Quella sera l'arma della pietà mise a tacere l'arma dell'odio

Sul far della sera di un giorno, credo, del tardo autunno del  1944, mio padre ed io, provenienti da Prea, giungemmo a casa dei nonni di Roccaforte per prelevare del materiale da calzolaio, fatto arrivare con la corriera. Il nonno, pure lui calzolaio, stava già sistemando gli scuri di legno alla porta-finestra della bottega che dava sulla strada, mentre la nonna metteva la tenda nera alla finestra della cucina. Infatti, di lì a poco sarebbe iniziato il coprifuoco: nessuna luce doveva provenire dalle case, né dalle strade. Alle persone non era permesso di circolare, se non a proprio rischio e pericolo.

Stipato il materiale nel capiente zaino di ruvida tela grigia, il nonno mi mise a catipule di mio padre, cioè sulle sue spalle già gravate dal carico, mentre la nonna riuscì ancora a cacciare, non so in quale anfratto dello zaino, una bottiglia di latte per i suoi quattro nipotini di età compresa tra i due ed i cinque anni. Quando ripartimmo alla volta di Prea, era ormai buio e i lampioni di Via Alpi erano spenti.

Di quei  tempi, forse, anche le stelle si oscuravano da sole coprendosi gli occhi con le mani per non vedere gli orrori di quella guerra, che, dopo l’8 settembre del ’43,  si era trasformata in civile, anzi era diventata incivile, fratricida a causa dell’odio, da sempre risorgente nell’animo umano, ereditato dai discendenti di Caino, concepito nella Colpa:

Penso che anche la mia mente sia rimasta oscurata dal buio di quella sera per quasi l’intero tragitto. Infatti, non ricordo i dialoghi avvenuti tra me e mio padre lungo la strada innevata di ghiaia che crocchiava sotto le sue scarpe chiodate. Non ricordo se una civetta ci abbia seguito con il suo grido malauguroso o se un gufo con il suo volo ovattato ci abbia tagliato il cammino inseguendo un pipistrello. Non ricordo se qualche fantasma, uscito dal buio, abbia attraversato la mia mente incapace ancora di percepire la realtà di quella guerra con tutte le sue devastazioni fisiche e morali, che solo in seguito ebbi modo di vedere e di capire. Quella sera nulla mi faceva paura: mi sentivo sicuro come il Bambino Gesù sulle spalle del gigante san Cristoforo (protettore dei viandanti), mentre attraversava il fiume impetuoso. (Chissà se mio padre avrà preso  anche lui un po’  di sicurezza da me!...)

Come si sa, la memoria infantile ricorda, a volte anche lucidamente, eventi  che hanno provocato  forti emozioni, come quelle da me provate poco prima di giungere in paese e poi a casa. Così, ricordo molto bene il rumore della bottiglia di latte andata in frantumi (per qualche mio maldestro movimento) sul selciato  sconnesso della Cařò (Discesa, ma dura salita, se fatta in senso contrario e con un carico sulle spalle), l’antica mulattiera che un tempo si usava come scorciatoia e che sbucava sulla vecchia carrozzabile nei pressi del pilone di Sant’Anna, dove i partigiani quella sera avevano allestito un posto di blocco. A quel rumore, la sentinella, messa in allarme, immediatamente intimò un “Alto là! Chi va là?” così imperioso, che ci arrivò addosso con l’effetto di una doppia fucilata, che riecheggia ancor oggi nella mia mente. Mio padre, alla richiesta della parola d’ordine, che non conosceva, ad alta voce (data la distanza) e non senza apprensione (dati i tempi), si qualificò con cognome, nome e professione. ( Fu in quell’occasione che sentii per la prima volta ed imparai il mio cognome e registrai per sempre nella mia mente il tono di voce usato da mio padre per farsi riconoscere). Fortuna volle che quei partigiani del blocco lo conoscessero, per essere di quelli che erano soliti venire a casa nostra a farsi aggiustare le scarpe e a sentire Radio Londra (Per questo, mio padre pagò una prima volta con la condanna al palo ed una seconda volta con la vita il 12-12-‘44).

