Il malpasso

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Nell’estate del ’45 a Prea non si trovava più neanche una goccia di latte, perché, come avveniva da sempre, tutto il bestiame e buona parte degli abitanti erano saliti ai tèč, ai casolari di mezza montagna, dai quali sarebbero scesi per la raccolta delle castagne.

Per evitare che le capre dessero una mano nella raccolta del prezioso frutto, in autunno venivano mandate in cřavèřa, cioè venivano riunite in un solo gregge sotto la tutela di un capraio (cřavé). Il quale, per una quarantina di giorni, le teneva al pascolo oltre i 900 metri - limite dei castagni in Val Ellero -accontentandosi del fřüč - frutti derivati dal latte – per il compenso.

Dopo i Santi, le capre ritornavano ai proprietari. Allora potevano liberamente andare al pascolo nei castagneti e spigolare (spiuřò) le castagne dimenticate assieme ai poveri del paese, ai quali era concesso di raccogliere anche la legna abbandonata.

 Se mettere assieme le capre era un’operazione semplice - per loro era una festa –, non lo era altrettanto separarle alla fine del piacevole soggiorno autunnale di mezza montagna. All’intera compagnia caprina – ingravidata dai cornutissimi signori del gregge – dispiaceva dover ritornare al paese e finire imprigionata in un recinto (triàu), dove i proprietari andavano a separare (triò) i propri capi da quelli altrui. La separazione (triàğ), che avveniva fra alti belati d’addio e di arrivederci, segnava malinconicamente la fine della loro colonia autunnale.

Le capre saranno anche dei quadrupedi ignoranti – come “sgarbatamente” vengono qualificate - ma non sono prive di sensibilità, quella che a volte manca al sapere ideologizzato di certi maestri del pensiero, che hanno creduto o credono ancora di avere la ricetta per costruire un mondo nuovo, un mondo finalmente senza guerre e senza fame.

A Prea nell’estate del ’45 non c’era più la guerra, ma era rimasta la fame. E a noi quattro bambini mancava il latte. Di quello conservato, comprato alla bottega (butea), non si parlava ancora. A quei tempi il latte era solo quello caldo e schiumoso che proveniva direttamente dalla “fonte”, attivata dal malgaro a due mani, sempre se la mucca era nel periodo di produrlo o se la sua “latteria” non era stata prosciugata dagli “aventi diritto di prelazione”.

Quando d’estate a Prea nessuna fonte lattifera era disponibile e quella di Roccaforte dei nonni paterni era troppo lontana per il fabbisogno giornaliero di quattro bocche ancora da latte, la fonte più vicina era quella dei Piani di Norea - una località all’inizio dell’Alta Val Ellero - a due chilometri di distanza dal paese. Allora la mamma - vedova da pochi mesi – mandava mio fratello Giovanni, di sei anni, a prenderne un bidoncino (barachìn) dalla Ramagneta, una vecchietta che, dopo la morte del marito, si era disfatta del piccolo capitale bovino (cavià), ma aveva ancora tenuto una vaccarella, perché vecchiotta un po’ come lei, quindi di scarso valore economico, ma non affettivo. Il fatto che la tenesse sempre per la cavezza quando la pascolava, stava a dimostrare quale fosse il legame fra loro.

Una volta Giovanni ritardò un po’ troppo a far ritorno, pur passando per la scorciatoia della Cařò (Calata), un tratto alquanto dissestato dell’antica mulattiera. Allora la mamma gli andò incontro con noi tre bambini per mano (Penso che sia stata l’ultima volta che ci siamo presi per mano, perché poco dopo – morta anche la mamma – fummo dispersi ai quattro venti da una diaspora senza ritorno). A metà strada trovammo solo il barachìn rovesciato e senza coperchio, vicino ad una pietra sporgente, probabile causa dell’incidente. Ma di Giovanni nessuna traccia. Al richiamo disperato della mamma, rispose un pianto che saliva dal fondo scosceso del greppo (ribàs). Il povero Giovanni stava cercando – quasi al buio, in mezzo ai cespugli e agli sterpi – il coperchio a tappo che, cadendo a terra, non aveva retto alla spinta del latte ed era rotolato chissà dove.

Il barachìn d’alluminio – privo del suo “baschetto” con il pomello nel mezzo – non venne più usato, né Giovanni venne più mandato ai Piani a prendere il latte. Ora giace - un po’ ammaccato e ingrigito dal tempo – nella parte bassa e buia di un vecchio armadio (giüieřa) con le ante superiori a vetri opachi, che una volta avevano pudicamente celato tazzine con il bordo dorato, calici modesti e bicchierini da cichèt, non certo di cristallo: i soli “gioielli” che la povera gente possedeva, ma che non amava ostentare per rispetto di chi non possedeva neanche quelli.

Quando ora mi capita di aprire il vecchio armadio – ormai ridotto a contenitore di cianfrusaglie – mi soffermo a guardare per un momento il vecchio barachìn, che mi fa ricordare non solo il latte versato da mio fratello, ma anche quello versato da me proprio nello stesso punto della mulattiera e  nella stessa parte del giorno dell’anno precedente.

