Il ritorno (politico) al centro

Chi ha voglia di non fermarsi alla superficie delle cose, di non accontentarsi dei ragionamenti sul cui prodest, su quelli che, qui e ora, hanno vinto e su quelli che hanno perduto, può rendersi conto del fatto che la sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato inammissibile il referendum leghista sulla legge elettorale chiude definitivamente un’epoca. D’ora in poi non sarà più possibile, per chissà quante generazioni, immaginare cambiamenti sostanziali della «costituzione materiale» della Repubblica nata alla fine della Seconda guerra mondiale.

C’è un nesso strettissimo fra la sentenza e il risultato del referendum costituzionale del 2016. Allora, una maggioranza schiacciante decise che la democrazia acefala (con governi deboli, ricattabili e per lo più di brevissima durata), ossia il regime assembleare — che è una variante del parlamentarismo — scelto dai costituenti dopo la Liberazione, era esattamente ciò che gli italiani volevano conservare. La sentenza della Corte prelude al ritorno della proporzionale pura. In effetti, una democrazia assembleare, una democrazia acefala, «chiama» la proporzionale. Nel senso che la legge elettorale proporzionale è la più adatta per un simile assetto costituzionale.

Ripeto ciò che sia io che altri abbiamo detto tante volte ma che, stando a quanto si continua a leggere, pare sia cosa assai complicata. Il movimento che volle la legge elettorale maggioritaria e che si formò fra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta non pensava affatto che bastasse cambiare la legge elettorale (dal proporzionale al maggioritario) per avere una democrazia rappresentativa ben funzionante. Pensava (sperava) che il cambiamento della legge elettorale obbligasse la classe politica a riformare la Costituzione del 1948. Occorreva — pensavano i protagonisti di quel movimento — una «democrazia maggioritaria». Ma una tale democrazia non lo è solo in virtù della presenza di una legge elettorale maggioritaria. Necessita anche di un assetto costituzionale coerente, necessita soprattutto di governi istituzionalmente forti, il contrario della democrazia acefala. Le cose "ndarono diversamente. I tentativi di cambiare la Costituzione fallirono uno dopo l’altro. E il riflusso portò col tempo a una serie di riforme del sistema elettorale che ne indebolirono progressivamente la componente maggioritaria. Chi si limita a dire che qui da noi l’esperimento maggioritario «non ha funzionato» non coglie il punto. In primo luogo, sottovaluta il fatto che proprio grazie alla legge maggioritaria l’italia ha conosciuto, per un breve periodo, l’alternanza al governo fra coalizioni contrapposte. Il contrario di quella logica trasformista che ha consentito il passaggio dal Conte 1 al Conte 2 e che, certamente, sarà l’unica vera «regola del gioco» nella formazione dei governi per i decenni a venire. Ciò che invece «non ha funzionato» è che l’esperimento maggioritario riguardò solo il metodo di votazione, non venne accompagnato da una coerente riforma della Costituzione. Continuo a pensare che le (compiute) democrazie maggioritarie, essendo democrazie governanti (con governi Chance Ma le democrazie maggioritarie hanno più possibilità di stabilità e di buon governo forti), abbiano più chance di stabilità e di buon governo rispetto alle democrazie assembleari e acefale. Certo, di tanto in tanto può benissimo vincere un Trump. Ma nel lungo periodo, la democrazia maggioritaria favorisce moderazione e convergenza al centro. Per inciso, se i democratici americani fossero capaci di scegliere un credibile candidato centrista potrebbero battere — forse senza troppe difficoltà — il presidente uscente. Ma poiché il tema della democrazia maggioritaria non riguarda più l’italia, tanto vale smettere di occuparsene. Adesso bisogna cercare di cavarsela con ciò che c’è, con ciò che passa il convento. Ci piaccia o non ci piaccia. E allora bisogna dire che una democrazia acefala è una democrazia a rischio e solo la nascita di una formazione politica «centrista», elettoralmente consistente, può stabilizzarla. Ma — si domanderà qualcuno— perché a rischio? Non è forse la stessa democrazia che dura dal 1948? Sì, ma le condizioni sono cambiate. Non ci sono più. La lezione del passato La storia italiana del XX secolo ci ricorda che chi è inamovibile finisce per mal governare i grandi partiti di un tempo, con un fortissimo radicamento sociale, a compensare le debolezze del nostro regime costituzionale. Soprattutto, non ci sono più i potenti sostegni internazionali di cui la democrazia italiana ha per tanto tempo goduto. Siamo entrati in acque turbolentissime (si pensi, ad esempio, ai pericoli connessi alla situazione libica) e la democrazia acefala è una fragile barchetta, non un bastimento solido in grado di fronteggiare le tempeste. Per fortuna — checché ne dicano i professionisti dell’allarme democratico — non è ancora apparso nessuno all’orizzonte che, anziché limitarsi a fare battute più o meno autolesioniste sui «pieni poteri», riesca a prenderseli senza nemmeno fiatare. Il tutto per di"e che se la democrazia acefala, con tanto di proporzionale pura, è ciò che passa il convento, allora le serve un partito di centro con forte seguito elettorale. Non è garantito che possa emergere e affermarsi. Inoltre, bisogna ricordare che si tratterebbe solo di fare di necessità virtù. Perché una formazione di centro ha, necessariamente, le sue magagne. Essa è, per definizione, il prezzemolo, indispensabile in qualunque combinazione di governo. Un partito centrista di un qualche peso cambierebbe alleanze di governo (magari anche più di una volta) nel corso di una stessa legislatura sulla base delle sue momentanee convenienze. Darebbe alla democrazia acefala il baricentro che le serve per durare ma al tempo stesso sarebbe il ricettacolo e il motore di ogni trasformismo parlamentare. Un partito di centro sarebbe «condannato» (sic) ad essere sempre al governo insieme a questo o a quello. La storia italiana del XX secolo ci ricorda che chi è inamovibile, chi è sempre al governo, finisce, nel lungo periodo, per mal governare. La sentenza della Corte è l’ultimo atto. Il menu prevede una sola minestra.

