidenze, non posso fare a meno di cogliere in ognuna di esse anche due generi di privazione. La privazione del latte necessario per la crescita fisica, poi la privazione dei genitori, indispensabili per la crescita psichica dei figli.

        In seguito, altre coincidenze – non meno straordinarie – mi hanno sempre più convinto che la storia, individuale e universale, sia scritta sulla trama ordita dal Gran Tessitore, che da sempre fa andare, con sapienza, la spola al buio della sua luce, invisibile agli occhi di chi vede ancora la luce del sole sorgere ogni giorno in un sereno o fosco mattino e morire la sera in un mare di fuoco o in una colata di piombo.

A volte mi viene da pensar che, durante la vita, certi percorsi obbligati, certi divieti di accesso, certe strane coincidenze, mancate o inaspettate, non siano dovute al caso, ma siano la rivelazione dell’Assoluto in incognito, come affermava Albert Einstein, teorico della relatività generale.

Nonna Margherita - che non s’intendeva di relatività generale, ma di relatività particolare, né si aspettava che d’estate il latte potesse piovere dal cielo, come la biblica manna del deserto – comprò Cornèt, una magnifica capra dalle corna di camoscio, corteggiata e contesa dai signori del gregge, quando in autunno, felice e contenta, andava anch’essa in cravèřa. Fu così che Cornèt  in pochi anni diventò la capostipite di un piccolo gregge (strup), che la nonna portava a pascolare solitamente al Malpasso (Mařpas), un luogo veramente da capre – con anfratti e fitta  boscaglia – dove durante la Resistenza andavano a nascondersi i giovani  del paese renitenti alla leva e alcuni soldati sbandati, per sfuggire ai rastrellamenti.

Mio padre pensava di non aver alcun motivo per andare ad “imboscarsi” anche lui al Malpasso o da qualche altra parte. Ma essendo stato segnalato come fiancheggiatore dei partigiani, solitamente veniva punito con una notte al palo, quando gli facevano “visita” quelli delle brigate nere. Alla visita fattagli nel dicembre del ’44 non si fece trovare in casa. Preferì rifugiarsi sulle montagne della Val Maudagna presso i suoi amici partigiani, piuttosto che passare una nottata all’addiaccio legato al frassino vicino a casa. Ma gli andò peggio quel 12 dicembre del ’44.

Un giorno che portavamo le capre al pascolo del Malpasso - appena superato il rio (riàn) omonimo della stretta e chiusa valletta, difficile da superare come dice il nome – la nonna mi indicò un piccolo spiazzo, dove durante la guerra (partigiana) erano state sommariamente sepolte alcune persone con le punte delle scarpe fuori dalla fossa.

Finita la guerra, le salme vennero riesumate, ma nessuna lapide fu posta per ricordare i loro nomi. In seguito, nessuna luce venne fatta sull’oscura vicenda. In paese non girò mai la benché minima diceria: silenzio e buio assoluti. Solo otto pietre – disposte ad arco, non per un gioco del caso – indicano ancora il luogo della provvisoria sepoltura e molto probabilmente anche il numero delle vittime, note soltanto al rio che lambisce il piccolo spiazzo e unico testimone oculare per un processo che non è stato e non sarà mai aperto. Ma le sue acque cristalline – che continuano a scorrere veloci fra pietre pulite e in cascatelle d’argento – mormorano ancora all’orecchio attento di qualche raro passante tutto il loro disappunto per ciò che hanno visto e udito. Ma quelle  grezze e mute “lapidi” bisognerebbe aggiungerne un’altra, quella della verità, rimasta sepolta per sempre in quel piccolo cimitero provvisorio, risalente alla seconda fase della guerra, quella civile, ecumenicamente chiamata Resistenza o di Liberazione (dal nazifascismo), ma anche di liberazione del peggio che si cela nella natura umana, come succede da sempre in tutte le guerre. Non di rado, infatti, la narrazione ufficiale della Resistenza ha tenuto nascoste oscure vicende sotto cumuli di menzogne “veritiere” e di silenzi omertosi: pagine strappate dal libro della sua storia corrente, perché incompatibili con la sua epopea. La quale, però, rischia di regredire a leggenda, se le verità più scomode vengono negate o sotterrate negli archivi segreti, a scapito della credibilità della parte migliore di essa.

Un paio di anni dopo la fine della guerra il rio del Malpasso fu ancora testimone di altri due episodi – legati fra loro da uno stretto rapporto di causa ed effetto – che mi hanno coinvolto e anche sconvolto profondamente.

Una volta che da solo conducevo al pascolo le capre (la nonna già si fidava di me che potevo avere dai sette agli otto anni), una di esse (una bima, capra di due anni) cominciò ad un certo punto a rallentare il passo, a staccarsi dalle altre, a barcollare e indietreggiare. Poi stramazzò a terra con un belato straziante, quasi umano, soffocato da un grosso rigurgito di sangue. Date alcune frenetiche scalciate (slinc) rimase immobile come un masso, mentre le altre, senza voltarsi indietro, anzi accelerando il passo, raggiungevano il pascolo del Malpasso, un toponimo che non potrebbe essere più appropriato, non solo dal punto di vista geografico, ma per me anche esistenziale.

