Scoop, quando i giornalisti fanno notizia

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Dentro Scoop ritroviamo pagine  che hanno svelato la Storia, capaci come l’articolo di Dino Buzzati di interpretare l’accaduto come un evento che vuole essere compreso e non nascosto, letto nei particolari, nella ricerca di certezze che non desiderano essere manipolate. Una verità non solo scientifica, basata sulla raccolta di elementi utili a risolvere i misteri del crimine, come nel ’46 il plurimo omicidio della belva di via San Gregorio, ma che diventa significativa per conoscere i caratteri delle persone coinvolte: i morti ammazzati e i vivi. Si ricompongono così spazi di vita che  risuonano delle voci dei protagonisti. Quello che emerge  è la sinuosa spirale dell’animo umano, poche volte superficie lacustre quieta, più spesso figura poliedrica simile a un cubo  dalle centinaia di facce. Storie di singoli, ma anche di popoli che vengono messi a confronto per comprendere i fatti. Incontriamo giornalisti in trincea: a Budapest, negli anni dei carri armati sovietici che invadono la città e nel momento in cui essi se ne vanno, quando si contano le vittime: collaboratori del regime e uomini del popolo,  giovani e madri. Cordoglio diverso per ognuno di loro. Il saggio Scoop dell’ex vicedirettore e giornalista del Corriere della Sera, Giangiacomo Schiavi, uscito con Antiga Edizioni, mette in luce e ragiona sulle scelte di quotidiani storici come ad esempio, La Stampa, Il Giorno, Il Corriere della Sera e Repubblica e di giornali ora chiusi, l’Europeo e Paese sera. Capiamo come sono stati indagati  gli avvenimenti e in quale maniera sono stati proposti ai lettori. La sua analisi ci cala in epoche diverse, ci fa comprendere il pensiero di un tempo trascorso e le sue passioni, grazie agli articoli di firme note. Nei brevi capitoli introduttivi ai “pezzi”,  si illustrano i diversi approcci al mestiere e il confronto viene quasi automatico con l’oggi modificato dalle dirompenti novità tecnologiche e forse, potremmo aggiungere, da cronisti e redattori che devono commentare una società molto  diversa da quella degli anni del dopoguerra. La cronaca nera che, durante il regime fascista era stata comunque l’unica ad essere meno censurata, trova nuova linfa negli anni Cinquanta, quando i cronisti arrivavano a volte prima della polizia nel risolvere i casi o ipotizzavano anche scenari diversi della scena del crimine. Florido Borzicchi e la vicenda del ritrovamento del catamarano della skipper assassinata nel 1988,  e la morte nel 1950, del bandito Salvatore Giuliani, raccontata da Tommaso Besozzi con la frase emblematica: di sicuro c’è solo che è morto, illustrano bene questi due casi. Lo Scoop tanto oggi criticato perché lo associamo al gossip o a giornali come quello   popolare: News of the World di Rupert Murdoch, era la cartina al tornasole che  rivelava il coraggio e la determinazione nel fare informazione. L’obiettivo era  di permettere al cittadino una consapevolezza, la possibilità di farsi un’idea reale sui fatti e  di poter  esprimere un giudizio credibile. Andare sul posto … ora non si va più. La crisi dei giornali di oggi si misura anche sul numero delle edicole chiuse, mentre spesso appare una professione giornalistica divisa tra il cottimo e il ruolo impiegatizio. Alla luce dei fatti odierni leggiamo sorridendo le righe del giornalista Manlio Concogni che con ironia mettono in luce, all’inizio della seconda metà del Novecento, episodi di corruzione nella capitale italiana. In questa occasione  incontriamo anche una penna, come lo scrittore Mario Soldati che si lamenta del crescente abuso edilizio. Giangiacomo Schiavi scrive di una nazionale del giornalismo in relazione a quella che  Il Giorno mise in gioco negli anni Sessanta. Essa provoca, denuncia, lancia grandi campagne per l’ambiente e inventa una narrazione che affascina i giovani e la futura classe dirigente del paese. Fra i loro nomi ci sono: Bocca, Stajano, Emiliani, Cederna, Barbato, Aspesi, Arbasino e Citati … Scalfari che, nel 1976 fondò Repubblica, propose: un giornale schierato che orienti la politica, la cultura, l’economia e demolisca l’aplomb anglosassone dei fatti separati dalle opinioni. Giangiacomo Schiavi ci spiega nel saggio perché Scalfari entra di diritto nel Pantheon dei grandi direttori del Novecento, con Luigi Albertini che creò il modello “Corriere” e Giulio De Benedetti che fece altrettanto alla “Stampa”. Enzo Biagi, poi che ha saputo parlare e scrivere con la testa e con il cuore, in qualità di direttore del Resto del Carlino, si impegnò per garantire una corretta informazione, equivalente al valore di un buon servizio pubblico fornito dagli enti  dell’acqua e della luce. Biagi fu spesso contestato e anche licenziato, ma la sua attività giornalistica  sembra essere stata utile anche ad insegnare, come con l’articolo di denuncia dei disagi  a Cinisello Balsamo che poi si rivolta in un’accusa contro di lui. Trentacinque anni dopo, la giunta comunale  gli chiederà scusa perché quanto aveva scritto  era servito a cambiare qualcosa. E poi ci sono i giornalisti per cui è riduttivo parlare di Scoop perché la loro è arte di scrivere: Tiziano Terzani e Oriana Fallaci.  Terzani ha vissuto trent’anni come inviato tra Cambogia, Thailandia, Vietnam, Cina e India. Di Oriana Fallaci sono memorabili le interviste con i potenti, con i grandi della terra, così come sono impeccabili, per perfezione formale, i pezzi che ha inviato all’Europeo e al Corriere della Sera. I libri  di Fallaci sono stati venduti nel mondo in milioni di copie. Gli scoop degli anni Novanta diventano libri. Marco Travaglio e Peter Gomez fanno la fortuna delle loro case editrici con una serie di inchieste. Ci sono tanti giornalisti che meritano di essere ricordati ed  è sicuramente assai emozionante e curioso ritrovare il loro raccontare in Scoop. Mentre leggiamo questa  carrellata di storie e  di nomi sentiamo rivivere un pezzo d’Italia, una fetta della nostra Storia e di quelli che ci hanno lasciato, siano essi i  giornalisti scomparsi o  i nostri cari. Il libro si conclude con un’intervista a Ferruccio de Bortoli, due volte direttore del Corriere della Sera e del Sole 24 ore e di cui si riporta un breve messaggio: Se il giornalista è preparato e autorevole svolge un compito prezioso: informa il cittadino affinché sia un soggetto autonomo, libero, percorso interiormente da un sano dubbio su ciò che legge  e vede, dotato di spirito critico.

