I finanziamenti dalla Cina e il rischio che i dati italiani finiscano in mani straniere

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Oramai spuntano ovunque. Versatili e gentili, i cinesi si infilano nelle operazioni più diverse e anche nella storia dell'app «Immuni» sembrava tutto gratuito e disinteressato. L'offerta da parte di una società - finanziata tra gli altri anche da capitali cinesi - è stata intrigante: un' applicazione, infilata nello smartphone di milioni di italiani, in grado di avvertire sul rischio di un contagio tutti coloro che nei giorni precedenti abbiano incrociato un positivo al coronavirus.
Ma col passare dei giorni la vicenda sta cominciando a mostrare aspetti opachi, dimostrando di essere un crocevia di interessi politici ed economici. Una vicenda tipica di questa stagione, nella quale la debolezza strategica dell'Italia, fiaccata dal virus, sta accrescendo l'appetito di potenti che ci guardano con cupidigia. Russi e soprattutto cinesi, che cercano e talora trovano alleati nel Belpaese.
La vicenda Immuni si sta ingrossando sulla base di scoperte e di retroscena che vanno ben oltre la diatriba politica. La sostanza è questa: il commissario all'emergenza Domenico Arcuri - su incarico della ministra per l'Innovazione Paola Pisano - ha affidato l'incarico di sviluppare la app alla società Bending Spoons, che oltre a essere finanziata anche dai cinesi, è sviluppata da ricercatori svizzeri, al punto che una parte dell'affaire potrebbe ricadere sotto la vigilanza di un governo – quello cantonale – che non appartiene alla Ue. Risultato davvero originale di tutte queste carambole: a gestire preziosi dati pubblici (quelli sulla salute di milioni di italiani e quelli sui loro spostamenti) potrebbe ritrovarsi una società privata.
Ecco perché la vicenda finirà domani all'attenzione del Copasir, il Comitato per i Servizi: a portarcela sono stati Enrico Borghi, il rappresentante del Pd nel Comitato ed Antonio Zennaro, capogruppo dei Cinque stelle, vicino al presidente del Consiglio e assai meno a Luigi Di Maio. Chiederanno che siano interpellati i Servizi per capire se la sicurezza nazionale sia in qualche modo a rischio.
Tutto ha inizio a metà marzo. La task force nominata dalla ministra Pisano effettua una call finalizzata a individuare la migliore tecnologia (a titolo gratuito) capace di realizzare il tracciamento della popolazione ai fini della lotta alla pandemia. Curiosamente ai 74 membri della Commissione viene chiesto di sottoscrivere un «non disclosure agreement», una clausola di riservatezza. Procedura singolare, visto che la scelta non riguarda questioni attinenti la difesa. Rispondono alla chiamata 319 imprese. Saltate (pare) le rituali tappe intermedie, come le interviste alle singole aziende, una semplice ordinanza di Arcuri («ma serve la copertura di una legge», avverte ora Graziano Delrio, capogruppo Pd alla Camera), porta alla scelta della app «Immuni» e dunque di società che nel proprio azionariato hanno imprenditori dai nomi altisonanti. Come i tre figli di Silvio Berlusconi (Luigi, Eleonora e Barbara), Renzo Rosso, Paolo Marzotto, Giuliana Benetton, il finanziere Davide Serra (da tempo amico di Matteo Renzi), Mediobanca ma anche il fondo Nuo Capital, che investe in Italia con capitali cinesi.
Secondo il «Domani d'Italia», compassato quotidiano online di orientamento cattolico democratico diretto dall'ex senatore Lucio D'Ubaldo, «la Bending Spoons fa parte (unica società italiana) di un consorzio non profit (PEPP-PT) appena costituito, con sede legale in Svizzera», è sostenuta dalla Fondazione Botnar di Basilea, che a sua volta è sotto la vigilanza del governo svizzero.
Un sistema a scatole cinesi in salsa svizzera che ha fatto scattare l'allarme dell'ala «atlantista» del Pd. Chiede Enrico Borghi: «Perché questa società è disponibile ad agire a titolo gratuito? Google e Apple come saranno coinvolte? Chi gestirà dati pubblici così sensibili? Sulla rete si muovono stakeholders, società private, entità statuali, cybercriminali che possono contaminare o male utilizzare Big Data che non devono essere intercettabili o men che meno utilizzabili all'estero».

Fabio Martini –La Stampa – 21 aprile 2021

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"Ora servono Eurobond per centinaia di miliardi. I singoli Stati non bastano”