La morte della bima, stramazzata davanti ai miei piedi, mi sconvolse a tal punto che lasciai le altre al loro destino. In preda all’angoscia, corsi a casa per dire alla nonna cos’era capitato alla giovane capra, ma non quello che era capitato a me. Per la prima volta avevo capito di non essere immortale, che anch’io un giorno avrei dovuto morire, che anche la vita delle persone ha un inizio e poi una fine.

Fino a pochi anni prima, infatti, la vista di un maiale sgozzato – appeso con le zampe posteriori fra lacerti grugniti e disperati divincolamenti – non mi aveva turbato più di tanto. Non avevo ancora mai visto la morte stampata sul viso marmoreo di un defunto. Anche la morte dei miei genitori aveva avuto su di me l’effetto che poteva avere una loro momentanea assenza: non versai neppure una lacrima. In seguito ne versai più di una, ma di quelle aride che lacerano l’anima e segnano la vita per sempre.

Ci voleva la morte improvvisa della giovane capra sulla mulattiera del Malpasso  per cacciarmi brutalmente dal paradiso terrestre della mia infanzia e precipitarmi, senza più le ali dell’innocenza, nell’aggrovigliato mondo terrestre, una  piccola zolla dell’ universo che ha reso sempre feroci gli uomini che se la sono contesa come iene fameliche.

       Con il passare degli anni presi a concepire la vita chiusa come in un cerchio, tracciato da Chi ha in mano il compasso della nostra esistenza. Presi a concepire la vita come una condanna capitale senza appello, come se vivere fosse un reato da pagare con la pena di morte, della cui esecuzione non si conosce né la data, né il modo. Perciò, il cosiddetto “male di vivere” è solo un supplemento di pena alla “fatal quiete”, anticipata a volte da qualcuno con il gesto insano di una “libera scelta”, ma strappata dalle mani del Padrone della vita, quando la speranza in un’altra – non più circolare ma rettilinea senza fine - viene a mancare. Quella speranza – fondata sulla teologia della sofferenza salvificante, sublimata e consacrata dal sacrificio della Croce - che un Uomo della “Galilea delle genti” è venuto a portare agli uomini, insegnando come superare “il male di vivere” e l’angoscia del difficile passo della morte. Speranza che, per grazia divina, diventa fede in una vita che continua “in un’altra dimensione”, come dice il cantautore Franco Battiato in alcune sue canzoni a sfondo esistenziale-religioso, senza però precisare che la nuova esistenza sarà nella Luce o nelle Tenebre eterne e che sta all’uomo – durante il “transito terrestre” – prendere la strada giusta (non la più dritta e piana), quella che porta alla Luce “senza fine né principio”.

Giuseppe Priale, 8 settembre 2024

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Da un Carso all’altro

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Storia di un alpino di Prea alla Grande Guerra. Quando per la prima volta nonna Margherita di Prea  mi raccontò che nonno Giuseppe era morto sul Carso durante una guerra, io, che a cinque o sei anni  conoscevo appena un po’ di geografia locale, cominciai a guardare con una certa inquietudine quel monte, che dal versante sinistro incombe, con la sua orripilante parete, sull’ultimo tratto della nostra Alta Vall’Ellero. In seguito seppi che il Carso della guerra non era quello delle nostre Alpi Marittime, ma quello delle Alpi Giulie diametralmente opposte, costituito da un esteso altipiano calcareo, privo di alti picchi scoscesi, con scarsa vegetazione arborea e disseminato di doline, usate all’occorrenza dai nostri soldati come trincee naturali, ma trasformate sovente nelle loro tombe dalle artiglierie austro-ungariche durante la Prima Guerra Mondiale. Brevi sono i suoi corsi d’acqua in superficie, mentre numerosi sono quelli sotterranei, risorgenti poco prima di gettarsi nel mare, come il famoso Timavo, che però non fu testimone “oculare” di tanti e sanguinosissimi combattimenti, come invece fu l’Isonzo, spettatore di ben undici battaglie inconcludenti e di una dodicesima disastrosa, passata alla storia come La Rotta di Caporetto. Infatti, presso questo paesetto, la notte del 24 ottobre 1917, le armate austro-ungariche, supportate da quelle tedesche appena ritirate dal fronte russo, col favore della notte, di una fitta nebbia e con il massiccio impiego dell’iprite (un gas asfissiante e ustionante usato per la prima volta contro i nostri soldati sfiduciati e sorpresi nel sonno) ruppero il nostro fronte sull’Isonzo. Fu una ritirata disastrosa, una rotta, che coinvolse anche le popolazioni e che durò fino al 20 novembre, allorché la falla del nostro fronte fu tamponata miracolosamente al Piave e sul Monte Grappa. Il bilancio fu molto pesante. Andarono perse le conquiste territoriali fatte in 33 mesi di guerra. Andò perso parte del Veneto, già suolo italiano. Cadde in mano del nemico un’ingente quantità di materiale bellico e logistico. Furono messi fuori combattimento 400.000 soldati, molti dei quali, sbandati, si unirono alla gente in fuga. Per l’esercito italiano fu una catastrofe; per i disfattisti, un’onta inqualificabile, un tradimento da parte delle nostre truppe imbelli e per l’incapacità strategica degli alti comandi. In verità l’Italia, benché unita da oltre mezzo secolo, aveva dimostrato fino a quel momento di non essere ancora una compatta e vera nazione, perché ancor prima della grande prova si era rivelata disgregata sia sul fronte interno, sia  su quello esterno. Il divario fra élite idealistica e popolo minuto era evidente, dal momento che la polemica fra interventisti e non interventisti era ancora accesa.