In un tardo pomeriggio del ’44 – probabilmente era estate – mio padre ed io tornavamo da far visita ai nonni di Roccaforte: lui con lo zaino pieno di materiale per calzature, io a cavalluccio con la funzione di “salvacondotto”, indispensabile per attraversare una zona dove la Resistenza era particolarmente attiva. Arrivati, sul far della notte, quasi al termine della mulattiera, con una mia improvvisa acrobazia – probabilmente causata da un inciampamento di mio padre – feci cadere la bottiglia del latte che nonna Caterina era riuscita ancora ad infilare in qualche parte esterna dello zaino. Il rumore della bottiglia, andata in frantumi, mise in allarme la sentinella del blocco che i partigiani avevano posto presso il pilone di Sant’Anna, dove la mulattiera sbocca nella strada carrozzabile. All’altolà chi va là, mio padre non rispose con la parola d’ordine che non conosceva, ma con il proprio nome, cognome e professione. Superammo il blocco senza difficoltà, perché quei partigiani erano soliti venire a casa nostra a farsi aggiustare gli scarponi e a sentire Radio Londra al nostro apparecchio, che era regolarmente disturbato dal solito “temporale” del Regime nero.

       Già quella volta, il mattino dopo, noi bambini eravamo rimasti senza latte a colazione, molto probabilmente per colpa di quella “pietra d’inciampo”, che per due volte aveva fatto sentire la sua presenza premonitrice. La prima volta pochi mesi prima della perdita del papà per mano dei nazifascisti; la seconda volta pochi mesi prima della perdita della mamma, vittima di due “cecchini” (tifo e paratifo), lasciati dalla guerra a completare la sua opera nefasta.

Il medico condotto, chiamato d’urgenza, non intervenne immediatamente, perché impegnato in una  partita di caccia - appena aperta -, quando la caccia ai fascisti non era ancora stata chiusa (molte volte la vendetta privata passava come assassinio politico rispettabile) e il Paese rischiava di passare dal regime nero a quello  rosso, quando il vento dell’est, a quel tempo, soffiava  forte.

Allora fu chiamato il parroco, che non andava a caccia e aveva in cura solo le anime dei suoi parrocchiani. Confessò e comunicò la mamma, prima di impartirle l’Unzione dei malati: era  tutto l’occorrente per l’ultimo viaggio, una volta  chiamato giustamente Viatico.

Il medico venne il giorno dopo, solo per diagnosticare – a tempo scaduto – la causa della morte, dovuta ai due killer che, dopo la guerra, stavano mietendo vittime un po’ ovunque.

Don Giovanni Milano aveva partecipato alla Prima guerra mondiale come tanti altri chierici che non avevano ancora ricevuto l’ordine del diaconato. Molti di essi persero la vita, non pochi anche la vocazione al sacerdozio. Don Giovanni perse l’indice della mano destra, il dito che aveva usato per premere il grilletto per uccidere, ma non perse la vocazione per la salute delle anime.

         Notai la sua menomazione quando – a cinque anni – mi diede l’ostia della Prima comunione, il giorno della festa patronale della S.S. Trinità del ’45. Di quel giorno conservo la fotografia che la mamma mi aveva scattato assieme a Giovanni – anche lui comunicato la prima volta a sei anni – con una “scatolina” della gloriosa e italica Ferrania sul sagrato della chiesa davanti al monumento dei Caduti, tra i quali il nonno materno, Giuseppe Somà, caduto sul Carso nel ‘17, ma salvato dall’onta di Caporetto.

Quella fu forse l’ultima foto che la mamma ci fece, prima di cadere anche lei vittima della guerra e del dopoguerra, ma non ricordata da nessuna lapide.

Tornando alle due coincidenze, non posso fare a meno di cogliere in ognuna di esse anche due generi di privazione. La privazione del latte necessario per la crescita fisica, poi la privazione dei genitori, indispensabili per la crescita psichica dei figli.

        In seguito, altre coincidenze – non meno straordinarie – mi hanno sempre più convinto che la storia, individuale e universale, sia scritta sulla trama ordita dal Gran Tessitore, che da sempre fa andare, con sapienza, la spola al buio della sua luce, invisibile agli occhi di chi vede ancora la luce del sole sorgere ogni giorno in un sereno o fosco mattino e morire la sera in un mare di fuoco o in una colata di piombo.

A volte mi viene da pensar che, durante la vita, certi percorsi obbligati, certi divieti di accesso, certe strane coincidenze, mancate o inaspettate, non siano dovute al caso, ma siano la rivelazione dell’Assoluto in incognito, come affermava Albert Einstein, teorico della relatività generale.

Nonna Margherita - che non s’intendeva di relatività generale, ma di relatività particolare, né si aspettava che d’estate il latte potesse piovere dal cielo, come la biblica manna del deserto – comprò Cornèt, una magnifica capra dalle corna di camoscio, corteggiata e contesa dai signori del gregge, quando in autunno, felice e contenta, andava anch’essa in cravèřa. Fu così che Cornèt  in pochi anni diventò la capostipite di un piccolo gregge (strup), che la nonna portava a pascolare solitamente al Malpasso (Mařpas), un luogo veramente da capre – con anfratti e fitta  boscaglia – dove durante la Resistenza andavano a nascondersi i giovani  del paese renitenti alla leva e alcuni soldati sbandati, per sfuggire ai rastrellamenti.

