I laburisti britannici indicano al Pd la via della vittoria

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L'Inghilterra al voto anticipato! Rischi per Sunak

In Gran Bretagna si voteeà il 4 luglio. e quella del leader laburista Keir Starmer è la vittoria più annunciata del mondo, almeno secondo i sondaggi. Non si vede cosa possa arrestare il vento che soffia nelle vele del Labour party, che dopo quattordici anni dovrebbe proprio tornare al governo di un Regno Unito molto malmesso – dopo l'era orribile di Boris Johnson che il suo blando successore Rishi Sunak non ha saputo archiviare (...) Era chiaro il fallimento di Suniak e l'avvento di Starmer, del quale va messo in evidenza un punto politico forte che egli ha in comune con la grande stagione laburista di Tony Blair. E cioè l'assillo di fare del Labour un autentico partito della Nazione, un termine in voga nei primi anni Duemila quando si trattava di dar vita al Partito democratico e poi ripreso qualche anno dopo da Matteo Renzi che ne era il leader. Un partito cioè in grado di rappresentare e di comporre interessi sociali e territoriali diversi (su quest'ultimo punto è significativo che il Labour possa diventare il primo partito in Scozia, per dire) puntando soprattutto a un obiettivo che alla sinistra italiana di oggi non entra in testa: la produttività, premessa della crescita. Il commento di Mario Lavia su Linkiesta.

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Il Covid non porterà al socialismo

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Le primarie del Labour sono iniziate in un mondo e sono finite in un altro”, scrive l’Economist a proposito dell’impatto del coronavirus: “I candidati e i sostenitori hanno discusso in rete anziché affollarsi nei pub”. Molti osservatori credono che l’epidemia possa essere un vantaggio per il Labour, dato che il clima politico delle ultime settimane tende a essere più favorevole alla sinistra. La tesi sostiene che la decisione del governo di investire nell’economia e nazionalizzare alcune industrie chiave mostra il ruolo cruciale dello stato nella gestione dell’emergenza. Il virus sposta i confini di ciò che è politicamente accettabile. Come fanno i Tory a deridere ‘i soldi che crescono sugli alberi’ quando loro stessi hanno appena scoperto una foresta? Corbyn sostiene che la risposta del governo al Covid-19 dimostra che lui aveva ragione a sostenere una maggiore spesa pubblica. Questa tesi viene condivisa anche al di fuori del Partito laburista, tanto che molti ministri conservatori si sono lamentati di avere vinto le elezioni per ritrovarsi a implementare le promesse del Labour. Tuttavia, l’idea che il Covid-19 possa dare vita a un paradiso socialista non è molto credibile. Certo, alcuni eventi epocali come questa pandemia possono stravolgere le appartenenze politiche, specie se sono deboli. E questa crisi si sta rivelando una buona notizia per la sinistra: alcune delle istituzioni a cui è legata, come la Bbc o l’Nhs, oggi vengono ammirate più del solito. Ma l’attuale espansione dell’intervento pubblico non rappresenta una conversione filosofica alla rivoluzione. Piuttosto, è una risposta pragmatica a una serie di problemi rari: politiche di stampo keynesiano per fare ripartire l’economia, interventi per salvare le industrie dal collasso e un salario minimo per i lavoratori che hanno perso il lavoro. Questa espansione farà crescere il debito pubblico, e verrà finanziata con un aumento delle tasse. Tuttavia, i paragoni con il modello economico adottato dal Labour nel 1945 appaiono prematuri. Gli scienziati sono fiduciosi di trovare una cura al virus nel breve termine, forse entro un anno. Quando finalmente arriverà quel giorno gli elettori non vorranno nient’altro che un ‘ritorno alla normalità’, come è avvenuto negli anni Venti del secolo scorso dopo la Prima guerra mondiale e l’influenza spagnola. I cittadini si ricorderanno del coronavirus non come un’epoca di rinnovamento ideologico ma come una crisi temporanea che ha reso possibile una strana fusione tra un’ammirabile collettivismo e delle restrizioni alle libertà personali. Se Keir Starmer vorrà avere successo come leader laburista dovrà porsi come un politico pragmatico e post-ideologico. Dovrà fare delle domande pratiche al governo riguardo alla produzione di ventilatori e tamponi o all’aiuto economico ai più vulnerabili. Dietro le quinte dovrà prepararsi alla fine dell’emergenza eliminando i seguaci più radicali di Corbyn. Se punterà le sue carte sul socialismo, sprecherà il suo capitale politico”.