Se il nome di Caporetto oggi è usato a volte come sinonimo di grave insuccesso; se quel drammatico evento è sentito ancor oggi dagli italiani come una vergogna da tener nascosta, sarebbe invece meglio che venisse considerato anche come un “olocausto”, ossia un sacrificio cruento che il popolo italiano dovette offrire sull’altare della Patria per formare e consolidare la propria identità e coscienza nazionali. L’umiliazione, inflitta al nostro esercito, servì infatti a ridestare  nei nostri soldati “l’italica virtù dei padri antichi”. Il Piave e il Grappa, uniti ad essi come in una ideale “Santa Alleanza” per fare “contro il nemico una barriera”, per 12 mesi furono testimoni dell’eroica resistenza opposta al nemico invasore dai nostri combattenti, provenienti da tutte le regioni italiane, uniti finalmente nel dolore, come fratelli che si ritrovano in occasione di un grave lutto  in famiglia. Il patto “Non passa lo straniero” (mormorato dal fiume il 24 maggio 1915 al passaggio dei primi fanti, che italiani forse non tutti si sentivano ancora) fu onorato  da essi con grande coraggio, allorché in quella grande sventura hanno sentito di essere fratelli, prima ancora di sentirsi italiani della stessa patria.

L’olocausto di Caporetto servì sicuramente a propiziare l’esito trionfale della battaglia di Vittorio Veneto, che, iniziata il 24 ottobre 1918 (esattamente un anno dopo la disfatta) si concluse il 3 novembre con la firma dell’armistizio a Villa Giusti presso Padova, la città del Santo dei miracoli. E grande miracolo fu per l’esercito italiano, che seppe costruire la sua vittoria finale sulle ceneri di una rotta disastrosa durata ben 27 giorni.

Caporetto: un nome infausto, che richiama però alla mente, per un’arcana assonanza, quello del coperchio (Kappuret in ebraico antico) della biblica Arca dell’Alleanza, sormontato dai simulacri di due celesti Cherubini, testimoni e garanti del Patto di Fedeltà ai Comandamenti (scritti su tavole di pietra e custoditi al suo interno) dati da Dio al popolo d’Israele liberato da Mosè dalla schiavitù d’Egitto.

C’è da augurarsi allora che il popolo italiano resti sempre fedele al quell’ideale Patto d’Unità Nazionale scritto col sangue sul Piave e sul Grappa, che potremmo considerare, a buon diritto, come i nostri “terreni Cherubini”, custodi e garanti della nostra italianità.

Fra i tanti nomi di località, che furono teatro di guerra, imparati dai libri di storia e dai canti degli alpini, uno solo però, conosciuto dalle antologie letterarie fin dai primi anni di scuola, è diventato per me luogo della memoria e del cuore: San Martino del Carso, reso famoso da una nota poesia di Giuseppe Ungaretti, scritta sul fronte dell’Isonzo nel 1916 e che recita così:

Di  queste case  non è rimasto che qualche brandello di muro

Di tanti che mi corrispondevano non è  rimasto neppure tanto

Ma nel cuore nessuna croce manca: è il mio cuore il Paese più straziato                                                   

Sciolto dai vincoli del tempo e dello spazio, San Martino del Carso diventa metafora di ciò che ogni guerra, giusta o ingiusta, voluta o subita, produce nell’uomo, sia che si chiami Giuseppe Ungaretti, partito volontario dal bel mondo di Parigi, sia che si chiami Giuseppe Somà, partito, forse più per scrupolo di coscienza che per patriottismo, da una sconosciuta località sperduta in una foresta del sud della Francia.