Angelo Panebianco – Corriere della Sera – 18 gennaio 2020

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Sindrome siriana in Libia

Se non credessimo che la storia pregressa condizioni il presente, potremmo dire «finalmente, meglio tardi che mai» di fronte all’incontro di pochi giorni fa tra Conte, Merkel e Macron sulla situazione libica. La Libia pone un problema urgente e grave di sicurezza per l’Europa. Parrebbero buone notizie sia la fine delle rivalità che fino a ieri hanno diviso Italia e Francia sia la decisione di Italia, Francia e Germania (a cui presto dovrebbe aggiungersi la Gran Bretagna) di coordinare gli sforzi per favorire una soluzione negoziata che pacifichi e mantenga unito il Paese africano. Ma le apparenze ingannano, la storia passata pesa e spazio per l’ottimismo ce n’è poco. Né per ciò che riguarda il futuro della Libia né per ciò che riguarda (anche al di là del caso libico) la capacità dei governi europei di coordinarsi efficacemente per fronteggiare le crescenti minacce alla sicurezza del vecchio continente.

L’incontro fra le principali (im)potenze europee è il segno della loro debolezza. Russi e turchi ci stanno «scippando» la Libia: non solo a noi europei ma anche agli americani, primi responsabili, a causa della loro latitanza strategica, di quanto è già avvenuto in Siria e di quanto si sta replicando in Libia. Ciascuno è schierato dietro il proprio cliente locale (il signore della guerra, generale Haftar, è sostenuto dai russi, e il capo di governo di Tripoli, al-Sarraj è appoggiato dai turchi).

Ammesso che sia improbabile, come sostengono gli esperti, che Haftar conquisti Tripoli e il resto del Paese con le armi, restano solo due possibilità: o la guerra civile continuerà ancora a lungo, magari per anni, oppure russi e turchi troveranno un accordo anche sulla Libia (come già sulla Siria) favorendo una soluzione negoziata che metta termine alla guerra civile e che possa soddisfare gli interessi degli uni e degli altri (magari anche con qualche vantaggio per altri Paesi coinvolti, dall’Egitto al Qatar). Nell’uno come nell’altro caso saranno guai per l’Europa. Nella prima eventualità la Libia resterà una porta spalancata a disposizione di trafficanti di esseri umani e di terroristi decisi a colpire i Paesi europei. In caso di soluzione negoziata fra turchi e russi, il controllo su cruciali risorse energetiche nonché il potere di usare i rischi di destabilizzazione dei Paesi europei per ricattarli saranno nelle mani di potenze ostili all’Europa. Non è tale solo la Russia. Lo è anche la Turchia nonostante l’ipocrita tentativo occidentale di fingere che sia ancora un Paese membro della Nato uguale a tutti gli altri.