Mio padre pensava di non aver alcun motivo per andare ad “imboscarsi” anche lui al Malpasso o da qualche altra parte. Ma essendo stato segnalato come fiancheggiatore dei partigiani, solitamente veniva punito con una notte al palo, quando gli facevano “visita” quelli delle brigate nere. Alla visita fattagli nel dicembre del ’44 non si fece trovare in casa. Preferì rifugiarsi sulle montagne della Val Maudagna presso i suoi amici partigiani, piuttosto che passare una nottata all’addiaccio legato al frassino vicino a casa. Ma gli andò peggio quel 12 dicembre del ’44.

Un giorno che portavamo le capre al pascolo del Malpasso - appena superato il rio (riàn) omonimo della stretta e chiusa valletta, difficile da superare come dice il nome – la nonna mi indicò un piccolo spiazzo, dove durante la guerra (partigiana) erano state sommariamente sepolte alcune persone con le punte delle scarpe fuori dalla fossa.

Finita la guerra, le salme vennero riesumate, ma nessuna lapide fu posta per ricordare i loro nomi. In seguito, nessuna luce venne fatta sull’oscura vicenda. In paese non girò mai la benché minima diceria: silenzio e buio assoluti. Solo otto pietre – disposte ad arco, non per un gioco del caso – indicano ancora il luogo della provvisoria sepoltura e molto probabilmente anche il numero delle vittime, note soltanto al rio che lambisce il piccolo spiazzo e unico testimone oculare per un processo che non è stato e non sarà mai aperto. Ma le sue acque cristalline – che continuano a scorrere veloci fra pietre pulite e in cascatelle d’argento – mormorano ancora all’orecchio attento di qualche raro passante tutto il loro disappunto per ciò che hanno visto e udito. Ma quelle  grezze e mute “lapidi” bisognerebbe aggiungerne un’altra, quella della verità, rimasta sepolta per sempre in quel piccolo cimitero provvisorio, risalente alla seconda fase della guerra, quella civile, ecumenicamente chiamata Resistenza o di Liberazione (dal nazifascismo), ma anche di liberazione del peggio che si cela nella natura umana, come succede da sempre in tutte le guerre. Non di rado, infatti, la narrazione ufficiale della Resistenza ha tenuto nascoste oscure vicende sotto cumuli di menzogne “veritiere” e di silenzi omertosi: pagine strappate dal libro della sua storia corrente, perché incompatibili con la sua epopea. La quale, però, rischia di regredire a leggenda, se le verità più scomode vengono negate o sotterrate negli archivi segreti, a scapito della credibilità della parte migliore di essa.

Un paio di anni dopo la fine della guerra il rio del Malpasso fu ancora testimone di altri due episodi – legati fra loro da uno stretto rapporto di causa ed effetto – che mi hanno coinvolto e anche sconvolto profondamente.

Una volta che da solo conducevo al pascolo le capre (la nonna già si fidava di me che potevo avere dai sette agli otto anni), una di esse (una bima, capra di due anni) cominciò ad un certo punto a rallentare il passo, a staccarsi dalle altre, a barcollare e indietreggiare. Poi stramazzò a terra con un belato straziante, quasi umano, soffocato da un grosso rigurgito di sangue. Date alcune frenetiche scalciate (slinc) rimase immobile come un masso, mentre le altre, senza voltarsi indietro, anzi accelerando il passo, raggiungevano il pascolo del Malpasso, un toponimo che non potrebbe essere più appropriato, non solo dal punto di vista geografico, ma per me anche esistenziale.

La morte della bima, stramazzata davanti ai miei piedi, mi sconvolse a tal punto che lasciai le altre al loro destino. In preda all’angoscia, corsi a casa per dire alla nonna cos’era capitato alla giovane capra, ma non quello che era capitato a me. Per la prima volta avevo capito di non essere immortale, che anch’io un giorno avrei dovuto morire, che anche la vita delle persone ha un inizio e poi una fine.

Fino a pochi anni prima, infatti, la vista di un maiale sgozzato – appeso con le zampe posteriori fra lacerti grugniti e disperati divincolamenti – non mi aveva turbato più di tanto. Non avevo ancora mai visto la morte stampata sul viso marmoreo di un defunto. Anche la morte dei miei genitori aveva avuto su di me l’effetto che poteva avere una loro momentanea assenza: non versai neppure una lacrima. In seguito ne versai più di una, ma di quelle aride che lacerano l’anima e segnano la vita per sempre.

Ci voleva la morte improvvisa della giovane capra sulla mulattiera del Malpasso  per cacciarmi brutalmente dal paradiso terrestre della mia infanzia e precipitarmi, senza più le ali dell’innocenza, nell’aggrovigliato mondo terrestre, una  piccola zolla dell’ universo che ha reso sempre feroci gli uomini che se la sono contesa come iene fameliche.