Nonna Margherita, vincendo quel pudore psicologico che a volte è più grande di quello del corpo, cominciò a parlarmi del nonno e di sé solo negli ultimi anni della sua vita, un po’ come fa un fiume carsico, quando ritorna alla luce gorgogliando a voce bassa, poco prima di morire nel mare. Mi raccontò che il nonno, ancora adolescente, nei primi anni del ‘900 era andato nel Var con la sua famiglia a fare legna e carbone, perché le risorse economiche delle nostre montagne erano molto scarse. Nel 1906 lei lo raggiunse per sposarlo, come avevano stabilito i rispettivi genitori secondo le usanze del tempo. Per fortuna si conoscevano già e forse vi era già stata fra loro qualche segreta palpitazione, risalente magari ai tempi in cui, da adolescenti, in allegre comitive andavano a pascolare gli armenti nei Cmün (pascoli comunali) o si spingevano fino alle falde del Carso a raccogliere frutti di montagna, piante aromatiche e officinali, per sollevare, seppur in minima parte, lle misere condizioni economiche delle loro famiglie, molte delle quali a cavallo del ‘900 emigrarono in Argentina o nel sud della Francia. Di esse non è rimasto altro che il ricordo dei loro cognomi (come Bertola, Piccardo, Isoardi, Richelmi) sui registri parrocchiali o nella denominazione di fondi o di misere costruzioni, molte delle quali ormai collassate, sparse sui pendii di media montagna, chiamate tèč in Occitano del Chié, con una felice sineddoche per indicare la parte più appariscente e caratteristica (dal lat.TECTUM=tetto, una copertura in origine di paglia, posta sopra ad una bassa struttura di pietre compattate con malta d’argilla, comprendente due piani: uno detto puntì, una sorta di “pontile”-soppalco adibito alla conservazione del fieno oppure adibito ad abitazione e uno seminterrato adibito a stalla oppure a cantina detta trüna, nome derivato  dall’agg. tardo lat. TERRUNA= terrena, riferito al nome sottinteso sela= cella, locale semibuio e umido usato per la conservazione di latticini e di altre derrate alimentari).

Dunque, nonna Margherita raggiunse il suo promesso sposo nel Var, non per i battuti e impervi sentieri delle Alpi, ma per la meno praticata e comoda via del mare. Il viaggio da Savona a Tolone fu per lei come un viaggio di nozze anticipato (senza il marito), un regalo che la nuova famiglia, diventata quasi benestante con il commercio di legna e carbone, le aveva voluto fare per debito di riconoscenza. Mi raccontò, poco prima di congedarsi da questo mondo e con gli occhi fissi in un punto lontano, che il viaggio fu come un bellissimo sogno fatto in pieno giorno ad occhi aperti, con il piroscafo che sembrava fermo, mentre arava l’immensa e calma prateria del mare, visto da lei per la prima volta. Tutt’altro che da sogno fu invece il viaggio di ritorno, fatto 11 anni dopo con il mare in burrasca, con 4 bambini che stavano male, con l’ansia per il marito in guerra e l’assillo di un brutto sogno, che con il suo simbolismo onirico si sarebbe rivelato purtroppo brutalmente profetico.

Allo scoppio della guerra il nonno con tutta la sua famiglia si trovava in una località sperduta di del Var. Pur non avendo ricevuto la cartolina-precetto, rimasta inevasa al Comune di Roccaforte per irreperibilità del destinatario, ma saputo, dopo un po’ di tempo, che la sua classe era stata chiamata alle armi, lasciò famiglia e lavoro per presentarsi al Distretto Militare di Cuneo, probabilmente non spinto da un alto ideale di patria, ma per non patire l’onta dell’imboscato, del disertore ogniqualvolta si fosse fatto vedere a Prea. Dopo un sommario addestramento fu mandato in prima linea al fronte del Carso, dove Giuseppe Ungaretti, dopo un anno di guerra, tra una battaglia e l’altra, scriveva, su pezzetti di carta di recupero e con i piedi nel fango, asciutte strofe composte di brevi ed esplosivi versi, folgoranti come shrapnels nella notte, per descrivere la drammatica realtà della guerra vissuta dal di dentro, con toni ben diversi da quelli salottieri di certi scrittori o strombazzati su riviste letterarie dal retorico vate d’Italia Gabriele D’Annunzio (anche lui volontario, ma con i gradi di ufficiale e senza i piedi nel fango), che si serviva della guerra come una ribalta da cui celebrare se stesso. Ora il fante Giuseppe Ungaretti, che aveva rifiutato i gradi di tenente per stare vicino ai suoi compagni d’arme, considerati suoi fratelli, vive, come il soldato semplice Giuseppe Somà, in un continuo stato di precarietà, simile una “foglia sull’albero d’autunno”. Altre volte, quando d’estate il sole dardeggia le pietraie e l’arido suolo del Carso, sente il bisogno, nei brevi periodi di tregua tra una battaglia e l’altra, di entrare in una pozza d’acqua dell’Isonzo per riposare come una reliquia in un’urna di cristallo. Sente il desiderio di purificarsi, di levarsi di dosso tutte le sozzure fisiche e morali della guerra. Vorrebbe diventare un bianco e levigato sasso dell’Isonzo, l’ultimo dei quattro fiumi della sua vita. Il primo dei quali è il Nilo, sulle cui sponde nacque (Alessandria d’Egitto); il secondo è il Serchio, dove bevettero le radici della sua famiglia (Lucca); infine la torbida Senna, nelle cui acque si è “rimescolato e conosciuto” come uomo e come poeta (Parigi).

