Nell’Italia assediata dal virus la grande paura è il futuro dei figli

Il coronavirus ha cambiato la nostra visione del mondo. E, prima ancora, della realtà intorno a noi. Ha ridefinito la nostra percezione del tempo. Il domani ci appare scuro. Meglio: sospeso. Mentre il passato inizia con l’irruzione, del virus. Anche se la data ci risulta incerta. L’unica certezza è che questo tempo senza tempo: durerà a lungo. Come mostra il sondaggio condotto nei giorni scorsi (dall’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza di Demos-Fondazione Unipolis). Quasi 3 italiani su 4 pensano che durerà «alcuni mesi». Anche se non è chiaro quanti. Ma il 16% evoca un orizzonte oscuro. E senza limiti precisi: almeno «un anno ». Dopo, non si sa. D’altra parte, tutti gli italiani (se vogliamo essere pignoli: il 96%) si sentono e si dichiarano (molto o abbastanza) preoccupati.

Non potrebbe essere diversamente. Un sentimento diffuso e intenso dovunque e comunque. Senza particolari distinzioni di genere, età, territorio. Perfino i più giovani, in questo caso, appaiono inquieti. Costretti a casa. Colpiti, più degli altri, da questa vita in solitudine. Semmai, come avviene spesso, le donne e le casalinghe percepiscono l’insicurezza in modo particolare. Più acuto. Al di là della salute, infatti, ciò che inquieta le persone è il futuro economico. La perdita del lavoro, della pensione. Dei risparmi. Più semplicemente – e drammaticamente – di non avere i soldi necessari per vivere. Per sé, ma, anzitutto, per il futuro dei figli. Questo senso di precarietà è cresciuto in misura rapida. E ampia. Infatti, la preoccupazione per i figli coinvolge oltre metà degli italiani: il 53%. Dunque, 8 punti in più rispetto a gennaio. Prima che il virus irrompesse nella nostra vita. Cambiando le nostre abitudini. Oggi le cautele e le indicazioni dettate dalle autorità pubbliche e, prima ancora, dai medici, sembrano assimilate nei comportamenti quotidiani delle persone. Infatti, (pressoché) tutti gli italiani evitano di uscire di casa, frequentano e incontrano solo i familiari. Quando escono, indossano, in maggioranza, le mascherine. Quasi metà degli intervistati (prima dei nuovi blocchi previsti dal governo) afferma di avere sospeso l’attività lavorativa. Oppure di svolgerla a distanza. Un terzo: ha fatto provvista di alimentari, in previsione di un isolamento di lunga durata. Insomma: non siamo più gli stessi. Fuori casa non si vede quasi nessuno. Intorno a noi: figli, fratelli, genitori… Il sondaggio di Demos (per Fondazione Unipolis) disegna, dunque, una società in stato di assedio. Mentre il tempo è sospeso.

La nostra vita è cambiata bruscamente. E sta cambiando anche il rapporto con le istituzioni. Il 70% degli italiani, come abbiamo visto, esprime sostegno al governo. E accetta, per questo, misure e provvedimenti che stanno cambiando sensibilmente la vita. La società. Ma anche il nostro rapporto con lo Stato. Gli italiani, com’è noto, hanno sempre sopportato a fatica i poteri “centrali”. Rispetto agli altri Paesi europei. Hanno manifestato un elevato grado di ri-sentimento pubblico. Che si esprime anche attraverso una certa reticenza n ei confronti del fisco. Perché la pressione fiscale in Italia appare elevata, rispetto ad altri Paesi. Così, da noi, le tasse crescono insieme all’evasione. E i servizi pubblici, compresa la sanità, ne soffrono. Come si scopre in tempi difficili, come questi. Tuttavia, l’emergenza e la paura, come abbiamo detto, alimentano il consenso verso le istituzioni di governo. E verso i provvedimenti che ha assunto, in queste settimane. Anche se (co)stringono i nostri spazi di vita, le nostre relazioni. Dettano regole molto rigide. Lasciano pochi margini di autonomia. Prevedono pene pesanti per chi le disattende. In altri termini, gli interventi per affrontare il coronavirus (im)pongono limiti rilevanti alla nostra democrazia. Peraltro, secondo 9 italiani su 10, in nome della sicurezza, è giustificato, anzi, giusto, limitare le e, dunque, ”la”, libertà dei cittadini. L’esempio della Cina viene richiamato, spesso, in questi giorni, per sottolineare l’efficacia di un sistema centralizzato, con pochi limiti e controlli. D’altra parte, è da anni che, nei nostri sondaggi, emerge un disagio diffuso, fra i cittadini, verso la democrazia liberale. Al punto che molti (la maggioranza…) auspicano l’avvento di un «uomo forte». Anche per questo, ormai, tutti i partiti si sono personalizzati. Sono divenuti «partiti personali».

