La curva dell’angoscia

La prima angoscia è stata persecutoria: la paura del contagio, della malattia e dei suoi rischi. Se il pericolo del contagio è potenzialmente dappertutto, è stato necessario il distanziamento sociale per arginare la sua presenza intrusiva. Il mio simile si è rivelato non più per motivi ideologici, ma per motivi scientifici, come un pericolo riattivando la paura arcaica nei confronti dell’ignoto e dello sconosciuto. Quando il primo decreto governativo, legato all’emergenza dell’epidemia, ha compresso la nostra libertà nella reclusione delle nostre abitazioni ha solo provvisoriamente risolto questa prima angoscia. Questa risoluzione si è tradotta inizialmente in un sentimento inedito di solidarietà e di unità nazionale. Il trauma collettivo anziché separare nel dolore ha reso più coese le nostre esistenze. Ci siamo sentiti riuniti in una comunità fatta di solitudini. Una sorta di "narcisismo di squadra" si è positivamente sviluppato per contrastare la disperazione di una malattia che si era rivelata assai più aggressiva e temibile di come era stata inizialmente rappresentata e delle morti che nel tempo si accumulavano. Il noi ha prevalso sull’io, il carattere individualistico della libertà ha lasciato il posto all’idea collettiva della libertà come solidarietà. Ma dietro alla porta covava un’altra angoscia. Non più quella del rischio del contagio, né quella della privazione della libertà, ma quella assai più insidiosa e catastrofica della perdita del mondo. Questa nuova angoscia non si manifesta più con vissuti persecutori di intrusione – essere contagiati dal virus – ma assume i caratteri di una sorta di lutto collettivo. Abbiamo perduto il nostro mondo, le nostre abitudini, la possibilità di vivere insieme come prima. È l’atmosfera francamente depressiva in cui tutti siamo finiti di fronte al ritratto delle città del mondo trasformate in deserti. La configurazione di questa seconda angoscia ha confermato il vissuto apocalittico della fine del mondo: non sarà mai più come prima.

Sicché i cambiamenti che l’epidemia ci impone non saranno solo misure provvisorie ma altereranno inevitabilmente la nostra vita insieme. Si spalanca allora una nuova angoscia, la più attuale: la vera costrizione non è più quella della reclusione ma quella della necessaria convivenza con il virus. Dal punto di vista sociale questo significa schiacciare i soggetti più fragili in una condizione di totale dipendenza e gettare nell’impotenza quelli con un potenziale generativo più alto. Per i primi l’angoscia è quella di abbandono, per i secondi è quella dell’immobilità. Per gli uni l’angoscia è quella della sopravvivenza, per gli altri è quella della morte professionale e imprenditoriale. Il punto è che facciamo fatica ad abituarci all’idea che ricominciare non può significare ripartire a "guerra" finita. È questa una immagine rassicurante di tipo regressivo. Essa ci proietta in un futuro prossimo finalmente liberi dall’angoscia del virus. Ma ogni trauma lascia sempre dei resti che non possono essere mai del tutto smaltiti.

Dovemmo abituarci all’intruso, ad un governo che non può che essere solo provvisorio della sua minacciosità. La nostra fantasia sarebbe invece quella di un vero inizio, libero dalla presenza ingombrante del virus. Ma si tratta di una fantasia infantile: separare nettamente il bene dal male per liberare la nostra vita dall’angoscia che comporta la loro presenza simultanea. La nuova angoscia è quella della riapertura della vita in un tempo di inevitabile convivenza collettiva col male. È quella di un’apertura alla vita tanto necessaria quanto incerta, fatalmente esposta al rischio. Compito di una comunità è certamente quello della protezione della vita, soprattutto dei soggetti più fragili, ma è anche quello, come accade nel mito biblico del profeta Noè, sopravvissuto alla catastrofe del diluvio, di saper piantare la vigna. Le parti migliori di noi e del nostro Paese sono quelle che assomigliano a Noè; il "resto salvato" dalla distruzione, le forze positive che resistono alla devastazione del male.

Ma nel nostro caso la vigna esige di essere piantata anche se attorno c’è ancora morte e distruzione. Non potrà accadere alla fine del diluvio, ma in una zona di transito, fatalmente incerta. È questa la durissima prova di realtà che questo trauma collettivo esige e che non si potrà rinviare.

È l’angoscia di non riuscire a rappresentarci come saremo e cosa diventeremo in un tempo che non ci permette di scindere il passato traumatico dall’avvenire del ricominciamento. È l’instabile zona di mezzo che stiamo percorrendo: non la luce o le tenebre, ma la luce obliqua nelle tenebre; non la paura o il coraggio, ma il coraggio nella paura.