Nonno Giuseppe, come una verde foglia strappata da un turbine estivo, cadde a 32 anni il I9 agosto sul Vodice, uno sconosciuto e modesto monte, per nulla orripilante per struttura, dell’altipiano carsico, quando le nostre truppe non avevano ancora voltato le spalle al nemico in quel tragico autunno del 1917. Cadde quindi prima di patire l’onta della “vergognosa ritirata”, così definita dai disfattisti, colpito probabilmente in pieno da una cannonata, dal momento che fu dichiarato “disperso” dal mortorio, inviato alla nonna insieme ad una misera medaglia di bronzo, onorata da un triste nastrino tricolore, ma tenuta nascosta (o dimenticata)  nel fondo del cassetto di un comodino da notte. Il suo nome però non andò “disperso”: fu inciso, insieme ad altri 100. 000, sulle gradinate del Sacrario di Redipuglia e portato dal sottoscritto e da suo cugino Giuseppe Basso (fondatore e presidente dell’Associazione Nusèč dëř chié di Prea), figlio della figlia, di cui il nonno non poté sentire i suoi vagiti, né bearsi dei suoi primi sorrisi del latte sognato. Quella figlia che gli avrebbe dato il diritto di essere congedato, ma che le lungaggini burocratiche (o negligenze interessate) non gli permisero di conoscere. La nonna ricevette la notizia della sua morte per via telepatica, prima ancora di riceverla per via postale. Una notte infatti sognò che un cappello d’alpino, con la penna spazzata, veniva travolto dalle onde del mare in burrasca. Non fece memoria della data, ma lei fu sempre convinta che quel sogno  fosse coinciso con il momento esatto della morte del marito. Tant’è che alcuni giorni dopo decise di ritornare a Prea. Qui ricevette dal Ministero della Guerra la notizia ufficiale con una lettera listata a lutto, che il postino aveva trattenuto per quasi un mese nella borsa, non avendo avuto il coraggio di consegnargliela tempestivamente. Lei però da tempo era stata preparata a riceverla dal sogno premonitore. Il ritorno al paese (con quatto figli da sfamare ed una pensione di guerra che le permetteva a malapena di comprare un litro di latte al giorno) segnò l’inizio della sua Caporetto (dopo quella del marito, seguì la morte di due fratelli e di una sorella nel fiore degli anni, in seguito quella del genero ucciso dai nazisti-fascisti nel 1944 e della figlia nel 1945, ossia del padre e della madre di chi scrive queste memorie e di altri tre bambini ancora in tenera età). Vestì il lutto a 29 anni e lo portò fino al 2 febbraio del 1972, quando finalmente poté conseguire la sua personale vittoria finale sul “male di vivere”. Solo allora sul suo viso disteso restò dipinto un sorriso beato mai visto prima

Giuseppe Priale, 24 ottobre 2018

 
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Macerie

Quando il cerchio della vita si avvicina alla sua chiusura, la vecchiaia inclina sempre più verso l'infanzia, fin quasi ad identificarsi in essa. Così il nonno, che tiene per mano il nipotino, sembra dar mano a se stesso, al bambino che era, al "fanciullino" interiore, che si fa sentire specialmente quando intorno i silenzi si fanno sempre più frequenti e i vuoti più numerosi. I ricordi infantili allora diventano parole, sentono il bisogno di venire alla luce del sole che volge al tramonto, quasi avessero paura di finire nel "nulla eterno". Si comportano un po' come quei fiumi carsici che gorgogliando tornano in superficie prima di annullarsi nell'immensità del mare. Sembrano farfalle che, liberate dallo spillo con il quale l'entomologo interiore le ha tenute per tanti anni prigioniere nella teca della memoria del cuore, riprendono vita e volano in cerchio come garrule rondini prima di partire per paesi lontani. Chiedo pertanto un po' d'indulgenza, se questo bambino, quasi ottuagenario, superata con difficoltà la barriera della riservatezza, sente il bisogno di staccare alcune tesserine dalla sua piccola storia infantile e cerca di inserirle nel mosaico della Grande Storia, quella che riguarda la Resistenza vissuta nell' Occitania della sua Alta Vall'Ellero, quella che gli è entrata in casa all'improvviso dopo l'8 settembre 1943.

