Mussolini, e sai cosa bevi

Dalla propaganda politica a quella commerciale l'uso del Duce e del suo corpo. Mussolini accettò di farsi fotografare assumendo spesso pose che ai nostri occhi sfiorano il grottesco. Durante il Ventennio, furono circa 2000 le sue foto ufficiali, alle quali vanno sommate quelle (alcune migliaia) scattate da fotografi locali; a questi originali sono poi da aggiungere le riproduzioni il cui numero è stato calcolato tra gli 8 e i 30 milioni di esemplari. Minatore, aviatore, trebbiatore, condottiero, sportivo, nuotatore: su queste si fondò il «culto del Duce» che ispirò gran parte dell'iconografia ufficiale del regime, affidata alle sue fattezze ossessivamente replicate in manifesti, scenografie, affreschi murali, ritratti disseminati ovunque, riproposti in ogni paese, in ogni città, sulle facciate degli edifici pubblici e delle case private degli italiani. E proprio a queste immagini è dedicata una sezione della mostra «Propaganda. The Art of Political Indoctrination» organizzata a New York da Casa Italiana Zerilli-Marimò (New York University), curata da Nicola Lucchi e visitabile ora, a causa del coronavirus, solo online (www.casaitaliananyu.org).
Tra i reperti esposti, due in particolare sono quanto mai efficaci nel raccontarci il rapporto tra il capo e la folla che fu alla base della religione politica del fascismo. Il primo è una scultura di Renato Bertelli del 1933, Il profilo continuo di Mussolini, famosissima, riprodotta in continuazione in maioliche gigantesche o anche in umili fermacarte. Si tratta di una testa del Duce raffigurata in un contesto decisamente futurista, con una rappresentazione che ne suggerisce un movimento rotatorio, proponendo una sorta di Giano bifronte a 360 gradi, quasi che il dittatore potesse vedere ovunque, seguire con lo sguardo ogni movimento dei suoi fedeli: un'opera di gusto straordinariamente moderno che sottolineava il ruolo decisivo del Duce nell'organizzazione del consenso al regime.  In questo senso, ancora più esplicito è un secondo reperto in mostra, un manifesto dello svizzero Xanti Schawinsky realizzato in occasione del plebiscito del 1934, il secondo dopo quello del 1929. I «plebisciti nazionali» erano la sola parvenza di consultazione elettorale tollerata dal regime: per gli italiani si trattava di andare alle urne per votare l'elezione della Camera fascista esprimendo un «sì» o un «no» su una lista di 400 nomi, predeterminata dal Gran Consiglio, unica per l'intero territorio nazionale. «Il popolo voterà perfettamente libero. Ho appena bisogno di ricordare, tuttavia, che una Rivoluzione può farsi consacrare da un plebiscito, giammai rovesciare», erano state le minacciose dichiarazioni di Mussolini alla vigilia del voto del 1929. Gli elettori per i «sì» utilizzavano schede tricolori, per i «no» schede bianche, così che la segretezza del voto era totalmente vanificata. Anche nel 1934 vinsero ovviamente i «sì» con una maggioranza schiacciante, 99,84%. Per celebrare il successo Schawinsky immaginò un Duce il cui corpo era fatto di folla, con in primo piano un gigantesco SÌ in cui erano racchiusi i trionfali risultati elettorali. Il manifesto riusciva così a cogliere l'essenza del regime, quel «mussolinismo» senza il quale il fascismo non sarebbe esistito.
Tra i dittatori del XX secolo, Mussolini fu uno dei primi a capire l'importanza della politica spettacolo. Per restare all'Italia, fu il primo capo di governo a doversi confrontare con il cinema, con la radio, con i giornali, con i mezzi di comunicazione di massa. Tutti i suoi predecessori avevano potuto governare dal chiuso delle stanze di Montecitorio o di Palazzo Chigi; Mussolini scelse di fare politica nelle piazze, ai microfoni della radio, davanti alle cineprese dei documentari Luce. Le «masse oceaniche» che accorrevano ad ascoltare i suoi discorsi erano elementi essenziali di una scenografia studiata nei minimi particolari. E il culto del capo si sostituì a ogni altra istanza politica o ideologica. Si aveva fiducia nel regime perché si aveva fiducia nel Duce, e il suo stesso corpo divenne un oggetto da adorare. Lo scempio finale di piazzale Loreto fu in questo senso l'applicazione di una tragica legge del contrappasso: su quel corpo che era stato un idolo capace di attivare passioni e entusiasmi tumultuosi si scatenarono l'ira e il disprezzo delle stesse masse che lo avevano adorato.
Ma c'è un'altra sezione della mostra – quella dedicata al rapporto tra il fascismo e la società italiana - che oggi appare la più innovativa dal punto di vista storiografico. Un manifesto attira subito l'attenzione ed è quello per la pubblicità della birra Metzger: vi campeggia una gigantesca M, iniziale del marchio aziendale ma anche di Mussolini, quasi a suggerire un sorta di osmosi tra i simboli classici del regime e il mondo della pubblicità e dei consumi. Di fatto molte delle firme eccellenti che dominavano il mercato pubblicitario, come Dudovich e Diulgheroff, si prestavano volentieri a illustrare le «opere del regime», lasciando affiorare nel cupo universo dell'iconografia fascista i tratti di un'Italia che stava per aprirsi ai consumi e alle mode, lasciando affiorare i primi vagiti di quella grande trasformazione che nel dopoguerra avrebbe accompagnato il boom economico. All'italiano fascista voluto dal regime si affiancava l'italiano consumatore: il primo risultò una creatura effimera, il secondo celebrerà il suo trionfo mostrando subito i limiti di un progetto totalitario segnato da una marcata subalternità alle esigenze commerciali imposte dal mercato. —

