Che facciamo dopo la strage del Bataclan?

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A ridosso dell’attacco islamico a Charlie Hebdo, la Oxford University Press ritenne di emanare «linee guida» per i suoi autori in cui raccomandava di eliminare le parole «maiale» e «carne di maiale» (in tutte le forme: salsicce, salame, prosciutto e così via) nei testi scolastici «in modo da non offendere musulmani ed ebrei». Un interessante editoriale di Paolo Mieli sul Corriere della Sera.

L'Occidente non deve inchinarsi ad un Islam integralista

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I migranti e l'equivoco della solidarietà

 

       Le masse di migranti, i loro barconi e adesso anche le loro marce verso il cuore dell’Europa sono ormai diventate un monotono spettacolo quotidiano e un assillo sempre più pressante per i vari governi. Il flusso continua a crescere e con esso la confusione circa il da farsi. Quest’anno, solo in Grecia e solo fino ad agosto, si parla di circa 160.000 ingressi, prevalentemente dall’Egeo orientale, mentre si calcola che almeno 600.000 migranti si riverseranno entro l’anno in Germania.

       Sono ben note le scene dei naufraghi salvati e raccolti a decine di migliaia al largo della Sicilia e di Lampedusa, compagni di altri invece miseramente annegati o morti soffocati nelle striminzite stive dei barconi o in qualche autotreno parcheggiato, come è avvenuto recentemente in Austria. A queste scene vanno poi aggiunti gli spettacoli di folle di individui bloccati ai confini dell’Ungheria o a ridosso della Francia.

      Tutto ciò è diventato argomento indispensabile del menù quotidiano dei canali della cosiddetta “informazione” che, per quanto non lo si dica a voce alta, trovano nelle catastrofi e tragedie di vario genere il loro più ambito alimento. La loro capacità di vampirismo degli eventi non ha eguali, così come quella di mettere disinvoltamente da parte o sbiadire situazioni prima ossessivamente commentate (vedi prima la Siria e poi l’Ucraina). Sarebbe difficile sottostimare il ruolo di questa melliflua e petulante grancassa giornaliera che, più esaspera e ingigantisce gli aspetti emotivi di ciò che accade, più cattura l’attenzione dei suoi spettatori. O forse sarebbe più semplice dire che, proiettando e mostrando ciò che vuole, come e quando vuole, gonfia e svuota a piacimento la realtà degli eventi.

      Gli aspetti manipolatori di tale strumento, che coesistono assieme a quelli positivi (assai inferiori per numero e per lo più riguardanti innocui documentari archeologici o di scienze naturali), meriterebbero approfondimenti che ci porterebbero molto lontano. E’ certo, comunque, che le vecchie definizioni di “quarto potere” (Welles) o di “persuasori occulti” (Packardt), appaiono ormai quasi innocenti. A conferma della spudorata tendenza a drammatizzare gli eventi (anche con la musica) da parte dei canali d’informazione, basti qui citare, a mo’ di esempio, alcune delle frasi e titoli di richiamo più frequenti nelle trasmissioni della BBC, forse il canale televisivo più agguerrito e sofisticato al mondo.  Da “come to my show” (venite al mio show), a “top stories “(notizie in primo piano), a “more to come” (c’è altro in serbo), i titoli suggeriscono come qualsiasi cosa diventi ineluttabilmente motivo di intrattenimento…

      Ma ritorniamo al nostro tema: i migranti.

       Intanto, chi sono in realtà costoro? Rifugiati o persone che semplicemente cercano migliori condizioni di vita? Certamente, essi fuggono e, fatto significativo, la maggior parte fugge da Paesi musulmani. Molti dalla Siria, ma molti altri dall’Iraq, dall’Afghanistan, dalla Somalia e da altre nazioni sub-sahariane, oltre che dal nord-Africa e dalla Serbia, riversandosi (o tentando di riversarsi) a sciami in direzione dell’Europa.  Un fenomeno analogo, ancorché su scala assai più ridotta, sta avvenendo al largo dell’Indonesia e della Malesia, che però hanno sostanzialmente posto degli sbarramenti alle ondate di migranti dal Bangladesh e dal Myanmar.     