Proprio perché la storia passata pesa, quando si parla di Europa l’attenzione si concentra sempre sui problemi della governance economicofinanziaria e sulle questioni commerciali. Cose importantissime, certamente, sulle quali, peraltro, le divisioni sono oggi in Europa assai forti. Gioca però anche un riflesso antico. C’è stato un tempo in cui l’Europa poteva essere solo «Europa economica» (gli aspetti politici e di sicurezza erano delegati agli Stati Uniti). Il mondo è radicalmente cambiato ma a giudicare da certi summit europei sembra che leader e opinioni pubbliche non se ne siano accorti. Le questioni della sicurezza dovrebbero essere ora il principale assillo dell’Europa, il primo punto all’ordine del giorno in tutti gli incontri nelle sedi europee. Ma gli europei non sono riusciti a trovare una posizione comune nemmeno sulla questione dei foreign fighters (i combattenti islamici di ritorno, molti dei quali pronti a fare scorrere il sangue in Europa). Anche la vicenda Brexit non dovrebbe essere considerata solo per le sue conseguenze economico-finanziarie e commerciali. Il fatto che la prima potenza militare europea (insieme alla Francia) se ne vada dall’Unione certo non le impedirà di collaborare con gli altri europei in materia di sicurezza. Però rende evidente la futilità, non dico di allestire, ma ormai anche solo di ipotizzare, piani per una futura difesa europea. Piani che erano comunque deboli già prima di Brexit: le opinioni pubbliche erano e sono indisponibili a pagare il tanto che dovrebbero pagare per tutelarsi contro le minacce. Brexit ha solo chiuso il discorso.

Che fare allora? Gli europei, grazie alla lunga pace di cui godono dal 1945, sembrano pensare che questa sia una condizione naturale, non revocabile, della vita sociale e politica. Immemori della storia pensano che pace e sicurezza — da cui dipendono la libertà, la democrazia, il benessere economico — siano beni acquisiti per sempre. Questa mancanza di realismo contribuisce a spiegare perché gli europei non possano fare a meno dell’alleanza atlantica. Se saranno gli americani a sancirne definitivamente l’irrilevanza, gli europei si troveranno nudi, inermi.

Nel frattempo, i vecchi tic politici sono duri a morire. Il presidente francese Macron dichiara la «morte celebrale» della Nato non solo per scuotere dal torpore americani ed europei ma anche per richiamare implicitamente, a beneficio dell’opinione pubblica francese, l’antica polemica gollista contro l’alleanza atlantica. Dimenticando che in età bipolare, dominata dalle due superpotenze, il generale de Gaulle poté permettersi il lusso di recitare la parte dell’eretico all’interno del sistema occidentale solo perché quel sistema era forte e vitale, non in coma come oggi. Il neo-gollismo non ha più senso.

Chi non ha la forza né la volontà di decidere il proprio destino diventa preda degli appetiti altrui. Già oggi si può constatare, e verosimilmente sarà ancora di più così in futuro, quanto siano disponibili vari Paesi europei a impegnarsi, separatamente, in giri di valzer con i russi o con i cinesi. Facendo finta di non sapere che i prezzi che si pagano nello stabilire rapporti privilegiati con potenze autoritarie diventano, nel lungo periodo, assai alti.

Russi e turchi si prendono la Libia, minacce terroriste incombono, predatori affamati circondano la debole Europa. Gli europei più consapevoli dei pericoli si chiedono se i cittadini americani, nelle prossime elezioni presidenziali, premieranno chi pensa che il legame con l’Europa sia nell’interesse degli Stati uniti oppure chi ritiene che sia tempo di abbandonare il vecchio continente al suo destino. In ogni caso, plausibilmente, le decisioni che più contano non le prenderanno gli europei.

Angelo Panebianco – Corriere della Sera – 16 dicembre 2019

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L’illusione di essere sovrani

I movimenti neo nazionalisti (detti sovranisti) europei non sono tutti uguali. Lasciando da parte il caso di quelli dei Paesi ex comunisti (che hanno speciali caratteristiche), si può però dire che i neo nazionalisti europeo-occidentali debbano tutti fare i conti con un dilemma: come rispettare le promesse elettorali senza portare i rispettivi Paesi alla rovina? I loro successi dipendono dal fatto che promettono soluzioni per problemi dei quali gli establishment hanno a lungo negato l’esistenza. Rispondono a domande di protezione, promettono di porre fine a diffuse paure. Molti elettori apprezzano chi fornisce loro un capro espiatorio (la globalizzazione, l’Europa, la Germania) a cui imputare i disagi economici presenti o che promette di metterli al riparo dagli effetti di migrazioni senza corrispondenti integrazioni. Elettori che sommando insicurezza economica, disagio per gli accelerati cambiamenti del paesaggio culturale dovuti all’immigrazione, e qualche volta anche insicurezza fisica, rispondono entusiasticamente a chi offre loro politiche antimigranti. Per inciso, è falso che queste paure siano artificialmente create dai suddetti movimenti. Quasi mai i politici creano qualcosa. È però vero che quelle paure vengono amplificate. Del resto, la politica è anche questo: cavalcare paure (di ogni tipo) è parte integrante di ciò che hanno sempre fatto i politici di tutte le tendenze.