Superato il posto di blocco senza conseguenze (forse era già anche scattata l’ora del coprifuoco), dopo poche centinaia di metri  arrivammo in paese. Davanti all’osteria Tripoli mio padre si fermò, perché dall’interno giungeva, frammisto ad un vociare alterato, un disperato pianto di donna. Invece di proseguire verso casa distante pochi passi (tanto il latte non serviva più per la cena), preso da curiosità, mi disarcionò (penso con grande suo sollievo fisico) ed entrò  nell’osteria con me (ritornato un turacciolo, una volta messo a terra), impaurito non solo per il trambusto che c’era all’interno, ma anche per aver perso quella posizione dominante che mi aveva dato una certa sicurezza fino a quel momento.

In mezzo ad una ressa di partigiani c’era una ragazza bruna, che, tenuta per i capelli e con una pistola puntata alla tempia, veniva sottoposta ad una raffica di domande , tra un digrignar di denti  e minacce di morte tutt’altro che velleitarie. La povera Natalina, come veniva  apostrofata da più parti, invece di rispondere (forse non sapeva cosa rispondere), implorava pietà  tra lacrime di disperazione. Per fortuna la brutale scena non finì in tragedia, perché, ad un certo punto, uno dei partigiani presenti, con l’autorità di un comandante, perentoriamente ordinò: “Capitano Poma, metta giù quell’arma”. Natalina, assolta inaspettatamente da quel “giudice” di tribunale partigiano improvvisato, spari nel buio della notte e per molti anni  spari anche dalla mia vista, ma non dalla mia mente.

Forse quella notte le stelle avranno gioito, abbassando le mani dagli  occhi oscurati, per guardare, riconoscenti, quel comandante pietoso, che non si era lasciato accecare dall’odio ideologico e politico sparso a piene mani dal “principe (non Re) di questo mondo”, altrimenti detto (meno eufemisticamente)diavolo, che dal punto di vista etimologico significa “colui che vuole la divisione”: tra le persone, tra le famiglie e nelle famiglie, tra le religioni e nelle religioni;  colui che vuole la guerra  tra le nazioni e nelle nazioni, com’ è avvenuto non solo in Italia tra il  ’43 e il ’45, ma ancor oggi  avviene  in molte parti della Terra, quando “ la Luce del mondo” è oscurata(non spenta) dal  “principe delle tenebre”, quando il buon campo di grano è guastato dal seminatore di zizzania durante la notte e la Verità è offuscata dal “padre della menzogna”.

Molti anni dopo venni a sapere che, all’epoca dei fatti, Natalina aveva 24 anni , che era di Norea, che era stata sospettata di essere una spia, molto probabilmente per il solo fatto di essere la morosa di un repubblichino, con il quale in seguito si sposò (Per fortuna esiste anche l’amore, che non conosce bandiere e supera barriere, l’amore che unisce, crea, comprende, giustifica, porta la concordia e la pace, che invece si vuole sempre raggiungere stoltamente con la guerra). Se poi Natalina scelse di vivere lontano dalla  sua terra gran parte della sua esistenza, forse lo ha fatto anche per cancellare dalla memoria della gente l’infamante etichetta di spia, sicuramente ingiusta, che la guerra partigiana le aveva cucito addosso.

Da quella sera il viso terrorizzato della ragazza bruna, che implorava pietà tra le lacrime, rimase così impresso nella mia mente, che lo riconobbi ancora, dopo 58 anni, in quello di una vecchietta canuta ultra ottantenne, che aveva partecipato con la nostra associazione Nužè č dëř  chié ad una gita in Valle d’Aosta. Il mio primo impulso fu quello di riesumare con lei quel passato. Ma poi , una sorta di rispetto per la sua privacy e la “parola d’ordine” a me ignota, mi sconsigliarono di superare quel blocco psicologico che Natalina probabilmente aveva posto a difesa di quel brutto ricordo. Allora lasciai che il nero velo della riservatezza rimanesse abbassato sulla finestra della sua memoria, per tenere ancora oscurata l’immagine di quella drammatica sera del 1944 nell’osteria Tripoli, dove fu presente anche un ignaro e spaurito bambino di 4 anni, forse unico testimone, rimasto in vita, di quella brutta avventura , in cui, per fortuna, l’arma della pietà di un comandante partigiano, dal nome a me rimasto sconosciuto, mise a tacere l’arma dell’odio, brandita da un capitano dell’esercito italiano allo sbando dopo l’8 settembre del ’43.