Patrizia Lazzarin, 12 ottobre 2022

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La paura di fare delle scelte

L’unico assembramento che non si riesce a disciplinare è quello di esperti e consulenti coinvolti nell’emergenza pandemica: 15 task force per un totale di 448 persone. Per non parlare dei comitati e dei tavoli. La cornice normativa è imponente: siamo già a 212 atti nazionali secondo Openpolis. Incalcolabili i provvedimenti regionali e comunali. La curiosità è che la moltiplicazione e la sovrapposizione degli esperti avviene anche da parte della forza politica (Cinque Stelle) che ha fatto della riduzione dei parlamentari un inutile cavallo di battaglia. La scuola, lasciata in secondo piano, è un esempio significativo. Altrove riapre per agevolare anche il lavoro dei genitori. Da noi no. Ma si fanno due task force, una per la chiusura e l’insegnamento a distanza, una per la riapertura. Per non parlare poi delle app, delle applicazioni sugli smartphone. Quella nazionale (Immuni) dovrà conciliarsi con le locali, per esempio la Allertalom, già scaricata in Lombardia da oltre 900 mila utenti. Sono disorientate le persone che hanno dimestichezza digitale, figuriamoci le altre, in particolare i più anziani. Il possesso di dati certi e condivisi è fondamentale per la riuscita della fase due in un Paese nel quale il governo non riesce a mandare direttamente una mail o un sms ai cittadini. Se ognuno si sente proprietario dei propri dati, che interpreta a modo suo, è un problema serio. I codici Ateco delle varie filiere produttive non sono sufficienti per sapere chi fornisce chi e, di conseguenza, disciplinare le riaperture. Per fortuna c’è la tanto temuta fatturazione elettronica. La tracciabilità, nel rispetto della privacy, è anche un grande investimento sulla sicurezza, sulla digitalizzazione, oltre che sulla salute. Tutto questo agitarsi disordinato di task force, comitati, iniziative anche lodevoli seppur sparse, cela una paura che è persino superiore a quella del virus. La paura di scegliere, di soppesare i rischi di varia natura per il bene collettivo, guardando avanti e non al giorno per giorno da parte di chi è stato eletto o nominato per questo. Si chiama leadership. È la qualità degli statisti che non sono prigionieri della «veduta corta», come la chiamava Tommaso Padoa-schioppa, difetto genetico dei governi italiani. Angela Merkel ha spiegato in poche e semplici parole ai suoi concittadini rischi e doveri del «distanziamento sociale». Quando l’autorità è autorevolezza.