Lo stesso premier, Giuseppe Conte, costretto dall’emergenza ad assumere provvedimenti urgenti e cogenti, oggi si presenta come un «uomo forte». Un’immagine, fino a ieri, difficile da associare alla sua figura. Anche per questo, però, bisogna fare attenzione. Che il «virus della corona» non contamini anche la nostra democrazia. Trasformandola in una corona-democrazia.

Ilvo Diamanti – la Repubblica – 23 marzo 2020

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La Lega tra il Nord e il capo

La Lega è cambiata, nel corso della sua storia.

Soprattutto nei tempi recenti. Perché in un arco temporale relativamente breve, un decennio, ha cambiato non solo leadership. Ma strategia, messaggio. Insieme a molti aspetti della base elettorale. Un complesso di trasformazioni complesse, riassunte dal mutamento, forse, più significativo. Il Nome. Perché la Lega, in origine, negli anni Ottanta, era Veneta, Lombarda. Poi, negli anni Novanta, è divenuta Nord e Padana. Anzi: "Lega Nord per l’indipendenza della Padania". Mentre oggi si è sdoppiata.

Perché alla "Lega Nord" si è affiancata e sovrapposta la "Lega per Salvini premier". Tuttavia, dovunque, il richiamo diretto al capo ha sostituito il riferimento territoriale.

Perché, dovunque, la Lega si presenta come un "partito personale". Ha, cioè, il volto di Salvini. Le parole di Salvini.

Che rimbalzano su tutti i media. Dagli schermi ai social. E dai social sul territorio. Analogamente a quanto è avvenuto nella politica italiana, e non solo, durante gli ultimi 25 anni. Da quando, cioè, Silvio Berlusconi ha fondato Forza Italia.

Un partito-impresa con un solo volto. Un cambiamento tanto profondo, nella Lega, avvenuto in tempi (relativamente) brevi, non poteva non riflettersi anche all’interno. Non al punto di generare fratture tra "fazioni" e "correnti", perché nonostante la battuta d’arresto in Emilia-Romagna, la Lega è ancora il primo partito in Italia, secondo i sondaggi. Troppo forte, per alimentare divisioni interne. Le tensioni, invece, per quanto inespresse, emergono tra soggetti politici del passato e del presente.

Che interpretano Leghe e storie diverse, per quanto cresciute sotto lo stesso tetto. L’intervista di Gad Lerner a Umberto Bossi, pubblicata nei giorni scorsi sulle pagine di Repubblica, ne offre una testimonianza evidente. E molto interessante. Bossi, per statuto, presidente a vita della Lega Nord (ma senza incarichi…), ha, infatti, manifestato, senza sottintesi, la propria (s)valutazione critica verso la Lega di Salvini. Per una ragione, su tutte. La svolta "nazionalista", che guarda a Centro-Sud. E lascia sullo sfondo il Nord. Il Lombardo-Veneto. La stessa Emilia-Romagna. Giudizi che Salvini ha liquidato senza riserve. Di fronte alla prova dei "numeri". Tuttavia, il giudizio di Bossi non è in-fondato.

Non solo su basi storiche e di identità. Ma anche elettorali.