 Da un nipote seppi ancora che Natalina, ormai  vedova e senza figli, era ritornata a vivere a Norea, in attesa di ricongiungersi al suo Alfredo, da lei fatto tumulare al cimitero di Prea, da dove fuggì terrorizzata una sera del  ’44 e dove ritornò, definitivamente e pacificata per sempre, sessant’anni dopo.

Giuseppe Priale

Associazione “ Nusèč dëř Chiè “  di Prea Roccaforte

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Ricordi di guerra di un bambino quasi ottuagenario

Un pomeriggio, soleggiato ma freddo d’inizio dicembre del 1944, ero andato con mio padre a prendere una gnoca (lenzuolata) di foglie secche in una scapita (capanno) appena fuori paese, per rinnovare la lettiera del maiale, che grufolava tranquillo nella sua pursì, incurante dell’igiene, della guerra e della brutta fine che avrebbe fatto a Carnevale.

Se la guerra, diventata civile dopo l’8 settembre 1943, non fosse arrivata fino a noi, la povera bestia, allora, appesa per le zampe posteriori e tenuta ferma per quelle anteriori da due uomini paonazzi in viso per lo sforzo, avrebbe mandato strazianti grugniti, che sarebbero arrivati fino al Biò, cioè all’altra estremità della Prea e perfino a Baracco, al di là della Vall’Ellero, prima di affievolirsi e poi morire in un fiotto di sangue, fatto zampillare con una precisa stilettata inferta alla giugulare dal grinatè,  il norcino. Il sangue, raccolto schiumeggiante in un secchio (nulla veniva sprecato del maiale, specie in quel tempo di guerra), sarebbe stato mescolato, ancor caldo, con il latte, per farne una zuppa cotta a bagnomaria, oppure, lasciato raggrumare, sarebbe stato insaccato con le parti meno pregiate e insaporito con l’aglio. Gli organi interni sarebbero anche finiti nelle sfürze,cioè negli involtini confezionati con foglie lessate di verza, surroganti egregiamente quella particolare pellicola reticolata dello stomaco, quando questa veniva a mancare. Le grašütte, cioè i lardelli, cui era rimasta ancora attaccata qualche briciola di carne , fatti sciogliere in padella, sarebbero serviti a farcire ottime frittate.

Ma il nostro maiale, quel pomeriggio d’inizio dicembre del 1944, non ebbe la lettiera rinnovata, non ebbe più la solita sorpresa di qualche castagna dimenticata tra le foglie secche, ma neppure la sventura di finire sgozzato a testa in giù per Carnevale. Fu, infatti, requisito dai nazifascisti, forse perché avrebbe potuto “collaborare” anche lui, a modo suo, con i partigiani. Questi, infatti, nelle pause della Guerra di Liberazione, solevano alla sera “ bivaccare” a casa nostra per ascoltare, addossati gli uni agli altri, la nostra radio, che sembrava trasmettere solo temporali, frammisti a voci incomprensibili. In seguito ho saputo che era Radio Londra, la quale, continuamente boicottata sulle sue frequenze, cercava in qualche modo di organizzare la Resistenza. Quei “ribelli”, così chiamati dai fascisti, quei “banditen”, com’erano chiamati dai tedeschi, a casa nostra venivano anche per farsi aggiustare le scarpe da montagna da mio padre, considerato il miglior calzolaio dell’Alta Vall’Ellero e della Val Maudagna, dove ogni tanto teneva bottega anche a Miroglio.