      Fame, violenze, guerre, speranze di una vita migliore? Se questi sono i verosimili motivi di un esodo abilmente stimolato da mercanti nell’ombra, difficile non pensare ai negrieri che per secoli trasportarono schiavi africani verso le due Americhe. In entrambi i casi, notiamo degli “imprenditori della disperazione”. L’unica differenza è che i negrieri ottocenteschi prelevavano le loro vittime a viva forza, senza pretendere che pagassero il viaggio. Le vittime odierne non sono costrette a imbarcarsi, ma addirittura pregano e pagano per esserlo. Di fatto, i pedaggi costituiscono in buona parte il motore operativo di questa gigantesca migrazione, almeno quando gli spostamenti avvengono per via di mare.

        Come hanno reagito o stanno reagendo i vari Stati europei? Da molti mesi, le autorità italiane stanno accogliendo i migranti passivamente, salvo lamentarsi a Bruxelles, e le stesse cose stanno accadendo anche in Grecia e ai confini con la Turchia. Tutto suggerisce che proprio tale inerzia e remissività siano fra le cause del progressivo acuirsi del fenomeno. Nuove potenziali vittime e la brama di ulteriori e lauti pedaggi ne sono stati fatalmente stimolati come in un circolo vizioso.

       Appare difficilmente frutto di coincidenze il fatto che sia i barconi mediterranei che i gommoni nell’Egeo orientale (le isole di Kos e di Lesbos, in particolare) abbiano come meta iniziale Paesi come la Grecia e l’Italia perennemente affannati in litigiose e miserande beghe politiche, che continuano a mostrare in proposito una sconcertante abulia (convenientemente mascherata come solidarietà). Dato che una parte degli spostamenti avviene tramite imbarcazioni messe a disposizione da abili mercanti, che misure specifiche e comunque drastiche sono state prese per individuare e reprimere le consorterie di coloro che stimolano e facilitano gli arrivi via mare? Se ne parla ben poco e in ogni caso non risultano essere stati intrapresi passi proporzionali alla gravità della situazione.

       Non vi è quindi da meravigliarsi se, viste tale mancanza di reazioni e di ostacoli alle frontiere, masse umane sempre più numerose sono giornalmente imbarcate come sardine con proficui guadagni o talvolta rinchiuse in carri frigoriferi poi precipitosamente abbandonati. Ancora meno vi è da meravigliarsi se adesso, visto quanto è accaduto ai migranti marini, anche folle sempre più numerose s’incamminano ostinatamente verso il nord. Così, a parte i mercanti di vario tipo coinvolti in questo gigantesco commercio, la responsabilità morale delle tante vittime annegate o soffocate e anche del crescere stesso del flusso terrestre è da imputare alla passività e mancanza di freni mostrate da coloro che hanno inizialmente lasciato le maglie irresponsabilmente aperte, a differenza di Paesi d’oltre oceano, come l’Australia e gli Stati Uniti.

       Se soprattutto Grecia e Italia fungono da colabrodi geografici, Regno Unito e Francia sono stati fino a oggi assai più riservati e prudenti, per non parlare del chilometrico muro protettivo ungherese e delle recenti misure di chiusura stradale dell’Austria. E tuttavia, anche nel Regno Unito, il bombardamento mediatico sta provocando ammorbidimenti. Così, David Cameron sembrerebbe essere ora in procinto di cedere alle pressioni dell’opinione pubblica e consentire l’ingresso di varie migliaia di rifugiati siriani. Gli stessi Stati Uniti e l’Australia sarebbero pronti ad accogliere ognuno una decina di migliaia di rifugiati. In Germania, recentissimi sondaggi mostrano addirittura un’impressionante favore popolare nei confronti della politica di “porte aperte” adottata dalla Signora Merkel.