Alle recenti Europee, infatti, la Lega ha ottenuto il 34,3% dei voti validi. Ma nel Nord Ovest ha raggiunto il 40,7 e nel Nord Est il 45,6 per cento. La Lega mantiene quindi le sue radici nel Nord. E, anzi, le rafforza. Tuttavia, è indubbio che abbia allargato la sua base elettorale in tutte le zone del Paese. Nelle Regioni centrali ha ottenuto intorno al 33 per cento. E nel Mezzogiorno ha superato il 20. La Lega, dunque, si è certamente nazionalizzata. E affonda, ancora, le sue radici nel Centro Nord. Al tempo stesso, la Lega di Salvini ha specificato la propria identità in due direzioni precise. In primo luogo: la personalizzazione. In secondo luogo, ha rafforzato il proprio profilo politico: nazionale e di destra. D’altronde, il principale alleato di Salvini, in Europa, è il Front – oggi Rassemblement – National, guidato da Marine Le Pen. Sua amica personale. Va, peraltro, chiarito che la Lega di Salvini intercetta, principalmente, i settori moderati della destra. Il 37% degli elettori della Lega si colloca a centro-destra (sondaggio Demos, dicembre 2019). Un settore alimentato, soprattutto, da Fi, ormai s-finita dal declino di Berlusconi. Così la componente più ampia degli elettori che guardano alla Lega oggi preferisce l’etichetta della destra "moderata" rispetto a quella "radicale". Nonostante le posizioni del leader non appaiano molto moderate… Bossi e Salvini interpretano, dunque, due storie diverse della Lega, che, però, si "legano" insieme. Perché la Lega di Salvini è molto più "personalizzata" rispetto a quella di Bossi. Che fondava la propria identità sul territorio. Mentre la Lega di Salvini ha un solo volto. Un solo nome. Oggi, infatti, si presenta come la "Lega di Salvini Premier". Una Lega personale e nazionale, nelle intenzioni del leader. Che intende proiettarla nel Centro Sud. Non per nulla ha ottenuto il suo seggio senatoriale a Roma. E, prima, a Reggio Calabria. Lontano dalle zone dove un tempo risuonava il grido: «Roma ladrona, la Lega non perdona».

Quella Lega oggi è cambiata. Salvini l’ha nazionalizzata.

Soprattutto sul piano della strategia e della comunicazione. Visto che oggi, nel suo messaggio, vengono «prima gli italiani». Anche se appare ancora ben ancorata nel Nord, dove alle recenti Europee ha ottenuto circa il 53% dei propri voti. Tuttavia, alle elezioni politiche del 2008, al di sotto del Po, aveva intercettato meno del 10% dei voti. Alle Europee del 2019: quasi metà. E nel Mezzogiorno oltre il 16 per cento.

Il problema, per questa Lega, è che la personalizzazione e la perdita della geografia comportano un rischio. La perdita dell’identità. Che, oggi, si Lega indissolubilmente al leader. Ne in-segue le sorti. Nel bene. Ma anche nel "meno bene", per non dire "nel male". Come si è visto, di recente, in Emilia-Romagna. Dove Bonaccini ha vinto anche perché, come ha osservato Bossi, «è stato bravo ad agganciarsi per tempo al treno di Lombardia e Veneto, verso il regionalismo differenziato». Mentre Salvini ha anteposto se stesso alle ragioni della società. Ha lasciato il federalismo sullo sfondo. Ha diviso la Lega, anche per definizione, fra il Nord e la propria immagine, Ma, in questo modo, ha dimenticato che il "tempo dei capi" ha una durata più breve rispetto alla "storia del territorio".

Ilvo Diamanti – la Repubblica – 10 febbraio 2020

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Ora il Paese merita un’alleanza forte

Ci sarà stato anche «tanto entusiasmo», come aveva giurato Conte all’alba di questo 2019. Ma una cosa è ormai certa: «l’anno bellissimo» vaticinato dal premier non l’abbiamo vissuto.

È iniziato con i sogni sovranisti del governo gialloverde, miseramente spiaggiati sulla battigia del Papeete. Finisce con i singulti riformisti del governo giallorosso, faticosamente abborracciati sui banchi della Camera. E pare già un mezzo miracolo, che un governo nato in corsa e nato male mangi il panettone senza aver fatto danni al Paese. Un governo tra due forze fiaccate e inacidite, che si sono messe insieme per evitare il voto anticipato e il probabile trionfo dell’ultradestra salviniana.

Un governo con molte attenuanti ma senza padre e senza madre: tutt’al più genitori adottivi, prima nemici per la pelle poi congiunti per necessità. Onestamente non ci si poteva aspettare troppo, dalla strana famiglia M5S-Pd-Leu: improvvisata e subito destabilizzata dagli scappati di casa di Italia Viva.