Poteva capitare a volte che quei “ribelli” non resistessero di fronte a qualche appetitosa pollastrella (nel senso di pennuto) e la requisissero in nome della Resistenza e se la facessero cucinare da mia madre in nome della fame. Ma il nostro maiale fu  requisito per rappresaglia dai nazifascisti  insieme alla  pericolosa radio gracchiante (restituitaci dopo la guerra, ma non il maiale). In quella occasione  casa nostra fu anche messa a soqquadro. Furono sventrati persino i materassi e le paiasse (pagliericci con foglie di grano turco) alla ricerca del capofamiglia, conosciuto come sovversivo e collaborazionista dei partigiani, da tempo segnalato e tenuto d’occhio.

Quel pomeriggio d’inizio dicembre del 1944 mio padre non fece ritorno a casa con la gnoca di foglie secche per il maiale, né più vi fece ritorno. Infatti, mentre stavamo ripercorrendo in salita il vicolo Fontana per far ritorno a casa, ad un certo punto sentimmo un forte odore di fieno e di foglie bruciate. Ben presto vedemmo alte fiamme, in mezzo a dense volute di fumo, salire dalle scapite e dai puntì, cioè dai fienili annessi alle stalle dalla parte alta del paese. Quella volta le  “Bande Nere” erano arrivate dai monti che separano la Valle Pesio dalla Val Ellero con lo scopo di cogliere i partigiani alle spalle e bruciare i loro rifugi, costituiti dai tèč (malghe), molti dei quali in seguito non furono più riparati. Ben presto sarebbero arrivate anche a casa nostra. Se andava bene avrebbero dato la solita e dura lezione al sovversivo e collaborazionista impenitente. Avrebbero, cioè,  tenuto mio padre legato un’intera notte al “palo”, costituito per l’occasione dal frassino che cresceva vicino casa. Solo mia madre sapeva in quale stato era, quando al mattino veniva a slegarlo l’addetto al supplizio. Quella era stata, fino ad allora, la pena alternativa alla fucilazione, grazie ai buoni uffici di uno zio (colonnello in pensione), a quel tempo Commissario Prefettizio al comune di Roccaforte. Ricordo perfettamente che, nelle prime ore della notte, noi quattro bambini (dai due ai cinque anni) andavamo a tenergli  compagnia, rimanendo   ad una certa distanza per paura del buio. Sentivamo solo  la sua voce e i suoi lamenti provenire dal frassino, ma non vedevamo la sua figura. Ma il buio più buio  fu quello che mi rimase dentro ancora per anni, fino a quando anche per me giunse il “mattino”. Allora potei leggere la Storia scritta sui libri, ma anche quella non scritta, ma ricostruita su brandelli di ricordi infantili e poi conservata con pudore nell’archivio del cuore.

Adesso, ogni volta che sento odore di fieno e foglie che bruciano, dal mio archivio segreto viene fuori la figura di mio padre che butta la gnoca di foglie nella contrada dei Pin Mariana appena vede gli incendi  e sente le voci concitate delle donne che lo scongiurano di non andare a casa, dove lo aspetta il solito supplizio del palo o magari qualcosa di peggio, vista l’inefficacia delle “lezioni” precedenti. Ancor oggi, ogni volta che arrivo a metà del vicolo Fontana, mi pare   di sentire la voce di mio padre che chiama la cuginetta Teresina  di dieci anni, che abitava nei pressi, per mandarla a casa a prendergli il giaccone di pelle nera. Prima di fuggire, non mi ricordo se mi salutò. Ricordo solo il rumore delle sue scarpe chiodate sul selciato del vicolo, percorso in discesa a precipizio. Non rividi più mio padre. Non ricordo  più nulla di ciò che avvenne dopo, a conclusione di quella giornata. Fu come se la mia memoria fosse fuggita dietro a mio padre, che mi aveva lasciato solo a metà del vicolo.