Non potremmo più essere quello che siamo stati ma non sappiamo bene ancora cosa potremmo diventare. Quello che è certo è che quello che diventeremo non è già stato, non potrà essere quello che siamo già stati. Non più dopo questo trauma. È questa la nostra paura più grande. Ma come diceva bene Jung: «Là dove è più grande la paura, questo è il nostro compito».

Massimo Recalcati – la Repubblica – 12 aprile 2020

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Alle politiche con mistificazioni da una parte e dall'altra

Massimo Recalcati. "L'uomo non è padrone nemmeno a casa propria". Ma perché non è padrone? Perché è certamente alle prese con l'ingovernabilità tra la sua vita e la sua coscienza. L'Io dovrebbe impedirla e spesso questa ingovernabilità viene risolta, ma l'Io a sua volta è un vigilante vigilato: da un lato vigila sulle sue passioni, buone o cattive che siano, e dall'altro le festeggia anche lui ed anzi ne accresce la potenza. Così le passioni diventano sempre più irruenti e rendono la tua coscienza verso il tuo prossimo e verso te stesso sempre più fragile. Questo è il problema. È politico? Sì è anche politico, anzi lo è soprattutto perché la politica è il confronto tra il pubblico e il privato, tra gli interessi particolari e quello generale. L'editoriale di Eugenio Scalfari su la Repubblica.

Un uomo solo al comando? Da non non si può. Si rassegnino M & S

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Una Buona Scuola?

  • Pubblicato in Cultura

 

Sì, grazie! Tanti disegni legislativi, tanti emendamenti, paginate su giornali e siti specializzati (e non), per dettare le regole di una Buona Scuola. Stipendi più alti, stabilizzazione del personale precario, potere(o meno) ai Presidi, ispettori e valutazione di tutto e di tutti, formazione incentivata e obbligatoria del corpo insegnante, nuove discipline e interazione col mondo del lavoro …. sono le proposte più gettonate.

Ma al Salone del Libro di Torino, domenica 17 maggio, negli incontri sul tema della scuola è emersa un approccio completamente diverso. Al centro di un reale rinnovamento della scuola c’è la relazione personale che in classe si instaura fra docente e singolo allievo, c’è il clima di reciproca attenzione e ascolto.

Nell’incontro con Massimo Recalcati, psicoterapeuta, docente in una Scuola di Specializzazione e  autore del libro L'ora di lezione. Per un'erotica dell'insegnamento,  la scuola deve essere luogo di un incontro amoroso.  Facile a dirsi,  chiede Paolo Giordano, fisico, ricercatore e a sua volte scrittore di successo (La solitudine dei numeri primi), che lo intervista. Ma come fare in una scuola che lo stesso Recalcati rappresenta come ignorante e disastrata, con insegnanti frustrati e depressi. e, a parte le recenti e infuocate polemiche,  poco al centro dell’attenzione?

Ecco la soluzione. Se ognuno di noi (sulla scia del pensiero di Lacan) è un figlio, perché nessuno si fa da sé, e quindi porta sulla propria nuca il messaggio “scritto” dal padre di  quello che dovrà essere un giorno, è altrettanto vero che ciascuno di noi  è anche un po’ “eretico” nel non fare ciò che i genitori volevano. Allora,  importanti sono gli incontri che ciascuno fa nella sua vita, come nella suggestiva immagine delle gocce di pioggia che scivolano a centinaia sul vetro, perdono il loro filo verticale e  incontrandone altre si uniscono a formare nuove gocce.

 Visto che siamo il risultato della stratificazione degli incontri a cui abbiamo dato un senso, importantissima sarà la scuola, luogo di formazione per eccellenza,  centro di incontri decisivi, buoni o cattivi,   che segnerà la nostra vita. Si possono avere tre tipi di scuola.

La scuola di Edipo : quella del dopoguerra, ben rappresentata dalla fotografia che fa da copertina al libro: un’insegnante che somministra una medicina (olio di merluzzo, probabilmente, ricorda l’autore pescando fra i suoi ricordi) agli scolaretti  in divisa, uno dietro l’atro in fila. Era la scuola dell’obbedienza, della gerarchia, della conservazione e della tradizione, che prolungava idealmente l’autorità del padre-padrone, in cui dominavano paura e rispetto. A tale tipo di scuola  ha risposto la reazione conflittuale del ’68 e del ’77, fatta di laboratori, sperimentazione, immaginazione.

La scuola di Narciso: col passare degli anni si è stemperato l’elemento di conflittualità; gli insegnanti hanno perso il loro ruolo tradizionale e si è affermato il narcisismo, che va a contaminare il rapporto tra le generazioni all’interno della famiglia, la quale diventa  antagonista nei confronti della scuola (si vedano i ricorsi sempre più frequenti contro le decisioni dei docenti, le contestazioni agli insegnanti da parte dei genitori). Due sono i sintomi di tale tipo di scuola. Primo: la caduta del discorso educativo, frutto della volontà di evitare che i ragazzi affrontino la fatica  della formazione (da qui, le sospensioni con obbligo di frequenza, le interrogazioni programmate …), e l’alleanza, inedita, fra genitori e figli, per evitare che questi incontrino lo spigolo delle difficoltà.