I parenti-serpenti chiudono l’anno come possono. Dovevano osare di più. Ma intanto era importante tagliare almeno i traguardi minimi della fase. Da una parte la manovra taglia-e-cuci, blindata a tappe forzate nel votificio di Montecitorio: pesano le micro-tasse, ma non si parla più di Flat Tax e condoni fiscali, mentre arriva qualche soldo in più in busta paga e più risorse per famiglia e sanità. Dall’altra parte il rituale decreto milleproroghe, approvato "salvo intese" dopo sei ore di battaglia nel fortino di Palazzo Chigi. In queste formule astruse si racchiudono i problemi antichi del non-governo della cosa pubblica, e il metodo escogitato per eluderli. Le "proroghe", innanzitutto: il rinvio ad altra data di ogni decisione, lo scarico delle responsabilità e dei costi su chi verrà dopo. Metà delle misure della legge di stabilità (dal taglio del cuneo fiscale alla Plastic Tax) diventeranno esecutive tra luglio e ottobre del prossimo anno; e le clausole di salvaguardia, orgogliosamente disinnescate sull’Iva per il 2020, sono già state inopinatamente rialzate a 40 miliardi di qui al 2023.

E poi il "Salvo Intese": la formula magica in uso da Monti in poi, per consentire a maggioranze divise di far finta di marciare unite.

"Salvo Intese" il Conte uno ha licenziato 19 decreti, il Conte bis ne ha sfornati 3.

Va così non da oggi: da anni. Ma stavolta sanno anche loro che così non può continuare. Tra i fumosi vertici notturni e le maratone estenuanti in Consiglio dei ministri. La fratricida "guerra per banche" (i sommersi di Etruria contro i salvati di Bari) e le lotte tribali sui conflitti di interessi (dalle fondazioni ad personam tipo Open alle riforme ad aziendam stile Casaleggio Srl). Renzi che tuona contro norme «da Paese sudamericano» (dimenticando che i suoi le hanno accettate in Cdm) e Di Maio che inveisce contro «chi piccona il governo da dentro» (scordandosi che i primi a farlo sono i pentastellati nostalgici del Capitano). Conte che insegue il salvifico «cronoprogramma» (non vedendo che ai cittadini che chiedono pane non devi dare brioche) e Zingaretti che ripete «se cade il governo c’è solo il voto» (non capendo che alla lunga certe profezie si autoavverano).

A occhio e croce, neanche l’anno che sta arrivando sarà bellissimo. Se non cambiamo passo, cresceremo dello 0,6%. Se non cambiamo strategia, il debito pubblico sfonderà il tetto dei 2.500 miliardi, continueremo a pagare un costo sugli interessi esorbitante e a scontare uno spread doppio rispetto a Spagna e Portogallo. L’Italia, nonostante i suoi guai, merita di più. È vero che in superficie resta forte una corrente di stress esistenziale e di rancore sociale. Ma dal Paese profondo sta venendo a galla un deposito di democrazia e di civismo che non si è mai esaurito. Lo certificano le 92 piazze spontanee riempite in un mese dal semplice tam tam digitale di quattro ragazzi bolognesi: giovani inaspettati, che a dispetto dei troppi consigli al veleno delle vecchie élite hanno solo voglia di partecipare e di raccontare un’altra storia rispetto all’odiocrazia fascio-leghista. Lo testimoniano i 32 «eroi di ogni giorno» premiati da Mattarella al Quirinale. Gente normale, che spende la propria vita a occuparsi di quella degli altri. «Furore di vivere», lo chiama il Censis con troppa enfasi. «Ritorno del futuro», lo chiama con più finezza Ilvo Diamanti.

Sta al governo giallorosso, nell’anno che sta arrivando, intercettare e dare risposte finalmente credibili a questa Italia che non si rassegna al declino e al destino. Cinque Stelle e Pd si diano una missione: trasformino la coalizione in alleanza, e il contratto in politica. Alla ripresa, complice il voto in Emilia-Romagna, si capirà subito se ce la fanno o se invece si apre la crisi, sapendo bene cosa c’è dentro l’urna delle elezioni anticipate e cosa c’è sotto il finto vestito moderato di Salvini.

«È st’acqua qua», per dirla in bersanese. Un’acqua in cui nuota di tutto: a destra squali affamati e delfini falliti, a sinistra cetacei sfiatati e tonni inscatolati, al centro diafani plancton che si credono piranha. Ora guizzano anche le sardine, che non vogliono farsi catturare nella rete del "partito" né farsi friggere sulla graticola dei talk show. Invocano un altro mare in cui nuotare. Di Maio e Zingaretti lo cerchino insieme a loro, invece di naufragare da soli nella solita pozza di fiele. Così, magari, avremo un 2020 "decente". Noi ci accontenteremmo anche di questo.

Massimo Giannini – la Repubblica – 24 dicembre 2019

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