Allontanatasi dalla nostra Valle, la bufera nazifascista passò a quella attigua del Maudagna. Allora alla sera, come al solito, i partigiani ripresero a frequentare casa nostra. Ma non trovarono più la radio che trasmetteva “temporali”; non sentirono più grufolare il maiale nella pursì; non ebbero più il calzolaio  che aggiustava loro le scarpe. Allora facevano da soli, come potevano, mentre mia madre chiedeva notizie di mio padre, che verosimilmente si era unito ai suoi amici partigiani  sulle  montagne della Val Maudagna. Ricordo nitidamente la risposta “Mah, chi lo sa?!” di uno di loro mentre batteva energicamente il martello sulle bullette coniche dei tacchi. Quelle quattro parole sono rimaste inchiodate per sempre nella mente dei miei quattro anni. Non ebbi, però, a causa dell’età, la capacità di cogliere tutta  l’ansia angosciosa di mia madre   nel sentire quelle parole di ambigua incertezza, né lo strazio causatole dalla notizia, giunta pochi giorni dopo, della morte di mio padre ai Bergamini. Non ebbi neppure il tempo di cogliere le sue testimonianze, perché cadute nell’oblio di una fossa, aperta  otto mesi dopo vicino a quella di mio padre. A guerra appena finita, infatti, due “cecchini” erano rimasti ancora in paese a compiere le ultime rappresaglie di retroguardia. Il tifo  e il paratifo, non riconosciuti per tempo, colpirono a morte mia madre all’età di 32 anni, perché il dottore, invece di venirla a visitare, non seppe disdire un impegno di caccia (finalmente riaperta!...) già preso con certi suoi amici.

Passati gli anni prescritti per le sepolture nella terra, i miseri resti dei miei genitori vennero esumati e raccolti in una cassetta. Questa venne riposta nella tomba dello zio Pietro, forse riconciliato con mio padre, caduto non per fucilazione alla schiena, non per assideramento legato ad un frassino in una  gelida notte di dicembre, ma con un’arma in pugno, combattendo da buon soldato, come sicuramente lo era stato lo zio, se era arrivato al grado di colonnello per soli meriti di guerra.

L’addetto al cimitero di Roccaforte (il signor Vecchioni, un soldato sbandato che non aveva più fatto ritorno al suo paese del Sud) mi chiese se volevo recuperare quelli che furono  gli scarponi in pelle di vacchetta, che avevano calzato i piedi di mio padre come se fossero guanti e che forse avevano suscitato l’invidia in chi non se li poteva permettere. Ora,  corrosi e slabbrati, con le bullette arrugginite, avevano  il potere di destare quel dolore che la mia debole coscienza di bambino non aveva vissuto appieno. Non ebbi la forza di raccattare quei macabri cimeli,  la cui vista serviva solo a dissotterrare il ricordo di una famiglia sconquassata dalla guerra, le cui macerie continuano a fumare nei cuori dei sopravissuti.

Da 72 anni mio padre é solo più un nome, scritto su una lapide del cimitero,  di uno morto a 36 anni; un nome scritto ancora tre volte su altrettante  lapidi commemorative di caduti senza storia. Una di queste, però, ha per me un valore particolare: quella affissa alla facciata della chiesetta di S. Marco al Pellone (stretta fra le braccia della strada che sale verso quei monti bagnati per due volte nel 1944 dal sangue dei partigiani), dove ogni anno il 25 aprile, festa dell’Evangelista con il leone e della Liberazione, viene celebrata una messa in suffragio dei 15 partigiani e civili caduti nei pressi e sulle montagne della Val Maudagna. La chiesetta, infatti, nel gennaio e nel dicembre del 1944 essendo stata usata anche  come obitorio, a buon diritto, può essere considerata come il Sacrario della Memoria dei nostri “ Ribelli per amore”, che, morendo per noi,  hanno meritato la palma del martirio. Quella palma che giustifica e salva anche  chi si è sacrificato per una giusta causa, come quella  per la Libertà, sacro dono elargito da Dio all’uomo per renderlo  padrone solo di se stesso.

  Giuseppe Priale

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