Gli italiani sono disciplinati e pazienti. Hanno dato prova di straordinario senso civico.

Sono consapevoli che il successo della fase due — da affrontare con tutta la gradualità e la cautela necessarie — dipenderà dall’autodisciplina. Cioè dalla capacità dei singoli e delle aziende di adattarsi al meglio (e su questo ci possiamo scommettere) a un quadro di regole destinato a mutare in profondità le abitudini di vita e di lavoro. Se questo quadro sarà incerto, oscuro e contraddittorio (come la montagna normativa) e accompagnato da polemiche strumentali e piccinerie di parte, il messaggio che arriverà alla gente sarà uno solo: «arrangiatevi». Il che non è diverso da quel «liberi tutti» paventato come disastroso da diversi scienziati. Dunque, si tradurrà in una complicità di fatto con il virus, che si nutre di caos quotidiano, vanificando gli sforzi collettivi. Mentre la prima linea della sanità combatte ogni giorno per salvare delle vite — con un sacrificio che peserà sulla coscienza nazionale per anni — i vari livelli di governo del Paese non riescono a trovare, almeno per ora, una sintesi responsabile. Medici, infermieri e tutta la grande macchina di competenze e solidarietà che si è messa in moto in queste settimane sanno che ordine delle priorità, chiarezza delle scelte e rispetto dei tempi sono irrinunciabili per salvare un malato. Vale anche per il Paese nel suo complesso. È necessario dunque — come ha scritto il direttore del Corriere Luciano Fontana — un cambio di passo. Una governance dell’emergenza più chiara che rassicuri e indirizzi gli italiani verso l’obiettivo della ripresa e del ritorno alla normalita’.

Decisioni

I vari livelli di governo del Paese non riescono a trovare, almeno per ora, una sintesi responsabile normalità nella tutela della salute. Senza polemiche di parte o di campanile, senza sfumature regionali o di partito. Senza la cacofonia di segnali contraddittori o minacce di chiudere addirittura i confini della propria regione se le altre affrettassero le aperture. Un percorso nel quale sia chiaro chi ha la responsabilità delle decisioni. Nomi e cognomi. Senza l’alibi della risposta certa della scienza che non potrà mai venire allo stato attuale. La scelta sarà solo politica. Una responsabilità piena, non condivisa, non condizionata. E aiuterà, lungo questa strada, ammettere errori e sottovalutazioni. Ne hanno fatti tutti. In tutti i Paesi. Sostenere che le colpe eventuali sono solo dei tecnici (nominati da chi?) suona infantile e arrogante. Non aiuta certo ad accrescere la fiducia dei cittadini disorientati. E lascia scoperti eserciti stremati di combattenti in prima linea. Nella storia italiana è già successo.

Ferruccio De Bortoli – Corriere della Sera – 19 aprile 2020

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Fiducia preziosa, non tradiamola

La lotta al Male (vorremmo non chiamarlo più per nome, una volta tanto) ha ancora bisogno di interventi e sforzi straordinari. Nuove strutture di terapia intensiva, personale specializzato, attrezzature, mezzi finanziari. E ha bisogno di tutti noi. Non dobbiamo mollare. I giorni decisivi sono questi. Le immagini dell’impegno senza sosta di medici e infermieri, sono esempi di dedizione professionale e di altruismo che commuovono e suscitano l’ammirazione del mondo. Molti di loro hanno perso la vita per salvare quella degli altri. La nostra gratitudine nei loro confronti è infinita. Ci permettiamo di proporne la visione (con quello che sta succedendo in ospedali di altri Paesi) alla prossima riunione a distanza dei vertici europei. Utile più di tante parole e troppi distinguo. Pur nelle polemiche, il Paese è unito, disciplinato, disponibile a sacrificarsi accettando, se necessario, misure più stringenti. La resistenza al Male di coloro che stanno forzatamente a casa ha bisogno però di continue iniezioni di fiducia, di segnali corretti su quello che accadrà dopo. La fiducia è un ingrediente prezioso, il collante del nuovo senso civico. Se dispersa o tradita allenta lo sforzo sovraumano che il Paese sta producendo nella lotta al virus. Si alimenta di prudente realismo non di scenari ingannevoli. O di promesse buttate lì, che non si sa come garantire. Solo nelle ultime ore: un ipotetico reddito di emergenza universale e l’aiuto a tutti i lavoratori in nero (3,7 milioni secondo l’Istat). La crisi mette a repentaglio la tenuta sociale in alcune zone del Paese. Lo si è visto in questi giorni. Ma creare illusioni rischia di accendere il fuoco della rivolta anziché spegnerlo. Si ripete continuamente che nessuno perderà il posto di lavoro per colpa del virus. È una pietosa bugia. Sappiamo tutti che non sarà così. In una sola settimana negli Stati Uniti 3,3 milioni di persone hanno chiesto sussidi di disoccupazione. In Italia si stima (Cerved) che almeno il 10 per cento delle aziende fallirà. Sono posti che spariscono. E forse sono già stati cancellati. Decine di imprese, costrette alla chiusura non saranno in grado di riaprire o di recuperare il fatturato in filiere interrotte dal crollo dei mercati. Nemmeno il più ottimista degli osservatori può pensare che un Paese possa sopportare a lungo il costo di diverse forme di integrazione al reddito pari a 13,5 miliardi al mese (Ufficio parlamentare di bilancio). 