Giovanni De Luna – La Stampa – 14 aprile 2020

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Nei tempi bui si prega la madonna

Quando le nostre forze sono insufficienti a dominare le situazioni, quando nessuno può darti una risposta sull'andamento pazzo di questo mondo, allora ti accorgi di quel Crocifisso che non avevi mai notato perché quasi nascosto in un angolo della chiesa». E' una frase in cui sembra riecheggiare il recente grido di dolore di papa Francesco, la disperazione di un totale affidamento alla sfera del sacro e del divino come estrema risorsa contro il male quando assume la configurazione catastrofica dell'epidemia o della guerra.
In realtà si riferisce a un altro contesto, forse per noi altrettanto drammatico.
A scriverla, in una lettera del 1943, è infatti una maestra elementare della provincia di Padova, Rina Troiani: dopo tre anni di un conflitto che si avviava a un esito terribilmente distruttivo, ci si sentiva inermi, indifesi, senza nessuna possibilità di proteggersi dalla morte che pioveva dal cielo e che si stava avvicinando anche via terra (nel luglio del 1943 c'era stato il primo sbarco alleato in Sicilia). E fu questo bisogno di protezione a sollecitare atteggiamenti sedimentatisi in tradizioni di lunghissimo periodo.
A Torino, la chiesa della Consolata, si affollò di ex-voto; la Madonna era stata scelta come protettrice della città nei giorni dell'assedio del 1706, quelli del sacrificio di Pietro Micca. «Fu in quell'epoca» — scrivevano nel 1944 i cronisti di allora— «che i torinesi, eleggendola a propria protettrice, si rivolsero alle miracolose doti della Madonna della Consolata, la cui immagine-quasi a scudo delle proprie vite e delle proprie case — affissero sulle porte degli edifici. Anche oggi il sano senso di fede che lega il torinese solidamente ai suo passato e alle sue tradizioni, ha fatto riapparire sui portoni delle case e sulle pareti dei ricoveri l'antica immagine della Beata Vergine».
A Napoli era la Madonna di Pompei a imporsi nella sua dimensione salvifica: «Ieri sera — alla data del 15 agosto 1943 scriveva nel suo diario una giovanissima, Lucia Pagetta — giù in ricovero si e fatta una funzione veramente coinvolgente. Tutti gli appartenenti a questo ricovero, circa 300 persone, inginocchiati ad un piccolo altare approntato per la festa, hanno recitato il Rosario alla Madonna di Pompei nel cui aiuto tutti hanno fede e speranza».
Era una «madre potente» quella a cui ci si rivolgeva; una madre sfolgorante di ori, autorevole, come appare alla stessa Lucia, il 30 novembre 1944, («oggi per la prima volta sono stata a Pompei. Mi sono trattenuta poco per cui non ho visto altro che il Trono della Vergine. Appena entrata sono rimasta come abbagliata, stordita e per i primi momenti non ho saputo formulare alcuna preghiera..») e rassicurante, con la quale era possibile stabilire intese segrete, patti confidenziali.