The Economist - Il Foglio -  4 aprile 2020

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Biden che parla con i sandersiani, Starmer che accoglie i moderati e la voglia di una sinistra “smart”

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Ieri il nuovo leader del Labour britannico, Keir Starmer, ha finalizzato il suo governo ombra, che è la sintesi esatta della promessa fatta durante la corsa per la leadership: unire il partito. Gli esponenti più radicali della stagione corbyniana sono stati sostituiti con alcuni politici noti – Ed Miliband su tutti, già sconfitto dai Tory nel 2015 – e da altri molto meno, ma con le idee chiare e due obiettivi: superare l’ormai logora dicotomia Corbyn-Blair e proiettare il Labour nel 2020, con le idee che rappresentano oggi la sinistra. I blairiani gongolano in silenzio, i corbyniani strillano denunciando un governo “che sta a destra di quello dei Tory”, ma il tempo per la guerra civile è poco, e forse è proprio finito: Starmer ha preparato una road map per la gestione del coronavirus, fase uno e fase due, ed è l’unica cosa che conta davvero. C’è chi dice che la pandemia porterà via lo stato di diritto e le certezze democratiche. Per ora ha portato via Corbyn e ha lasciato una “soft left” che aspira a un’altra etichetta, quella di “smart left”.

Negli Stati Uniti è in corso lo stesso processo. Ieri mattina il sito Politico titolava: “Le primarie democratiche le ha vinte Barack Obama”. Si parla molto del ruolo che l’ex presidente ha avuto nel convincere Bernie Sanders, senatore del Vermont , a ritirarsi, ma quel che conta, esattamente come a casa Labour, è che l’istinto della sinistra americana sia quello di unirsi, di lasciar perdere il tifo ideologico pure molto sentito (e doloroso: si tratta di identità, di visioni, di idee), perché c’è un’emergenza dalle conseguenze inimmaginabili e perché c’è Donald Trump da battere a novembre. Joe Biden ha intenzione di includere il più possibile Sanders e i sandersiani nella sua campagna: i consiglieri sono stati contattati, così come i deputati che si erano schierati con Sanders. Con Biden che è un dialogante da sempre, l’operazione non sembra nemmeno troppo opportunistica. Poi certo: le elezioni sono calcoli e tattiche, se la base sandersiana non si “converte”, foss’anche per qualche mese, a Biden, i conti a novembre non torneranno. Per questo l’ex vicepresidente sta mettendo a punto una nuova offerta politica che tenga conto di un elettorato e di una contingenza – la pandemia – che richiedono un maggior interventismo statale, cioè più sinistra. “Non c’è modo che Biden diventi a favore del Medicare for all”, scrive il sito Axios, sottolineando che pur in emergenza e in corteggiamento la natura moderata dell’ex vicepresidente l’avrà vinta, ma ci sono stati già alcuni avvicinamenti alle posizioni più radicali sui finanziamenti per gli studenti e sui regolamenti degli istituti finanziari. La scelta della compagna di ticket – si sa solo che sarà femmina – a questo punto diventa molto rilevante per capire quante chance ha un futuro unito del Partito democratico (finora è stata molto una faccenda di slogan e hashtag). Starmer e Biden, con pesi e ruoli diversi, sono la prima dimostrazione fattiva di un desiderio nuovo e forte di buon senso, di unità, di normalizzazione anche. E per la prima volta da molto tempo l’approdo a un partito “smart” sembra più vicino. Soprattutto: non è un accidente, è volontà politica.

Paola Peduzzi – Il Foglio – 11 aprile 2020

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