       Con il passare degli anni presi a concepire la vita chiusa come in un cerchio, tracciato da Chi ha in mano il compasso della nostra esistenza. Presi a concepire la vita come una condanna capitale senza appello, come se vivere fosse un reato da pagare con la pena di morte, della cui esecuzione non si conosce né la data, né il modo. Perciò, il cosiddetto “male di vivere” è solo un supplemento di pena alla “fatal quiete”, anticipata a volte da qualcuno con il gesto insano di una “libera scelta”, ma strappata dalle mani del Padrone della vita, quando la speranza in un’altra – non più circolare ma rettilinea senza fine - viene a mancare. Quella speranza – fondata sulla teologia della sofferenza salvificante, sublimata e consacrata dal sacrificio della Croce - che un Uomo della “Galilea delle genti” è venuto a portare agli uomini, insegnando come superare “il male di vivere” e l’angoscia del difficile passo della morte. Speranza che, per grazia divina, diventa fede in una vita che continua “in un’altra dimensione”, come dice il cantautore Franco Battiato in alcune sue canzoni a sfondo esistenziale-religioso, senza però precisare che la nuova esistenza sarà nella Luce o nelle Tenebre eterne e che sta all’uomo – durante il “transito terrestre” – prendere la strada giusta (non la più dritta e piana), quella che porta alla Luce “senza fine né principio”.

Giuseppe Priale, 8 settembre 2024

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Macerie

Quando il cerchio della vita si avvicina alla sua chiusura, la vecchiaia inclina sempre più verso l'infanzia, fin quasi ad identificarsi in essa. Così il nonno, che tiene per mano il nipotino, sembra dar mano a se stesso, al bambino che era, al "fanciullino" interiore, che si fa sentire specialmente quando intorno i silenzi si fanno sempre più frequenti e i vuoti più numerosi. I ricordi infantili allora diventano parole, sentono il bisogno di venire alla luce del sole che volge al tramonto, quasi avessero paura di finire nel "nulla eterno". Si comportano un po' come quei fiumi carsici che gorgogliando tornano in superficie prima di annullarsi nell'immensità del mare. Sembrano farfalle che, liberate dallo spillo con il quale l'entomologo interiore le ha tenute per tanti anni prigioniere nella teca della memoria del cuore, riprendono vita e volano in cerchio come garrule rondini prima di partire per paesi lontani. Chiedo pertanto un po' d'indulgenza, se questo bambino, quasi ottuagenario, superata con difficoltà la barriera della riservatezza, sente il bisogno di staccare alcune tesserine dalla sua piccola storia infantile e cerca di inserirle nel mosaico della Grande Storia, quella che riguarda la Resistenza vissuta nell' Occitania della sua Alta Vall'Ellero, quella che gli è entrata in casa all'improvviso dopo l'8 settembre 1943.

E' risaputo che durante la Resistenza qualche illegalità è stata commessa; sicuramente però con l'attenuante dello stato di necessità. Erano quindi frequenti i furti di quadrupedi di varia grandezza, di pennuti specialmente. Erano praticati il bracconaggio, la manonera, cioè il commercio clandestino di prodotti soggetti al controllo statale (tipo sali e tabacchi). Così anche mio padre non pensava di fare cosa tanto illegale quando andava a pesca di frodo e a mani nude, spinto dalla necessità di sfamare una nidiata di quattro bambini dai due ai cinque anni di età. Ricordo che un giorno d'estate portò anche me a pescare in Ellero. Non so se ero io a voler sempre andare con lui quando usciva di casa per qualche incombenza o se era lui a volermi con sé come "salvacondotto", utile, se non vitale, durante il turbolento periodo della Resistenza, che a Prea aveva un'importante base operativa con i partigiani della 3^ e 5^ Divisione Alpi. Quel giorno, dopo vari e infruttuosi tentativi di pesca lungo le sponde bagnate dalle gelide acque del torrente, giungemmo ad un grande gorgo, nero da far paura per la profondità dell'acqua e per la folta vegetazione attorno, chiamato infatti, in occitano del Chié, Guřg Niřùn (dal lat. GURGUM NIGRUM). Ad un certo punto mi misi ad urlare vedendo mio padre scomparire nel punto più profondo dell'orrido gorgo. Mi calmai soltanto quando riemerse trionfante con un'enorme trota afferrata per le branchie che gli facevano sanguinare le mani. Una trota che in passato, nei discorsi dei pescatori a canna, era diventata leggendaria quanto il mostro del lago di Lochnes. Portata a casa con la coda che usciva fuori dallo zaino di tela grigia, naturalmente ricevette la visita di molti curiosi e, penso, anche di qualche invidioso. Come sia finita non ricordo. Molto probabilmente in padella come altre più modeste consorelle. Non finì sicuramente in un museo come fenomeno ittico dei nostri torrenti, immersa nella formalina dentro una vasca di vetro. Non ricordo l'odore della sua frittura, né il suo sapore, né gli apprezzamenti di rito nei suoi riguardi, né i complimenti a chi l'aveva pescata e a chi l'aveva cucinata. Mangiare di quella trota fu per me una cosa troppo normale per serbarne memoria. Ricordo invece molto bene il terrore da me provato al gorgo e il gesto di trionfo per la vittoria riportata su quel mostro acquatico da mio padre, considerato da me, da quel momento in poi, un uomo di grande coraggio, che però qualche mese dopo gli fu fatale.

Quello della trota gigante è uno dei tanti ricordi, legati a mio padre, che ho voluto tirar fuori dall'archivio segreto della memoria del cuore per rendere testimonianza del coraggio con cui mio padre scelse, fin da subito, di stare dalla parte della Resistenza e dei suoi valori. Di tanti ricordi, compresi fra il '43 e il '45, solo tre però hanno date ben precise. La prima è stata recuperata per me dal prof. Gian Mario Bologna dall'Archivio Storico della Resistenza di Cuneo; la seconda e la terza dai registri comunali dei decessi.