E' risaputo che durante la Resistenza qualche illegalità è stata commessa; sicuramente però con l'attenuante dello stato di necessità. Erano quindi frequenti i furti di quadrupedi di varia grandezza, di pennuti specialmente. Erano praticati il bracconaggio, la manonera, cioè il commercio clandestino di prodotti soggetti al controllo statale (tipo sali e tabacchi). Così anche mio padre non pensava di fare cosa tanto illegale quando andava a pesca di frodo e a mani nude, spinto dalla necessità di sfamare una nidiata di quattro bambini dai due ai cinque anni di età. Ricordo che un giorno d'estate portò anche me a pescare in Ellero. Non so se ero io a voler sempre andare con lui quando usciva di casa per qualche incombenza o se era lui a volermi con sé come "salvacondotto", utile, se non vitale, durante il turbolento periodo della Resistenza, che a Prea aveva un'importante base operativa con i partigiani della 3^ e 5^ Divisione Alpi. Quel giorno, dopo vari e infruttuosi tentativi di pesca lungo le sponde bagnate dalle gelide acque del torrente, giungemmo ad un grande gorgo, nero da far paura per la profondità dell'acqua e per la folta vegetazione attorno, chiamato infatti, in occitano del Chié, Guřg Niřùn (dal lat. GURGUM NIGRUM). Ad un certo punto mi misi ad urlare vedendo mio padre scomparire nel punto più profondo dell'orrido gorgo. Mi calmai soltanto quando riemerse trionfante con un'enorme trota afferrata per le branchie che gli facevano sanguinare le mani. Una trota che in passato, nei discorsi dei pescatori a canna, era diventata leggendaria quanto il mostro del lago di Lochnes. Portata a casa con la coda che usciva fuori dallo zaino di tela grigia, naturalmente ricevette la visita di molti curiosi e, penso, anche di qualche invidioso. Come sia finita non ricordo. Molto probabilmente in padella come altre più modeste consorelle. Non finì sicuramente in un museo come fenomeno ittico dei nostri torrenti, immersa nella formalina dentro una vasca di vetro. Non ricordo l'odore della sua frittura, né il suo sapore, né gli apprezzamenti di rito nei suoi riguardi, né i complimenti a chi l'aveva pescata e a chi l'aveva cucinata. Mangiare di quella trota fu per me una cosa troppo normale per serbarne memoria. Ricordo invece molto bene il terrore da me provato al gorgo e il gesto di trionfo per la vittoria riportata su quel mostro acquatico da mio padre, considerato da me, da quel momento in poi, un uomo di grande coraggio, che però qualche mese dopo gli fu fatale.

Quello della trota gigante è uno dei tanti ricordi, legati a mio padre, che ho voluto tirar fuori dall'archivio segreto della memoria del cuore per rendere testimonianza del coraggio con cui mio padre scelse, fin da subito, di stare dalla parte della Resistenza e dei suoi valori. Di tanti ricordi, compresi fra il '43 e il '45, solo tre però hanno date ben precise. La prima è stata recuperata per me dal prof. Gian Mario Bologna dall'Archivio Storico della Resistenza di Cuneo; la seconda e la terza dai registri comunali dei decessi.