        Detto per inciso, gli entusiasmi popolari andrebbero sempre presi con le pinze. Fino a prova contraria, essi esistettero anche nei periodi iniziali del nazismo e del fascismo

        Quanto di tale furore compassionevole è dovuto ai martellanti servizi televisivi giornalieri sui migranti? C’è da supporre che nessuna percentuale sarebbe in eccesso. Le ripercussioni emotive sull’opinione pubblica prodotte dai cacciatori di spettacoli drammatici (leggi: reporters), che, quando muoiono in zone di guerra, diventano degli eroi, se non dei martiri dell’informazione, tali ripercussioni – dicevamo – accrescono la paralisi e l’imbarazzo che si sta diffondendo in tanti consessi governativi, allo stesso modo della piaga del vapore venefico che serpeggiava inarrestabile ne I Dieci Comandamenti di C. De Mille. Il fatto è che l’immagine di un bambino di migranti che piange, se proiettata dal magico schermo, assume riverberi colossali e diventa motivo d’isteriche reazioni popolari, di accuse e di compunti ramarici da parte dei succitati consessi, chiamati quindi a mostrare solidarietà. I compassionevoli di turno sembrano disinvoltamente dimenticare che il numero di bambini che piangono in giro per il mondo nei Paesi afflitti dalla miseria e dall’abbandono è incommensurabilmente e tragicamente superiore. Tuttavia, finché “lo schermo magico” non ne parla, in un certo senso, essi sembrano non esistere…

        Nonostante le dichiarazioni di compassione e simpatia che tutti non mancano di esternare, è comunque evidente che un senso di presa alla sprovvista, di crescente nervosismo e di frustrazione aleggiano ormai da più parti, anche se la parola d’ordine rimane quella della famigerata solidarietà. La recente introduzione di controlli al confine austriaco da parte delle autorità tedesche e le reazioni sempre più dure di quelle ungheresi sembrerebbero segnalare l’emergere di meno entusiastiche perplessità e di un indurimento di posizioni nei confronti di quelli che ormai sono diventati dei veri e propri assalti ai confini.

        Di fatto, il ricorrente termine “solidarietà”, con cui si sta papagallescamente motivando in giro per l’Europa l’incontrollata e incondizionata accoglienza di questi disperati offusca motivazioni meno nobili, consce o inconsce, che vanno dal timore di passare per reazionari alla distratta dimenticanza che esistono Stati con masse ancora più grandi di derelitti e che l’attuale caos politico-sociale in Stati come la Siria, l’Iraq o la Libia, da cui in buona parte provengono gli afflussi, è stato innescato da irresponsabili e catastrofici interventi occidentali. Il numero dei morti in Iraq dopo l’invasione la dice lunga in proposito, mentre il non meno sanguinoso marasma libico fa quasi paradossalmente rimpiangere il rozzo autoritarismo di gheddafiana memoria. In realtà, le conseguenze di questo fumoso spirito umanitario da coccodrillo rischiano di essere nel lungo periodo altrettanto destabilizzanti dei suddetti interventi, anch’essi a suo tempo proclamati nobili e umanitari.

       Giusto per eliminare possibili equivoci, sarà utile chiarire che il problema non è la sorte individuale dei migranti, sorte che non può non suscitare un senso, anch’esso individuale, di compassione. Ciò è talmente banale da non richiedere altisonanti e compunte dichiarazioni in proposito, tipo quelle che giornalmente sfornano i canali d’informazione o le varie associazioni sui diritti dell’uomo.

        I veri problemi sono altri. Uno riguarda la provenienza dei migranti, e l’altro riguarda aspetti banali, come le quantità e la relativa integrazione. E qui risulta evidente che i criteri individuali di compassione non sono necessariamente simmetrici o proporzionali con quelli di uno Stato. Così, nel nostro caso specifico, l’estensione di tale atteggiamento verso ignote e inquantificabili masse umane non è così automatica o esente da difficoltà come la faciloneria vorrebbe pretendere.

       Un altro elemento ovvio ma curiosamente nell’ombra è che l’esodo in questione  “colpisce” - su questo verbo ritorneremo più avanti -  l’Europa ma non altre nazioni come il Canada, l’Australia o gli Stati Uniti. Certo, le distanze marine costituiscono una delle ragioni essenziali, ma sta di fatto che l’Australia respinge i barconi indonesiani e gli USA pattugliano metodicamente e inflessibilmente i loro confini messicani. Non risulta che questi Stati siano divenuti oggetto di un rimprovero planetario. Molti probabilmente dimenticano che, già nel 1939, nonostante lo sdegno nei confronti del razzismo nazista da parte delle “nazioni democratiche”, sia il Canada che gli Stati Uniti rifiutarono di accogliere 937 rifugiati ebrei che vagavano da mesi a bordo della motonave San Louis. La meschinità e vergogna di tale rifiuto non necessitano commenti. Lì, sì, erano solo 937 persone e, per ovvie ragioni, mai sarebbero potute diventare centinaia di migliaia. Il fatto che questi giorni si parli di accogliere qualche decina di migliaia di rifugiati siriani da parte di Australia e di Stati Uniti non cambia sostanzialmente il quadro: si tratta di operazioni cosmetiche. Le loro frontiere continuano ad essere sigillate e la differenza con i numeri europei balza agli occhi.