Una vera madre non dolorosa, in grado di riscattare dall'orrore e dal panico così come ricorda, a proposito della sua esperienza sotto le bombe, nel suo diario un'altra ragazza di allora, Nella D'Angelo: «Avevo molta fede e ricordo che pregai vivamente la nostra Madonna di Pompei a cui ero e sono tuttora devota, che se ci avesse fatto uscire fuori da quell'inferno illesi. Le avrei portato rispetto per tutta la vita, mediante un voto segreto... »
Nel vuoto apertosi tra gli italiani e il fascismo, nella disperazione dettata dall'incapacità del regime di dare risposte adeguate all'emergenza, si inserì con grande efficacia la Chiesa. Che in pratica si sostituì allo Stato. Nella guerra era impresso il segno del male del mondo, un male che si presentava anche con i colori della modernizzazione e della secolarizzazione. Stavano per dissolversi i tratti di quella società rurale, precapitalistica, frugale, morigerata sulla quale la Chiesa aveva modellato il suo insegnamento. La lettura della guerra come maledizione biblica fu l'involucro teorico della presenza capillare affidata alle parrocchie e affollata di gesti di carità. Funzioni pubbliche, giornate propiziatorie, recite del S. Rosario «pro pace» e turni di preghiera, accompagnati da esortazioni alla penitenza, alla modestia, alla fiducia in Dio scandirono le forme assolutamente eccezionali assunte allora dai comportamenti collettivi.
Per tutta la durata della guerra, le processioni registrarono sempre un grande concorso di fedeli. La mobilitazione di massa assumeva così nell'Italia in guerra i caratteri immutabili e destoricizzati delle pratiche misteriche, consegnandoci forme di devozione popolare destinate a scandire anche il clima infuocato dell'immediato dopoguerra fino a culminare nell'«anno dei miracoli», quel 1948 della vittoria democristiana alle elezioni politiche, in cui Madonne lacrimanti, sanguinanti, sfavillanti apparvero a bambini, adulti, vecchi.
Il messaggio di rassicurazione e fiducia che promanava dalle gerarchie ecclesiastiche, unito all'affidamento a un «materno» protettivo e caritatevole che segnò allora l'impetuosa ripresa del culto mariano, spiega oggi molte delle radici materiali e psicologiche del clima che per anni avrebbe segnato il panorama politico italiano.

Giovanni De Luna – La Stampa – 29 marzo 2020

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La fine del Duce a Dongo

  • Pubblicato in Cultura

Tra le 8 del 26 aprile 1945 e le 18 del giorno dopo il partigiano Mottarella incontrò la Storia. Di quelle ore ha lasciato una testimonianza (Diario dei giorni della liberazione), firmata («geometra Mottarella Vincenzo di fu Innocente», che ci proietta nel cuore dei convulsi avvenimenti che segnarono la cattura e la fucilazione di Benito Mussolini. L'articolo di Giovanni De Luna su La Stampa.

Mussolini ingannato, chi lo fece catturare

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