Risulta infatti che era il 9 dicembre 1944 quando noi bambini alle ore 12 , appena usciti dall'asilo, ci fermammo sul sagrato della chiesa ad ammirare estasiati uno spettacolo straordinario. Sul Pian della Tura, non ancora innevato, venivano giù dal cielo color cobalto, lentamente dondolando, giganteschi "bucaneve". Erano paracadute lanciati (per la prima volta in pieno giorno, dopo altri nove lanciati di notte durante tutto il '44) dagli Anglo-Americani per rifornire, di materiale bellico e di generi alimentari, i partigiani che operavano in Alta Vall'Ellero e Alta Val Maudagna. Mio padre proprio in quei giorni si era unito a loro per non finire un'altra volta al "palo" perché amico dei "ribelli", dei "banditen", ai quali era solito aggiustare le scarpe e permetteva loro di ascoltare Radio Londra all'apparecchio di casa. Ma già il 12 dicembre cadeva sulle montagne della Val Maudagna durante un conflitto a fuoco tra partigiani e nazifascisti esattamente 3 giorni dopo il lancio dei giganteschi "fiori bianchi", che sicuramente mio padre avrà visto, dall'altra valle, come doni mandati dalla Provvidenza ai partigiani combattenti, ma anche come onoranze, mandate dal Cielo, a quelli già caduti, resi giusti dal sacrificio compiuto in nome della divina Libertà. Ma purtroppo il mostro della guerra ebbe la meglio su mio padre, sebbene questa volta si fosse armate le mani per affrontarlo. Un mostro infernale che, dopo ogni conflitto, rimane sempre il solo vincitore, come il biblico Leviatano degli abissi marini. Infatti, uno dopo l'altro, i componenti della mia famiglia finirono tutti nelle fauci dell'insaziabile Molòc. Dopo mio padre, cadde il 2 settembre 1945 anche mia madre, colpita dal tiro incrociato di due "cecchini", due spietati fratellastri, Tifo e Paratifo, rimasti in paese a compiere le ultime rappresaglie di retroguardia di una guerra ormai conclusa. Ai quattro superstiti, simili a sbandati, non rimase che la "diaspora", quella però senza ritorno. Anche la casa , che sapeva ancora di calce e di vernice, chiuse gli occhi e rimase muta come una tomba. Nonna Margherita (già vedova a 29 anni della Prima Guerra Mondiale e con quattro figli, madre di mia madre e di quella di Giuseppe Basso, presidente e fondatore della nostra Associazione Nusèč dëř Chié) non ebbe più il coraggio di mettervi piede e neppure di guardarla. Tutte le volte che doveva passare sotto quelle finestre chiuse come gli occhi di una morta, chiudeva anche i suoi prima di abbassarli a terra per nascondere il pianto a coloro che incontrava. I quattro teneri virgulti, sradicati dal loro ceppo dal turbine della guerra, furono dispersi ai quattro venti. Mio fratello di sei anni andò a vivere con i nonni di Roccaforte; io di cinque con nonna Margherita di Prea; le due sorelline di tre e quattro anni finirono, non so per quale sciagurata decisione, in un orfanatrofio, dove rischiarono di morire di tristezza e di fame. Infatti le compagne più grandicelle sovente ghermivano dal loro piatto il cibo della misera mensa o rubavano dai loro armadietti le cibarie che i parenti portavano loro quando andavano a trovarle. Certe volte le poverine, spinte dalla fame, andavano nel pollaio a rubare a loro volta il granoturco alle galline, ma non le uova dai nidi, posti, per loro sfortuna, troppo in alto. La più giovane porta ancora evidenti sulla fronte i segni delle ferite di quando cadeva per debolezza dovuta alla denutrizione. Ecco le sofferenze che le mie sorelle hanno dovuto patire in quella "casa di pena", dove il pallore del loro viso veniva camuffato con una "pennellata" di rosa ottenuta con qualche energico buffetto sulle gote smunte prima di essere condotte alla presenza dei parenti in visita. In altre occasioni però erano schiaffi sonori a tingere di rosa le loro faccine: colpevoli, le poverette, di chissà quali gravi mancanze ( colpevoli, forse, ma senza attenuanti per lo stato di necessità, del furto di granoturco alle povere galline). Per fortuna, dopo due anni, arrivò anche per loro la liberazione, portata da due coppie di sposi senza figli che le adottarono, infliggendo però loro un'altra dolorosa separazione.

Queste sono le macerie del cuore, quelle che non si vedono, ma bruciano ancora sotto la cenere del tempo, né da esse può rinascere ciò che è andato distrutto. Dalle macerie materiali invece sono ancora rinate case, palazzi, grattacieli e chiese, come per esempio quella di Santa Maria Maggiore di Mondovì, anche se dopo 50 anni ed una gestazione di 10. Il caso volle che, all'età di cinque anni, io mi sia trovato davanti a quelle rovine sovrastate da una grande campana, rimasta in perfetta posizione di quiete come per proteggerle. Perché fossi a Mondovì e con chi, non saprei dire con sicurezza. A quell'età infatti percepivo solo la presenza di mio padre quando ero con lui, perché lui era il mio eroe che catturava i mostri, perché lui era il mio "S. Cristoforo", che per farmi superare lunghi tragitti, guadi o passi difficili, mi portava a cavalluccio come fanno tutti i padri con i loro figlioletti, magari anche solo per gioco. Ma io sulle sue spalle mi sentivo un gigante e incrociavo le gambette sotto il suo mento quando "la cavalcata" era finita e io dovevo scendere a terra. Quando poi sono stato "disarcionato" per sempre, mi è rimasto il complesso del nano, ossia la cronica sensazione di non essere all'altezza di superare gli immancabili passi difficili della vita.

Probabilmente, davanti alla chiesa distrutta, ero con nonno Giovanni, anche lui calzolaio, venuto a Mondovì a rifornirsi del materiale necessario alla sua professione presso un magazzino sito nelle vicinanze. In seguito venni a sapere che la parrocchiale di Pian della Valle era stata distrutta il 12 marzo 1945, per errore, da un bombardamento aereo tedesco, il cui vero obbiettivo era la chiesa di Santo Stefano, adibita dai partigiani a"santa barbara" e situata a poca distanza sulla stessa via. L'errore fu provvidenziale per Mondovì, che non ebbe a patire vittime e rovine maggiori con lo scoppio di quella impropria polveriera. Non ritengo quindi sconveniente paragonare la sua oblazione a quella del francescano San Massimiliano Maria Kolbe, che prese il posto di un padre di famiglia destinato a morire nel bunker della fame ad Auschwitz. La chiesa di S. Maria Maggiore, gemellata con l'omonima romana fin dai primi anni del '700, facendo dono di sé, non poteva farne uno più grande ai Monregalesi, né poteva perciò sparire per sempre dalla geografia della città, né dalla memoria dei suoi abitanti. Così nel 1994 rinasceva al Borgo Ferrone su un "terreno" nuovo, adatto ad essere " lavorato" per accogliere il seme della Parola, sparsa da mani docili allo Spirito del Buon Seminatore. Anche se la vecchia campana, orfana del suo campanile, è rimasta muta per sempre, l'eco dei suoi rintocchi d'un tempo tiene desta, più che mai, nel Borgo la fede nei suoi parrocchiani. Quella fede che apre il cuore alla carità e alla solidarietà, che rimuove le "macerie" morali per far rinascere l'uomo nuovo, che rafforza la volontà di partecipare alla vita e al decoro della parrocchia.

