La sfida tra potenze su Tripoli

La guerra civile libica è diventata un conflitto per procura fra potenze straniere che investe gli interessi nazionali dell'Italia perché chi controlla Tripoli ha in mano i rubinetti delle rotte dell'energia, dei migranti e del terrorismo che attraversano la Penisola.
Se l'accordo di Istanbul sul cessate il fuoco in Libia fra il presidente russo Vladimir Putin e quello turco Recep Tayyp Erdogan - rispettivamente alleati militari del generale Khalifa Haftar e del premier Feyez al-Sarraj - ha reso evidente il desiderio di Mosca e Ankara di insediarsi da protagonisti nel Mediterraneo centrale, snodo strategico fra Europa e Africa, quanto sta avvenendo nelle operazioni belliche sul terreno descrive uno scenario assai più dettagliato. Ecco di che cosa si tratta.
Le milizie di al-Sarraj possono contare su armi e militari della Turchia mentre sul fronte opposto i maggiori contributi bellici alle forze di Haftar arrivano da Emirati Arabi Uniti ed Egitto. Ciò significa che l'arrivo di soldati turchi in Tripolitania assieme alla presenza di contingenti egiziani in Cirenaica trasforma la Libia nel primo fronte terrestre di scontro armato fra i due schieramenti in lotta per la leadership dell'Islam sunnita: da un lato Turchia-Qatar, dall'altro Emirati-Egitto-Arabia Saudita.
È uno scontro non solo di potere ma soprattutto religioso perché si contrappongono visioni concorrenti dell'Islam sunnita: per Ankara e Doha la Fratellanza musulmana è la più pura espressione dell'Islam politico mentre per Riad-Cairo-Abu Dhabi si tratta di «pericolosi terroristi» il cui intento è «distruggere gli Stati nazionali arabi» per «restituire il potere agli Ottomani».
Questo spiega perché le forze di Haftar hanno esitato fino all'ultimo davanti al cessate il fuoco di Istanbul: Mosca gli chiede di rispettarlo per arrivare ad una divisione della Libia in sfere di influenza con Ankara ma Emirati, Egitto e Arabia Saudita vogliono che vada avanti, occupi Tripoli e sbaragli Sarraj per impedire sul nascere alla Tripolitania di tornare ad essere quanto era fino al 1911: un protettorato ottomano in Nordafrica. I tre leader sunniti alleati Abdel Fattah al-Sisi, Sheik Mohammed e Mohammed bin Salman non vogliono alcun compromesso con Erdogan: né in Libia né altrove.
Ma non è tutto perché il patto militare e marittimo firmato in novembre da Sarraj con Erdogan ha creato una continuità fra acque territoriali libiche e turche che divide in due il Mediterraneo nuocendo ai progetti di sviluppo energetico che accomunano Grecia, Cipro, Israele ed Egitto. Se a ciò aggiungiamo che la Francia sostiene Haftar - da cui punta ad ottenere il controllo della regione meridionale del Fezzan per tutelare i propri interessi in Sahel - ed anche gli Stati Uniti lo preferiscono a Sarraj in chiave anti-terrorismo jihadista - come il recente incontro a Roma fra il generale libico ed un'alta delegazione Usa ha confermato - non è difficile arrivare alla conclusione che Haftar ha alle spalle una sorta di grande coalizione internazionale mentre Sarraj ha solo Erdogan, seppur con il sostegno del facoltoso Qatar. L'Italia, sostenitrice di Sarraj quale unico premier riconosciuto dalla comunità internazionale, ha avuto più occasioni per schierarsi con Haftar ma non lo ha mai fatto. Neanche pochi giorni fa al Cairo quando il ministro degli Esteri Luigi Di Maio non ha firmato con i colleghi di Francia, Egitto, Cipro e Grecia il documento in cui si dichiarava «vuoto e nullo» il patto marittimo-energetico fra Sarraj ed Erdogan.
Il risultato è un isolamento dell'Italia sulla Libia da cui il governo tenta ora di uscire con la scelta del governo - illustrata nell'intervista a Di Maio che pubblichiamo oggi - di sostenere l'invio di una forza di pace europea a Tripoli, con l'avallo dei libici, sul modello di quanto fatto dall'Onu con il contingente «Unifil» nel Sud Libano lungo il confine israelo-libanese. In attesa di sapere quali partner Ue accetteranno di condividere l'iniziativa italiana possono esserci pochi dubbi sul fatto che il risiko di potenze fra Tripoli e Bengasi si sta dimostrando il più difficile test per la difesa dei nostri interessi nazionali da quando, nel 1999, il governo di Massimo D'Alema decise di aderire all'intervento militare della Nato contro la Federazione jugoslava di Slobodan Milosevic per porre fine alla repressione in Kosovo, ponendo le premesse per una nuova stabilità nei Balcani.

Maurizio Molinari – La Stampa – 12 gennaio 2020

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