Secondo: la scuola vista dai governi  come azienda (debiti, crediti, assesment …), e quindi pensata su una dimensione economica-produttiva (concetti come quello di “competizione”).

La scuola di Telemaco: c’è e c’è stata anche nei due modelli di scuola illustrati prima, da parte di quegli insegnanti che hanno fatto dell’incontro il centro del loro lavoro in classe, quell’incontro che modifica la direzione della vita.

Ma, viene da chiedersi con Paolo Giordano, disponiamo di una struttura e di un corpo insegnante che possa garantire dei buoni incontri? Basti pensare all’immissione in ruolo di tanti precari, con percorsi diversi …. E, viste le reazioni, la scuola è davvero pronta a un tale cambiamento?

Per Recalcati non ci sono dubbi: la didattica è erotica solo quando è in grado di accendere il desiderio. L’insegnante trasforma gli oggetti di cui parla, formula o  libro,  in “corpi” vivi, innestando così una trasformazione nell’allievo , da recipiente passivo del sapere in “amante”,  del sapere. Ogni volta che l’insegnante deve dire quello che sa in modo nuovo, in modo da rigenerare quel sapere, farà nascere il desiderio. La didattica è come l’amore: la trasformazione del solito in nuovo, la spossatezza e insieme il desiderio di continuare. Dalle più recenti ricerche sulle neuroscienze pare che l’amore come desiderio non duri più di dieci mesi, quando finisce l’effetto della dopamina! Allora, la vera sfida starà nel creare la fiducia tra chi insegna e chi apprende, al di là degli strumenti utilizzati (libri o nuove tecnologie) e al di là di sistemi di valutazione e di misurazione.

Forse anche per questo, la relazione educativa è assente nelle pagine del documento ministeriale “La Buona Scuola” come nelle odierne proposte legislative centrate sul “fare”, sulla meritocrazia, sul premio, sull’organico di ruolo, sulla valutazione di studenti, scuole e docenti. Eppur è presente in tante aule scolastiche del nostro Paese, come in quelle frequentate da insegnanti-scrittori quali Franco Lorenzoni, Domenico Starnone e Mario Tagliani, protagonisti di una Tavola Rotonda organizzata dalla rivista “Insegnare” del CIDI (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti), che da decenni si batte per una scuola rinnovata.

Così, ascoltando le loro  “avventure” scolastiche si è scoperto che è possibile coniugare il desiderio di sapere (naturale in un bambino) con i saperi scolastici,  e insieme valorizzare un’autonomia nell’approccio al sapere (preparando, ad esempio, in un modo “speciale” i bambini per la visita al  Guggheneim di Venezia). Lo stesso, nel caso di ragazzi in carcere,  spesso  rifiutati dalla scuola, proprio perché non ascoltati, per i quali il vuoto di cultura è stato riempito da valori sbagliati. Per questi, la lezione dovrebbe essere impostata solo dopo averli ascoltati, per capire la loro esperienza e partire da questa per insegnare.

            Se ancora oggi vale il monito:“In quest’aula si parla solo se interrogati!”, significa che troppo spesso si limita la capacità propria del bambino di fare domande e nel contempo di  cercar risposte, non si  mette il bambino al centro, non si offrono modelli che accendano la fantasia, insomma, non si “e-duca”, cioè non si tira fuori, per dare forma. quello che i ragazzi hanno dentro.  E se, fra la fine degli anni Cinquanta e Sessanta, la scuola aveva ripensato i vecchi modelli proprio per proporne di nuovi che mettessero al centro l’alunno, oggi si è scelto di imporre un ordine, sì, ma “mortuale”, perché comporta il rischio di tagliar fuori l’invenzione quotidiana e di tarpare le ali all’insegnante in funzione della relazione quotidiana con gli studenti.

Resta aperto dopo questi interventi al Salone un quesito di fondo.

Come fare perché tutto ciò accada se non proprio in tutte, almeno nella maggior parte delle nostre scuole statali, affinché venga davvero garantito il diritto all’istruzione?

Se non si può insegnare la relazione personale con un corso di formazione, se non si può valutare, per lasciar libertà di insegnamento, se non si può imporre dall’alto (neanche da parte del  Dirigente  o di un comitato ad hoc) una didattica diversa nelle aule, che accenda il desiderio di sapere (ascolto dello studente e non solo interrogazioni da valutare, ricerca condivisa del sapere e non solo lezione frontale, attenzione alle fragilità e ai bisogni senza una caduta in verticale degli obiettivi e nell’impegno richiesto, ecc. ecc.), la Buona Scuola resterà ancora una volta un’utopia!

                                                                                  Clara Manca

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