Risulta infatti che era il 9 dicembre 1944 quando noi bambini alle ore 12 , appena usciti dall'asilo, ci fermammo sul sagrato della chiesa ad ammirare estasiati uno spettacolo straordinario. Sul Pian della Tura, non ancora innevato, venivano giù dal cielo color cobalto, lentamente dondolando, giganteschi "bucaneve". Erano paracadute lanciati (per la prima volta in pieno giorno, dopo altri nove lanciati di notte durante tutto il '44) dagli Anglo-Americani per rifornire, di materiale bellico e di generi alimentari, i partigiani che operavano in Alta Vall'Ellero e Alta Val Maudagna. Mio padre proprio in quei giorni si era unito a loro per non finire un'altra volta al "palo" perché amico dei "ribelli", dei "banditen", ai quali era solito aggiustare le scarpe e permetteva loro di ascoltare Radio Londra all'apparecchio di casa. Ma già il 12 dicembre cadeva sulle montagne della Val Maudagna durante un conflitto a fuoco tra partigiani e nazifascisti esattamente 3 giorni dopo il lancio dei giganteschi "fiori bianchi", che sicuramente mio padre avrà visto, dall'altra valle, come doni mandati dalla Provvidenza ai partigiani combattenti, ma anche come onoranze, mandate dal Cielo, a quelli già caduti, resi giusti dal sacrificio compiuto in nome della divina Libertà. Ma purtroppo il mostro della guerra ebbe la meglio su mio padre, sebbene questa volta si fosse armate le mani per affrontarlo. Un mostro infernale che, dopo ogni conflitto, rimane sempre il solo vincitore, come il biblico Leviatano degli abissi marini. Infatti, uno dopo l'altro, i componenti della mia famiglia finirono tutti nelle fauci dell'insaziabile Molòc. Dopo mio padre, cadde il 2 settembre 1945 anche mia madre, colpita dal tiro incrociato di due "cecchini", due spietati fratellastri, Tifo e Paratifo, rimasti in paese a compiere le ultime rappresaglie di retroguardia di una guerra ormai conclusa. Ai quattro superstiti, simili a sbandati, non rimase che la "diaspora", quella però senza ritorno. Anche la casa , che sapeva ancora di calce e di vernice, chiuse gli occhi e rimase muta come una tomba. Nonna Margherita (già vedova a 29 anni della Prima Guerra Mondiale e con quattro figli, madre di mia madre e di quella di Giuseppe Basso, presidente e fondatore della nostra Associazione Nusèč dëř Chié) non ebbe più il coraggio di mettervi piede e neppure di guardarla. Tutte le volte che doveva passare sotto quelle finestre chiuse come gli occhi di una morta, chiudeva anche i suoi prima di abbassarli a terra per nascondere il pianto a coloro che incontrava. I quattro teneri virgulti, sradicati dal loro ceppo dal turbine della guerra, furono dispersi ai quattro venti. Mio fratello di sei anni andò a vivere con i nonni di Roccaforte; io di cinque con nonna Margherita di Prea; le due sorelline di tre e quattro anni finirono, non so per quale sciagurata decisione, in un orfanatrofio, dove rischiarono di morire di tristezza e di fame. Infatti le compagne più grandicelle sovente ghermivano dal loro piatto il cibo della misera mensa o rubavano dai loro armadietti le cibarie che i parenti portavano loro quando andavano a trovarle. Certe volte le poverine, spinte dalla fame, andavano nel pollaio a rubare a loro volta il granoturco alle galline, ma non le uova dai nidi, posti, per loro sfortuna, troppo in alto. La più giovane porta ancora evidenti sulla fronte i segni delle ferite di quando cadeva per debolezza dovuta alla denutrizione. Ecco le sofferenze che le mie sorelle hanno dovuto patire in quella "casa di pena", dove il pallore del loro viso veniva camuffato con una "pennellata" di rosa ottenuta con qualche energico buffetto sulle gote smunte prima di essere condotte alla presenza dei parenti in visita. In altre occasioni però erano schiaffi sonori a tingere di rosa le loro faccine: colpevoli, le poverette, di chissà quali gravi mancanze ( colpevoli, forse, ma senza attenuanti per lo stato di necessità, del furto di granoturco alle povere galline). Per fortuna, dopo due anni, arrivò anche per loro la liberazione, portata da due coppie di sposi senza figli che le adottarono, infliggendo però loro un'altra dolorosa separazione.