       D’altra parte, non tutti gli sbarramenti e sigilli sono miseri come quello a proposito  della Saint Louis. Non necessariamente essi equivalgono a “provvedimenti reazionari” o esprimono attitudini tipiche di partiti e governi insensibili alle tragedie umane. Per quanto poco noto, già i faraoni egiziani, per i quali sarebbe pretestuoso invocare la moderna categoria di “reazionario”, avevano istituito un severo cordone sanitario ai loro confini orientali (verso i Beduini del deserto siriano) e soprattutto meridionali (verso i Negri), l’unica eccezione essendo i favolosi pigmei del profondo sud, la cui presenza a corte era ricercatissima.

      In realtà, i numeri sono uno degli elementi cruciali del problema attuale. Parlando recentemente alla radio ungherese, il Primo Ministro ungherese Viktor Orban, ovviamente accusato di usare atteggiamenti autoritari, ha avuto il raro coraggio e l’onestà di fare delle dichiarazioni sul cui buon senso molti dovrebbero riflettere: “La verità è che l’Europa è minacciata da un afflusso gigantesco di persone. Molte decine di milioni di persone potrebbero venire in Europa. Adesso parliamo di centinaia di migliaia, ma l’anno venturo parleremo di milioni e la cosa non finisce qui.” Orban ha insomma banalmente sottolineato qualcosa che “i compassionevoli” pretendono di ignorare: le centinaia di migliaia rischiano di trasformarsi in pochi anni in decine di milioni.      

      Trascurare il fatto che questi movimenti di popolazione, così repentini e massicci, non potranno non avere ripercussioni imprevedibili e inquietanti su delle società così diverse per storia e sensibilità, ciò può essere dovuto solo all’irresponsabilità o alla stupidità o a tutte e due.

      Così come si stanno sottovalutando gli aspetti numerici del fenomeno – appaiono esilaranti i tentativi di alcuni di sminuirlo, definendolo un’irrisoria percentuale del totale della popolazione europea - allo stesso modo si stanno trascurando segni che già di per sé dovrebbero destare preoccupazione. Le scene dei migranti che protestano violentemente alle stazioni ungheresi (come se fossero cittadini di quel Paese e lavoratori di fabbriche prossime alla chiusura) o di quelli che scagliano pietre sulle vetture nell’isola egea Kos sono solo i sintomi e le anticipazioni di ciò che può riservare il futuro.

       In altre parole, quella che inizialmente sembrava una mite speranza si sta trasformando in rabbiosa pretesa. Sono eccezioni? Nulla esclude che simili episodi siano in realtà destinati a moltiplicarsi.

       Prima abbiamo utilizzato i termini di “esodo” e anche di “colpire”. Essi meritano delle correzioni e delle precisazioni.

       Molte delle popolazioni barbariche che si riversarono su Roma erano a loro volta sospinte dalla pressione di altre popolazioni più a oriente. Il loro esodo dai territori ancestrali si tramutò a sua volta in invasione. Checché ne dicano i compassionevoli di turno, anche l’attuale afflusso di migranti è in realtà “un’invasione” e, come quelle barbariche, si sta svolgendo a tappe, con rivoli continui ma inarrestabili. Non vi è il minimo dubbio che, così come accadde poi con le infiltrazioni e il dislocamento di turchi o l’islamizzazione di varie parti dei Balcani nel XIV e XV secolo, simili fenomeni sono ineluttabilmente destinati, nel caso più favorevole, a modificare equilibri sociali e identità culturali. In altri casi assai meno favorevoli ma non meno realistici, l’afflusso di masse di individui portatori di valori spesso irriducibilmente opposti diventa il seme di future tensioni etniche e religiose, destinate a tramutarsi in conflitti, come quelli divampati di recente nei Balcani.