Legato al ricordo delle rovine della vecchia chiesa, è quello del viaggio di ritorno da Mondovì a Villanova, fatto la sera dello stesso giorno con il trenino a vapore. Ricordo che, ad un certo punto, la carrozza cominciò a dondolare e a cigolare paurosamente (finì di agitarsi nel 1953). Per giunta, si spense la luce, forse per un guasto, ma più probabilmente a causa del coprifuoco ancora in vigore. Ero terrorizzato, anche perché non avvertivo più la presenza di mio padre, di chi mi aveva dato sicurezza fino a pochi mesi prima. Senza più il mio "S. Cristoforo", per la prima volta mi sentii solo e perduto, tanto che, in seguito, una certa inquietudine esistenziale mi sarà sempre scomoda compagna.

Se il viaggio con la vecchia "caffettiera" l'ho fatto molto probabilmente prima del 25 aprile 1945, sicuramente alcuni giorni dopo, ricordo, a Prea arrivò una camionetta, da cui scesero dei soldati senza fucile, allegri e vocianti in una lingua incomprensibile. Erano completamente diversi dai truci tedeschi in divisa nera, che sapevano solo dire "raus, capùt" con il fucile spianato. I nuovi soldati invece ci sorridevano e ci porgevano caramelle rotonde, pezzi di cioccolata e pagnottelle bianchissime, che qualcuno diceva fossero fatte con farina di riso, delle quali ricordo ancora il gusto, ma non quello delle caramelle e del cioccolato. Quel giorno ebbi la sensazione che qualcosa era cambiato anche fuori di casa mia. Era finita la guerra. Era cambiata la vita anche di altre famiglie. Era finita la vita di molti giovani sui fronti lontani e sulle nostre montagne. Era finita la vita anche nei nostri casolari di montagna, nei nostri tèč (dal lat.TECTUM=tetto), dati tutti alle fiamme perché colpevoli di aver dato rifugio ai partigiani.

Nonna Margherita, con la quale ero andato a vivere dopo il 2 settembre '45, mi portò, forse nello stesso mese, a vedere cos'era rimasto del suo tèč di S.Grato. Era rimasto solo un mucchio di macerie infernali, annerite dalla combustione del fieno, delle foglie e della travatura del tetto. Ricordo che dall'alto di una trave, non divorata completamente dal fuoco, ci accolse, con un lungo e stentoreo chicchirichì, un superbo gallo rossiccio dalla coda fluente alla bersagliera. Sembrava volesse dire che finalmente poteva cantare in tutta libertà, che non aveva più paura di certi malintenzionati verso i pennuti (specie del suo rango) e che era felice di non essere finito arrostito nell'incendio del tèč. Da quel palco di travi annerite sembrava volesse annunciare al mondo intero che solo lui poteva cantare vittoria e che lui era ancora il re del suo pollaio, miracolosamente risparmiato dai lanciafiamme. Rimasta muta di fronte ai suoi miseri beni andati in fumo e indifferente al trionfante saluto interessato del gallo, la nonna, che tutti chiamavano Ghita d'San Gřatu, prima di tornare in paese sostò ancora alcuni minuti nella cappella eponima del suo casolare, anch'essa risparmiata dai messi infernali, forse per superstizioso rispetto al Santo vescovo d'Aosta (V se.), rappresentato sulla pala dell'altare in due momenti della sua vita consacrata: nel primo, come presbitero, mentre tiene alla catena il diavolo; nel secondo, come vescovo, mentre regge un vassoio con la testa del Battista, fatta mozzare da Erode e poi fatta gettare in un pozzo, da dove il Santo l'aveva recuperata e in esso aveva convogliato una furiosa grandinata.

Chissà se nonna Margherita, leggendo l'allegoria del dipinto, avrà ricevuto qualche briciola di conforto e di rassegnazione. Sicuramente, devota com'era, avrà invocato il suo Santo di dare un altro giro di catena al collo del principe del male, sempre pronto a scatenarsi per andare nel mondo a seminare zizzania, a fomentare l'odio nel cuore delle persone, specie in quello di certi uomini di potere con la mente inquinata da ambizioni smodate o da ideologie aberranti, nemiche giurate della pace e dell'umanità.

Giuseppe Priale, Ass. Nusèč dëř Chié di Prea – Roccaforte 

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