Queste sono le macerie del cuore, quelle che non si vedono, ma bruciano ancora sotto la cenere del tempo, né da esse può rinascere ciò che è andato distrutto. Dalle macerie materiali invece sono ancora rinate case, palazzi, grattacieli e chiese, come per esempio quella di Santa Maria Maggiore di Mondovì, anche se dopo 50 anni ed una gestazione di 10. Il caso volle che, all'età di cinque anni, io mi sia trovato davanti a quelle rovine sovrastate da una grande campana, rimasta in perfetta posizione di quiete come per proteggerle. Perché fossi a Mondovì e con chi, non saprei dire con sicurezza. A quell'età infatti percepivo solo la presenza di mio padre quando ero con lui, perché lui era il mio eroe che catturava i mostri, perché lui era il mio "S. Cristoforo", che per farmi superare lunghi tragitti, guadi o passi difficili, mi portava a cavalluccio come fanno tutti i padri con i loro figlioletti, magari anche solo per gioco. Ma io sulle sue spalle mi sentivo un gigante e incrociavo le gambette sotto il suo mento quando "la cavalcata" era finita e io dovevo scendere a terra. Quando poi sono stato "disarcionato" per sempre, mi è rimasto il complesso del nano, ossia la cronica sensazione di non essere all'altezza di superare gli immancabili passi difficili della vita.

Probabilmente, davanti alla chiesa distrutta, ero con nonno Giovanni, anche lui calzolaio, venuto a Mondovì a rifornirsi del materiale necessario alla sua professione presso un magazzino sito nelle vicinanze. In seguito venni a sapere che la parrocchiale di Pian della Valle era stata distrutta il 12 marzo 1945, per errore, da un bombardamento aereo tedesco, il cui vero obbiettivo era la chiesa di Santo Stefano, adibita dai partigiani a"santa barbara" e situata a poca distanza sulla stessa via. L'errore fu provvidenziale per Mondovì, che non ebbe a patire vittime e rovine maggiori con lo scoppio di quella impropria polveriera. Non ritengo quindi sconveniente paragonare la sua oblazione a quella del francescano San Massimiliano Maria Kolbe, che prese il posto di un padre di famiglia destinato a morire nel bunker della fame ad Auschwitz. La chiesa di S. Maria Maggiore, gemellata con l'omonima romana fin dai primi anni del '700, facendo dono di sé, non poteva farne uno più grande ai Monregalesi, né poteva perciò sparire per sempre dalla geografia della città, né dalla memoria dei suoi abitanti. Così nel 1994 rinasceva al Borgo Ferrone su un "terreno" nuovo, adatto ad essere " lavorato" per accogliere il seme della Parola, sparsa da mani docili allo Spirito del Buon Seminatore. Anche se la vecchia campana, orfana del suo campanile, è rimasta muta per sempre, l'eco dei suoi rintocchi d'un tempo tiene desta, più che mai, nel Borgo la fede nei suoi parrocchiani. Quella fede che apre il cuore alla carità e alla solidarietà, che rimuove le "macerie" morali per far rinascere l'uomo nuovo, che rafforza la volontà di partecipare alla vita e al decoro della parrocchia.

Legato al ricordo delle rovine della vecchia chiesa, è quello del viaggio di ritorno da Mondovì a Villanova, fatto la sera dello stesso giorno con il trenino a vapore. Ricordo che, ad un certo punto, la carrozza cominciò a dondolare e a cigolare paurosamente (finì di agitarsi nel 1953). Per giunta, si spense la luce, forse per un guasto, ma più probabilmente a causa del coprifuoco ancora in vigore. Ero terrorizzato, anche perché non avvertivo più la presenza di mio padre, di chi mi aveva dato sicurezza fino a pochi mesi prima. Senza più il mio "S. Cristoforo", per la prima volta mi sentii solo e perduto, tanto che, in seguito, una certa inquietudine esistenziale mi sarà sempre scomoda compagna.

Se il viaggio con la vecchia "caffettiera" l'ho fatto molto probabilmente prima del 25 aprile 1945, sicuramente alcuni giorni dopo, ricordo, a Prea arrivò una camionetta, da cui scesero dei soldati senza fucile, allegri e vocianti in una lingua incomprensibile. Erano completamente diversi dai truci tedeschi in divisa nera, che sapevano solo dire "raus, capùt" con il fucile spianato. I nuovi soldati invece ci sorridevano e ci porgevano caramelle rotonde, pezzi di cioccolata e pagnottelle bianchissime, che qualcuno diceva fossero fatte con farina di riso, delle quali ricordo ancora il gusto, ma non quello delle caramelle e del cioccolato. Quel giorno ebbi la sensazione che qualcosa era cambiato anche fuori di casa mia. Era finita la guerra. Era cambiata la vita anche di altre famiglie. Era finita la vita di molti giovani sui fronti lontani e sulle nostre montagne. Era finita la vita anche nei nostri casolari di montagna, nei nostri tèč (dal lat.TECTUM=tetto), dati tutti alle fiamme perché colpevoli di aver dato rifugio ai partigiani.