        Il problema è dunque che il fiume umano è in buona parte composto da musulmani? In realtà, esso sarebbe identico, per via delle quantità, anche se i migranti fossero Marziani o comunque portatori di una cultura e di valori lontani da quelli dell’Europa attuale. Semplicemente, le quantità rendono certi aspetti ancora più inquietanti.

       L’elemento che rende pericolosa l’incondizionata, non disciplinata e non razionata ospitalità verso i migranti è allora rappresentato dalla loro “diversità”, come probabilmente qualche inveterato maligno si precipiterà a insinuare? Nuovamente, neanche questo è di per sé è un problema, sempre e a condizione che tale diversità ammetta ed esprima modelli sociali di pacifica coesistenza con le “diversità” altrui, dove “gli altri’” sono in questo caso i non-musulmani…

       Alle incognite che gravano su fenomeni di massa come questo, affrontati fino ad oggi senza i freni e le protezioni di distinzioni, selezioni e filtri appropriati, si aggiunge insomma un’altra incertezza. Nonostante le sciroppose assicurazioni che l’Islàm è sempre e comunque una religione di pace e un esempio di tolleranza, troppi fatti le smentiscono. Non c’è bisogno di citare a questo proposito i deliranti esempi dell’attuale terrorismo di marca islamica. Limitiamoci solo a menzionare comportamenti sociali quotidiani, tipo la patetica ossessione del velo, di cui non esiste traccia nel Corano, ma che costituisce l’iceberg di una mentalità repressiva nei confronti delle donne. Come trascurare poi la scandalosa mancanza di reciprocità mostrata nei confronti delle altre fedi in tanti Paesi musulmani? A parte le persecuzioni dei cristiani, fisiche o solo morali, tacite o esplicite (dall’Egitto all’Iràq e al Pakistan, solo per fare alcuni esempi), di solito è difficile o impossibile erigere chiese in un Paese musulmano. Il perché ciò venga docilmente accettato dai Paesi occidentali, che invece consentono senza problemi l’erezione di moschee e corteggiano (per via del loro petrolio) nazioni intolleranti come l’Arabia Saudita o l’Iràn, dovrebbe costituire oggetto di stupore anche per i più accesi fautori della real politik.

        Gli esempi citati non sono delle opinioni ma dei fatti, la cui eliminazione aiuterebbe a credere alla mitezza di fondo dell’Islàm. Il fatto che non tutti i musulmani siano affetti dallo stesso fanatismo di alcuni non toglie che spesso le manovalanze del terrorismo allignino proprio in seno a comunità esportate e trapiantate. 

        Stiamo esagerando e introducendo aspetti estranei al nostro argomento o colpevolizzando  i diversi? In realtà, li stiamo trattando da eguali…

        Solo gli smemorati o semplicemente degli incalliti ipocriti potrebbero infatti dimenticare alcune poco onorevoli ma secolari fasi di storia europea, quando, in nome appunto della religione, furono commesse atrocità inaudite, col beneplacito e incitazione della Chiesa, esattamente come analoghe atrocità vengono ora commesse da dei musulmani fanatici in nome dell’Islàm. Che uguaglianza maggiore di questa? Quindi, perché scandalizzarsi all’idea che certi germi siano presenti anche nel mondo musulmano, che non ha avuto il suo Illuminismo e la sua Rivoluzione francese? In realtà, i batteri sono sotto gli occhi di tutti, dai tentacoli cosmopoliti di Al-Qaida alla presenza del famigerato IS.

       Ci siamo avvicinati, anche culturalmente e geograficamente, agli aspetti meno appariscenti sottostanti l’attuale invasione.

       Il primo è che, paradossalmente, le violenze ideologiche, le lotte intestine e le carneficine, che hanno sconvolto dagli anni ’60 in poi certi Stati nord-africani e del Medio Oriente, erano impensabili o comunque infinitamente meno incontrollabili prima della decolonizzazione. L’indipendenza politica non si tramutò automaticamente in maggiorI libertà cittadine, in democrazia e tantomeno in maggior sicurezza per i movimenti di persone. A riprova che la repentina introduzione di modelli sociali e politici di tipo europeo non generò i conclamati progressi, basterebbe pensare a quel caos e disastro umani che sono diventati l’Iràq e la Libia. Con tutta la buona volontà possibile, è difficile credere che il sanguinoso disordine attuale sia meglio delle pur rozze e brutali dittature di un Saddam Hussein o del Colonnello Gheddafi. Per sostituire un male, ne fu introdotto un altro non meno incattivito.