Non possiamo correre il rischio di veder fallire lo Stato. E a questo proposito, sono irresponsabili e stridenti le promesse di un «anno bianco» sotto il profilo fiscale, perché la mancanza di liquidità metterebbe a rischio il pagamento di pensioni e stipendi e vanificherebbe gli sforzi sul piano dell’emergenza sanitaria. Chi può paghi. Chi non può verrà aiutato al massimo. I furbi sono i nuovi sciacalli. È una esortazione antipatica, brutale, lo sappiamo. Ma necessaria. L’interruzione del circuito dei pagamenti — che dovrebbe essere sostenuto da ampie garanzie sul piano bancario e dai prestiti a tasso zero a famiglie e aziende — crea un vortice infernale. Travolge tutti. La sospensione degli adempimenti fiscali riguarda per ora il mese di marzo (sull’attività di febbraio in gran parte ancora regolare). Tra giugno e luglio si avrà la prova della verità sulle denunce dei redditi conseguiti nel 2019. Quanti di questi contribuenti avranno la liquidità sufficiente per essere in regola? Si discute molto in questi giorni sulla possibilità che l’unione Europea emetta strumenti finanziari per contrastare la recessione e rilanciare gli investimenti, in particolare nell’area sanitaria. La dichiarazione di ieri di Ursula von der Leyen contraria ai coronabond non lascia grandi speranze. Senza entrare negli aspetti tecnici già affrontati da numerosi articoli sul Corriere (ieri Mario Monti) e da altri autorevoli interventi (Romano Prodi sul Messaggero e Carlo Cottarelli sulla Stampa), occorre non illudere gli italiani. Esiste pur sempre una differenza tra la beneficenza e il credito per quanto agevolato. 

E la prima non ce la fa nessuno. I debiti sono sempre debiti. Anche se sarebbe auspicabile che quelli contratti per la lotta alla pandemia e per il rilancio europeo fossero condivisi. Solo quelli, non gli altri. Quando però a livello politico si spiega la preferenza per gli eurobond, dicendo che non ci si può indebitare all’infinito, si trasmette al pubblico un messaggio fuorviante. I pasti gratis non esistono nemmeno nel mezzo di una pandemia. Quando si dice no al Mes (Meccanismo europeo di stabilità), perché vorrebbe dire indebitarsi, si lascia intendere che fare più deficit non lo sia. Il patto di stabilità è giustamente sospeso. L’Italia ha più margine per indebitarsi, ma a costi più alti, nonostante l’aiuto della Banca centrale europea.

Nell’intervista di ieri ai giornali italiani, il presidente francese Emmanuel Macron insiste sul fatto che ci troviamo di fronte a uno choc esogeno e simmetrico. Ma che purtroppo avrà costi diversi sui vari Paesi. Noi pagheremo il prezzo più alto. Alcuni Paesi del Nord ritengono che le conseguenze della pandemia saranno più contenute. Al premier olandese Mark Rutte, il più duro oppositore di un’azione comune dell’unione Europea contro la crisi, Giuseppe Conte potrebbe inviare un piccolo documento. Pochi fogli. The missing profits of nations, «I profitti perduti dalle nazioni». Pubblicato dal National bureau of economic research di Cambridge MA. L’Italia perde ogni anno circa 20 miliardi di euro di imponibile sui profitti realizzati da multinazionali italiane con sedi in paradisi fiscali, di cui 17 in Paesi europei. Amsterdam è la preferita.

Ferruccio De Bortoli - Corriere della Sera - 29 marzo 2020

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