Nonna Margherita, con la quale ero andato a vivere dopo il 2 settembre '45, mi portò, forse nello stesso mese, a vedere cos'era rimasto del suo tèč di S.Grato. Era rimasto solo un mucchio di macerie infernali, annerite dalla combustione del fieno, delle foglie e della travatura del tetto. Ricordo che dall'alto di una trave, non divorata completamente dal fuoco, ci accolse, con un lungo e stentoreo chicchirichì, un superbo gallo rossiccio dalla coda fluente alla bersagliera. Sembrava volesse dire che finalmente poteva cantare in tutta libertà, che non aveva più paura di certi malintenzionati verso i pennuti (specie del suo rango) e che era felice di non essere finito arrostito nell'incendio del tèč. Da quel palco di travi annerite sembrava volesse annunciare al mondo intero che solo lui poteva cantare vittoria e che lui era ancora il re del suo pollaio, miracolosamente risparmiato dai lanciafiamme. Rimasta muta di fronte ai suoi miseri beni andati in fumo e indifferente al trionfante saluto interessato del gallo, la nonna, che tutti chiamavano Ghita d'San Gřatu, prima di tornare in paese sostò ancora alcuni minuti nella cappella eponima del suo casolare, anch'essa risparmiata dai messi infernali, forse per superstizioso rispetto al Santo vescovo d'Aosta (V se.), rappresentato sulla pala dell'altare in due momenti della sua vita consacrata: nel primo, come presbitero, mentre tiene alla catena il diavolo; nel secondo, come vescovo, mentre regge un vassoio con la testa del Battista, fatta mozzare da Erode e poi fatta gettare in un pozzo, da dove il Santo l'aveva recuperata e in esso aveva convogliato una furiosa grandinata.

Chissà se nonna Margherita, leggendo l'allegoria del dipinto, avrà ricevuto qualche briciola di conforto e di rassegnazione. Sicuramente, devota com'era, avrà invocato il suo Santo di dare un altro giro di catena al collo del principe del male, sempre pronto a scatenarsi per andare nel mondo a seminare zizzania, a fomentare l'odio nel cuore delle persone, specie in quello di certi uomini di potere con la mente inquinata da ambizioni smodate o da ideologie aberranti, nemiche giurate della pace e dell'umanità.

Giuseppe Priale, Ass. Nusèč dëř Chié di Prea – Roccaforte 

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Quella sera l'arma della pietà mise a tacere l'arma dell'odio

Sul far della sera di un giorno, credo, del tardo autunno del  1944, mio padre ed io, provenienti da Prea, giungemmo a casa dei nonni di Roccaforte per prelevare del materiale da calzolaio, fatto arrivare con la corriera. Il nonno, pure lui calzolaio, stava già sistemando gli scuri di legno alla porta-finestra della bottega che dava sulla strada, mentre la nonna metteva la tenda nera alla finestra della cucina. Infatti, di lì a poco sarebbe iniziato il coprifuoco: nessuna luce doveva provenire dalle case, né dalle strade. Alle persone non era permesso di circolare, se non a proprio rischio e pericolo.

Stipato il materiale nel capiente zaino di ruvida tela grigia, il nonno mi mise a catipule di mio padre, cioè sulle sue spalle già gravate dal carico, mentre la nonna riuscì ancora a cacciare, non so in quale anfratto dello zaino, una bottiglia di latte per i suoi quattro nipotini di età compresa tra i due ed i cinque anni. Quando ripartimmo alla volta di Prea, era ormai buio e i lampioni di Via Alpi erano spenti.

Di quei  tempi, forse, anche le stelle si oscuravano da sole coprendosi gli occhi con le mani per non vedere gli orrori di quella guerra, che, dopo l’8 settembre del ’43,  si era trasformata in civile, anzi era diventata incivile, fratricida a causa dell’odio, da sempre risorgente nell’animo umano, ereditato dai discendenti di Caino, concepito nella Colpa:

Penso che anche la mia mente sia rimasta oscurata dal buio di quella sera per quasi l’intero tragitto. Infatti, non ricordo i dialoghi avvenuti tra me e mio padre lungo la strada innevata di ghiaia che crocchiava sotto le sue scarpe chiodate. Non ricordo se una civetta ci abbia seguito con il suo grido malauguroso o se un gufo con il suo volo ovattato ci abbia tagliato il cammino inseguendo un pipistrello. Non ricordo se qualche fantasma, uscito dal buio, abbia attraversato la mia mente incapace ancora di percepire la realtà di quella guerra con tutte le sue devastazioni fisiche e morali, che solo in seguito ebbi modo di vedere e di capire. Quella sera nulla mi faceva paura: mi sentivo sicuro come il Bambino Gesù sulle spalle del gigante san Cristoforo (protettore dei viandanti), mentre attraversava il fiume impetuoso. (Chissà se mio padre avrà preso  anche lui un po’  di sicurezza da me!...)

Come si sa, la memoria infantile ricorda, a volte anche lucidamente, eventi  che hanno provocato  forti emozioni, come quelle da me provate poco prima di giungere in paese e poi a casa. Così, ricordo molto bene il rumore della bottiglia di latte andata in frantumi (per qualche mio maldestro movimento) sul selciato  sconnesso della Cařò (Discesa, ma dura salita, se fatta in senso contrario e con un carico sulle spalle), l’antica mulattiera che un tempo si usava come scorciatoia e che sbucava sulla vecchia carrozzabile nei pressi del pilone di Sant’Anna, dove i partigiani quella sera avevano allestito un posto di blocco. A quel rumore, la sentinella, messa in allarme, immediatamente intimò un “Alto là! Chi va là?” così imperioso, che ci arrivò addosso con l’effetto di una doppia fucilata, che riecheggia ancor oggi nella mia mente. Mio padre, alla richiesta della parola d’ordine, che non conosceva, ad alta voce (data la distanza) e non senza apprensione (dati i tempi), si qualificò con cognome, nome e professione. ( Fu in quell’occasione che sentii per la prima volta ed imparai il mio cognome e registrai per sempre nella mia mente il tono di voce usato da mio padre per farsi riconoscere). Fortuna volle che quei partigiani del blocco lo conoscessero, per essere di quelli che erano soliti venire a casa nostra a farsi aggiustare le scarpe e a sentire Radio Londra (Per questo, mio padre pagò una prima volta con la condanna al palo ed una seconda volta con la vita il 12-12-‘44).