       Insomma, natura non facit saltus. Com’era logico aspettarsi, regimi politici rappresentativi e laici, fabbricati in Europa dopo tormentati secoli di assestamenti, non potevano spuntare per magia da un momento all’altro in luoghi e popolazioni che quegli assestamenti non avevano vissuto. Tanto è vero che, se non fosse per il suo sottosuolo petrolifero provocatore di convenienti presbiopie, chi oserebbe negare che un’Arabia Saudita di turno sia ancora in una fase di nepotismo feudale?

       I fattori sopra menzionati non sono certo di ieri. Essi sono venuti maturando nel corso dei decenni, mentre un’Europa in preda a querelles interne, a poco saggi frazionamenti e alla sete di commesse e abbacinata da arroganti prospettive geo-politiche made in USA, stava distrattamente a guardare. E  quando prese delle iniziative, il loro fallimentare risultato è sotto gli occhi di tutti (vedi Iràq e Libia).

       Ora, il disordine e il caos politico e sociale fioriti in questo lungo periodo di sonnolenza sono, se non la vera causa, certo una delle origini delle migrazioni attuali, migrazioni che, prima che essere una vera e propria invasione, equivalgono a una sorta di emissione e spurgo, a un rigurgito negativo prodotto dagli Stati di provenienza. Il rigurgito rappresenta il fallimento sia di questi ultimi che delle politiche europee nei loro confronti. Sia pure indirettamente, tali Stati si liberano di una parte del peso umano dei loro problemi irrisolti, lasciando che le loro derive invadano l’Europa. Dalla Libia alla Siria non risulta infatti che qualcuno abbia seriamente cercato di pattugliare i confini. Un modo sottile di “colpire”…

       Nel frattempo, cosa ha saputo escogitare l’Europa di accorto e di lungimirante? Incitata dagli Stati Uniti (che però stanno dall’altra parte dell’oceano), da qualche anno essa perde il suo tempo (e il suo denaro) con l’Ucraina e con debitori insolventi, a cui lei stessa ha venduto per decenni beni di ogni genere, incluse armi costose (vedi Grecia). Sfasciare i regimi in nome della democrazia suona assai nobile, ma chi si precipitò a sfasciare quello libico non aveva previsto che in realtà non esistevano ancora in Libia “opposizioni democratiche”, come il caos attuale sta mostrando. Ironicamente, il brutale ordine del defunto Colonnello è stato sostituito da un disordine ancora più brutale. Risultato: molti barconi arrivano proprio dalle non vigilate coste libiche senza che né le autorità (o fazioni?) libiche né lo Stato italiano abbiano concertato un reale ed efficace dispositivo di vigilanza e di freno. Stesso discorso per l’Iràq: introdottovi il caos con una proficua invasione (vedi le super commesse ad Halliburton), chi adesso  anche solo immagina di riporvi il piede? Eppure, i migranti arrivano anche da lì.

      E nonostante il gran parlare che da anni si fa del regime siriano e della alquanto misteriosa “opposizione democratica” – abbiamo visto il risultato delle opposizioni democratiche in Libia e in Iràq -  cosa ha escogitato l’Europa per sanare il bubbone siriano? Nulla. Anzi, ha mosso una guerra economica proprio ai Russi, il cui sostegno  ha fino ad oggi garantito la permanenza al potere di Assad. Eppure sappiamo che buona parte dei migranti viene dalla Siria…

       Nel frattempo, uno dei frutti della “democratizzazione” dell’Iràq - il già citato sedicente Stato Islamico - ingloba più o meno impunemente vasti tratti di territorio a cavallo fra Iràq e  Siria, ma ai Curdi, gli unici che sono disponibili a scendere in campo e a rischiare con entusiasmo la pelle contro i miliziani d’incerta nazionalità dell’IS, le armi vengono date col contagocce. Anzi, c’è il caso che costoro siano bombardati dai Turchi, perennemente ossessionati dalla minaccia di uno Stato curdo, nato, come Adamo, da un lembo di Turchia. E i Turchi, guarda caso, sono preziosi alleati degli Stati Uniti e aspiranti membri dell’Unione Europea. 