Il problema però è che la risposta neo-nazionalista a queste paure è un’ offerta di «autarchia» (ciò che i neo-nazionalisti chiamano «recupero della sovranità nazionale») che funziona come richiamo elettorale quando essi sono all’opposizione ma che perde credibilità quando vanno al governo. Perché a quel punto devono fare i conti con la dura realtà. La realtà è che gli stati nazionali europei «non hanno più il fisico», non hanno le risorse per dedicarsi a baldorie sovraniste. E difatti il neonazionalista parla di recuperare la sovranità nazionale (contro l’Europa ) ma è disponibile a fare del proprio Paese un satellite della Russia. Una volta giunti al governo, inoltre, i neo-nazionalisti scoprono che non possono sbarazzarsi dei vincoli europei. Ciò diventa oggetto di recriminazione ideologica: nella versione illiberale della democrazia propria di questi movimenti, nulla deve ostacolare la «sovranità popolare» il volere del «popolo» (il quale, naturalmente, non esiste: è un’astrazione che sta a indicare un’occasionale maggioranza relativa di elettori) . Se il suddetto popolo si è espresso votando i neo-nazionalisti, qualunque ostacolo alla sua volontà è un’ intollerabile cospirazione anti-democratica ordita da poteri forti: di questi tempi, la classe dirigente tedesca è, fuori dalla Germania, il più gettonato fra i poteri forti che tramano e cospirano. Consideriamo il caso della Lega e osservi"mo il modo in cui ha fin qui collegato la costruzione del consenso interno e i rapporti con il mondo esterno all’Italia. Preciso che non mi occupo di altri aspetti (ad esempio, la questione delle tasse ) che pure contribuiscono a spiegare i suoi successi. La variante salviniana del neo-nazionalismo ha mostrato di avere un punto di forza e due punti di debolezza. Il punto di forza riguarda le posizioni di Salvini sull’immigrazione. Riscuote grandi consensi. È aiutato in ciò dai suoi oppositori: non solo gli oppositori politici ma anche una parte della Chiesa cattolica e degli apparati amministrativi e giudiziari. Anziché elaborare una politica dell’immigrazione diversa da quella di Salvini ma in grado di dare una risposta alle paure degli elettori che guardano a lui, i suddetti oppositori sembrano solo capaci di balbettare «accoglienza, accoglienza»: come se il Vangelo, anziché essere, per chi ci crede, il nutrimento spirituale in grado di avvicinare gli uomini a Dio e tra di loro, fosse riducibile a un testo legislativo sull’immigrazione (per giunta monco e parziale: preoccupato di tutelare quelli che arrivano e indifferente a coloro che dovrebbero accoglierli). Con oppositori così, almeno fin quando si tratta di competizione elettorale, Salvini è in una botte di ferro (anche se poi, se e quando tornerà al governo, dovrà di nuovo fronteggiare le difficoltà che ha già incontrato la sua politica dell’immigrazione). Se l’immigrazione è un punto di forza, i punti di debolezza riguardano i rapporti con l’Europa e con la Russia. Date le sue evidenti capacità non è possibile che Salvini non abbia capito che, senza cambiamenti radicali, la sua eventuale futura azione di governo si scontrerà con difficoltà e opposizioni fortissime. Non sarebbero pochi a contrastare la svolta illiberale del Paese connessa a un allentamento dei rapporti con l’Europa e a un rafforzamento di quelli con la Russia: se Salvini continuerà, come una volta dichiarò , a sentirsi più «a casa sua» a Mosca che a Bruxelles noi saremo sicuramente nei guai ma forse nei guai ci finirà anche lui. Salvini ha certamente capito che la vera ragione per cui è nato il governo Conte 2 è dovuto al fatto che i 5 Stelle andarono a Canossa (e lui no): votarono nel Parlamento europeo a favore del nuovo Presidente della Commissione. Sembra avere capito che le velleità antieuro degli sfasciacarrozze che un tempo tanto apprezzava non possono portarlo da nessuna parte. Per inciso, dato che la politica è fatta da uomini e donne in carne ed ossa, sarebbe rassicurante per tutti se Salvini, comprendendo che il solito bravo Giancarlo Giorgetti da solo non basta, si circondasse di collaboratori, per esempio economisti, non pregiudizialmente antieuropei, impegnati a cambiare ciò che non va nell’Unione ma tenendosi alla larga da quelli che vogliono distruggerla. Alcuni indizi, qua e là, hanno fatto pensare che Salvini fosse pronto a cambiare gioco. Altri indizi però dicono cose diverse. Perché Salvini, ad esempio, si congratula con Vox, il movimento di estrema destra spagnolo, per il successo elettorale? Ciò fa sospettare che egli non abbia imparato la lezione, che sia pronto a riproporre quella politica antieuropea che ha danneggiato il Paese all’epoca del primo governo Conte. Ci sono nodi, insomma, che Salvini non ha ancora sciolto. Se non lo farà, forse vincerà comunque le prossime elezioni. Ma saranno guai per tutti. Il motivo è chiaro: è l’impossibilità di essere sovranisti.

Angelo Panebianco – Corriere della Sera – 19 novembre 2019

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