Superato il posto di blocco senza conseguenze (forse era già anche scattata l’ora del coprifuoco), dopo poche centinaia di metri  arrivammo in paese. Davanti all’osteria Tripoli mio padre si fermò, perché dall’interno giungeva, frammisto ad un vociare alterato, un disperato pianto di donna. Invece di proseguire verso casa distante pochi passi (tanto il latte non serviva più per la cena), preso da curiosità, mi disarcionò (penso con grande suo sollievo fisico) ed entrò  nell’osteria con me (ritornato un turacciolo, una volta messo a terra), impaurito non solo per il trambusto che c’era all’interno, ma anche per aver perso quella posizione dominante che mi aveva dato una certa sicurezza fino a quel momento.

In mezzo ad una ressa di partigiani c’era una ragazza bruna, che, tenuta per i capelli e con una pistola puntata alla tempia, veniva sottoposta ad una raffica di domande , tra un digrignar di denti  e minacce di morte tutt’altro che velleitarie. La povera Natalina, come veniva  apostrofata da più parti, invece di rispondere (forse non sapeva cosa rispondere), implorava pietà  tra lacrime di disperazione. Per fortuna la brutale scena non finì in tragedia, perché, ad un certo punto, uno dei partigiani presenti, con l’autorità di un comandante, perentoriamente ordinò: “Capitano Poma, metta giù quell’arma”. Natalina, assolta inaspettatamente da quel “giudice” di tribunale partigiano improvvisato, spari nel buio della notte e per molti anni  spari anche dalla mia vista, ma non dalla mia mente.

Forse quella notte le stelle avranno gioito, abbassando le mani dagli  occhi oscurati, per guardare, riconoscenti, quel comandante pietoso, che non si era lasciato accecare dall’odio ideologico e politico sparso a piene mani dal “principe (non Re) di questo mondo”, altrimenti detto (meno eufemisticamente)diavolo, che dal punto di vista etimologico significa “colui che vuole la divisione”: tra le persone, tra le famiglie e nelle famiglie, tra le religioni e nelle religioni;  colui che vuole la guerra  tra le nazioni e nelle nazioni, com’ è avvenuto non solo in Italia tra il  ’43 e il ’45, ma ancor oggi  avviene  in molte parti della Terra, quando “ la Luce del mondo” è oscurata(non spenta) dal  “principe delle tenebre”, quando il buon campo di grano è guastato dal seminatore di zizzania durante la notte e la Verità è offuscata dal “padre della menzogna”.

Molti anni dopo venni a sapere che, all’epoca dei fatti, Natalina aveva 24 anni , che era di Norea, che era stata sospettata di essere una spia, molto probabilmente per il solo fatto di essere la morosa di un repubblichino, con il quale in seguito si sposò (Per fortuna esiste anche l’amore, che non conosce bandiere e supera barriere, l’amore che unisce, crea, comprende, giustifica, porta la concordia e la pace, che invece si vuole sempre raggiungere stoltamente con la guerra). Se poi Natalina scelse di vivere lontano dalla  sua terra gran parte della sua esistenza, forse lo ha fatto anche per cancellare dalla memoria della gente l’infamante etichetta di spia, sicuramente ingiusta, che la guerra partigiana le aveva cucito addosso.

Da quella sera il viso terrorizzato della ragazza bruna, che implorava pietà tra le lacrime, rimase così impresso nella mia mente, che lo riconobbi ancora, dopo 58 anni, in quello di una vecchietta canuta ultra ottantenne, che aveva partecipato con la nostra associazione Nužè č dëř  chié ad una gita in Valle d’Aosta. Il mio primo impulso fu quello di riesumare con lei quel passato. Ma poi , una sorta di rispetto per la sua privacy e la “parola d’ordine” a me ignota, mi sconsigliarono di superare quel blocco psicologico che Natalina probabilmente aveva posto a difesa di quel brutto ricordo. Allora lasciai che il nero velo della riservatezza rimanesse abbassato sulla finestra della sua memoria, per tenere ancora oscurata l’immagine di quella drammatica sera del 1944 nell’osteria Tripoli, dove fu presente anche un ignaro e spaurito bambino di 4 anni, forse unico testimone, rimasto in vita, di quella brutta avventura , in cui, per fortuna, l’arma della pietà di un comandante partigiano, dal nome a me rimasto sconosciuto, mise a tacere l’arma dell’odio, brandita da un capitano dell’esercito italiano allo sbando dopo l’8 settembre del ’43.

 Da un nipote seppi ancora che Natalina, ormai  vedova e senza figli, era ritornata a vivere a Norea, in attesa di ricongiungersi al suo Alfredo, da lei fatto tumulare al cimitero di Prea, da dove fuggì terrorizzata una sera del  ’44 e dove ritornò, definitivamente e pacificata per sempre, sessant’anni dopo.

Giuseppe Priale

Associazione “ Nusèč dëř Chiè “  di Prea Roccaforte

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