        Intanto, forti delle distrazioni o abulie europee, i guerriglieri dell’IS continuano a far saltare in aria, senza colpo ferire, venerabili monumenti che anche il tempo aveva rispettosamente preservato. Anche in questo caso, cosa fanno gli Stati europei così occupati a rafforzare la Nato e il cordone sanitario anti-Russia? Nulla…Surrealmente, “nulla”… Quanto lo spazio dedicano le reti televisive a queste impunite bestialità? Poco, quasi nulla.

        Varie cose appaiono dunque surreali. Mentre tutti parlano di rifugiati “siriani”, rimane nel vago proprio cosa corrisponda alla famigerata “opposizione”, che provoca la guerra civile e, quindi, anche l’esodo. Inoltre, appare grandiosamente futile l’ostinazione con cui Nato e Usa perdano tempo con l’Ucraina, invece che mettersi d’accordo con la Russia per defenestrare Assad, se effettivamente costui è all’origine dei mali. Evidentemente entrambi non si rendono conto che i tempi della guerra fredda sono morti e sepolti e cheinvece l’astro destabilizzante del terrorismo islamico è in ascesa ovunque.

       Non meno surreale, se non stupefacente appare infine la faciloneria con cui molti sembrano disponibili ad accogliere indiscriminatamente moltitudini così diverse per costumi e cultura proprio in un’Europa dove, oltre la Crimea, già separatasi dall’Ucraina, anche Scozia, Catalogna, Paesi Baschi rivendicano secessioni; dove una folla di pseudo-entità nazionali si è separata nei Balcani e nei territori dell’ex-Impero Austro-Ungarico e forse domani rispunterà il per il momento sopito irredentismo irlandese. Nonostante i proclami e le invocazioni sull’integrazione e sull’unità, le rivendicazioni autonomistiche sono in realtà sempre più contagiose. Perché, quindi, una volta ospitate in Europa, tali masse non dovrebbero anch’esse sviluppare analoghe attitudini e rivendicazioni autonomistiche di qualche tipo? Lo stesso non sta forse già succedendo nella Tracia greca con una forte popolazione musulmana? Perché quello che già oggi succede fra Europei d’annata non dovrebbe poter succedere fra Europei freschi?

       Non c’è bisogno di scavare oltre per sostenere che le attuali misure ungheresi di argine dovrebbero essere applicate anche altrove.

       Dovrebbe essere chiaro che, accanto al problema dei numeri, accanto all’assurdità di voler entrare a forza in uno Stato, accanto al ruolo da pericoloso cane sciolto dei canali di manipolazione informativa, il problema di fondo che sta all’origine di tutto è la goffaggine della politica estera europea nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente. Nonostante siano ben visibili le origini geografiche dei migranti, l’ineffabile politica da struzzi europea sembra essere quella di prendersi incondizionatamente e irresponsabilmente in casa il frutto dei disastri sociali e nazionali di certi Stati, anziché rivolgersi ai de facto “mittenti” e premere perché cessino di esportare, direttamente o indirettamente, i loro disastri umani.

Antonello Catani, Atene, 20 settembre 2015

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L'Isis sprofonda nel medioevo se non peggio

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Il dramma che sconvolge le frange oscurantiste dell'universo islamico e che l'occidente non riesce a comprendere. Per il Califato islamico «per una ragazza è legittimo sposarsi a nove anni» e che «le ragazze più pure si sposeranno a sedici o diciassette anni». Dice anche che «l’urbanizzazione, la modernità e la moda vengono offerte dal diavolo in forma di negozi di moda e saloni di bellezza» e che una donna islamica dovrebbe avere pochi buoni motivi per uscire di casa. Dovrebbe farlo solo per andare a studiare teologia, se di lavoro fa l’insegnante o il medico per donne, oppure se va a combattere contro gli infedeli. Un documento firmato da un gruppo di donne dell'IS spiega che il modello occidentale è sbagliato (le donne devono smettere di studiare a 15 anni, per esempio). Un articolo assai interessante sul sito www.ilpost.it.

Le donne dell'Isis

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