È mezzogiorno, è domenica e a quest'ora, puntualmente ogni settimana, Romano Prodi esce dalla parrocchia di San Giovanni a Bologna al termine della messa. Stavolta no, stavolta risponde dal suo telefono di casa in via Gerusalemme: «Siamo dentro una emergenza che ti priva delle cose che ti sono più care». Ma oltre ad essere un cattolico osservante, Prodi è anche un padano che non si stanca di studiare e di pensare al futuro e in queste ore, racconta, «penso e ripenso a come potere uscire da questa grave emergenza. E credo che l'Europa e l'Italia siano chiamate a decisioni all'altezza di una crisi senza precedenti. Alla tragedia delle vite umane si unisce il dramma economico».
L'Unione europea in questi giorni si è manifestata con le parole delle due donne più influenti, parole assai diverse tra loro, ma in fin dei conti un' Europa che conferma di essere pensata soltanto per «quando c'è il bel tempo», come ha detto Lucrezia Reichlin?
«Il bel tempo mi sembra piuttosto lontano. Venendo all'oggi: della Lagarde, presidente della Bce, si era detto che non ha esperienza tecnica, ma che è una raffinata politica. Speriamo che abbia imparato un po' di tecnica! Quanto alla Commissione europea, prima di pronunciarsi, ha aspettato che l'emergenza coronavirus diventasse tragica. Certamente la presidente Von der Leyen ha fatto dichiarazioni positive, ma lo erano pure quelle sul Piano verde. Poi, per la verità, non ha potuto mettere le necessarie risorse nel Bilancio. Tutto è sempre nelle mani del Consiglio. Decidono gli Stati, ma ora la gravità della situazione impone di cambiare».
E quale potrebbe essere il segnale di una svolta vera, percepibile, epocale?
«È arrivato il momento di mettere in atto un salto di solidarietà, di lanciare una strategia europea per impedire una crisi irreversibile che toccherà anche gli altri Paesi europei. La misura da prendere è l'emissione di Eurobonds, come strumento per raggiungere obiettivi comuni. Gli Eurobonds, da una parte sarebbero il segno della solidarietà, ma consentirebbero anche l'avvio della politica economica e della fiscalità a livello europeo che ancora non esistono».
Lei pensa ad una cura d'urto, incomparabile con quelle sinora immaginate?
«Per un momento eccezionale servono risorse finanziarie eccezionali: un piano nell'ordine delle centinaia di miliardi, anche se non possiamo quantificarlo ora perché non sappiamo quanto precisamente durerà questa crisi e quale profondità avrà».
Come lei ben sa i tedeschi si sono sempre opposti: perché stavolta dovrebbero cambiare idea?
«Perché stavolta nessuno potrà dare colpe all'Italia o ad un singolo Paese. Temo che tra qualche giorno comprenderemo che la crisi determinata dal virus non è soltanto un problema italiano. Noi abbiamo più debito di altri, ma questa crisi tocca tutti. Anche i tedeschi difronte ai fatti nuovi cambiano idea: chi due giorni fa avrebbe immaginato che la Germania chiudesse le frontiere con l'Austria e la Francia?».
In questi giorni ogni Paese europeo ha pensato a se stesso mentre a Bruxelles chi doveva pensare a tutti, ha finito per balbettare: sarà il coronavirus ad accelerare la nascita di una Europa politica?
«Se non ora, quando? L'Europa politica non potrà mai decollare da una teoria, ma dai fatti! Se non capiamo che oggi l'Eurobond è legittimato politicamente, oltreché tecnicamente, quando lo capiremo? È arrivato finalmente il momento di dotarsi di uno strumento di intervento straordinario che vale per tutti: il titolo pubblico del debito pubblico europeo».
Possibile che davanti ad emergenze epocali non si riesca a prendere atto che eccezionalmente si devono assumere decisioni comuni?
«Certo, è bene che in tempi ordinari la politica sanitaria resti una competenza nazionale, ma è evidente che davanti ad un'emergenza, se tu produci mascherine e io respiratori, la cosa più logica è scambiarseli. Agire in comune è infinitamente più efficace che agire separatamente».
Il governo ha tamponato l'emergenza con misure attese e condivise dalle parti sociali, ma le prime stime su quello che ci attende, sia a livello di debito-deficit che di ricadute sociali, fanno paura: come se ne esce?
«Le risorse messe a disposizione dal governo mi auguro che siano spese subito, perché l'economia purtroppo rischia di crollare a "vite", si rischiano fallimenti per le imprese e tragedie per le famiglie. E in ogni caso non sapendo che durata avrà la crisi, non mi sento di quantificare la caduta del Pil né la misura del deficit pubblico. Ma ho un chiodo fisso: l'Italia appronti, da subito un piano per il rilancio del Paese in modo da tornare a renderci competitivi quando l'emergenza sarà finita».
Facile a dirsi. La storia nazionale è piena di libri dei sogni, di progetti faraonici…
«Ci sono alcuni grandi eventi che impongono cambiamenti ma offrono anche opportunità. La globalizzazione non è finita ma si sta manifestando in forme diverse dalle previsioni. Molte nostre imprese che nel passato sono emigrate, in parte si preparano a rientrare. In Cina, ad esempio, resteranno soprattutto le imprese interessate al mercato interno, ma altre si allontaneranno, perché i costi stanno crescendo anche lì. Nel 1982 scrissi un articolo che era titolato: "Italia-Cina 1 a 40", perché da noi il costo per ora lavorata aveva quel rapporto lì. Oggi siamo scesi a 1-2,5 e tra non molto si andrà verso il rapporto di 1 a 1".
Non resta che attendere quelle imprese?
«Noi abbiamo, purtroppo, un costo del lavoro drammaticamente inferiore a quello di Francia e Germania. Tuttavia le imprese straniere, pur avendo convenienza a venire da noi, preferiscono andare altrove a causa dei nostri difetti politici e burocratici. Si deve riorganizzare il sistema-Paese. Il governo riunisca subito un ristretto gruppo di specialisti che prepari un pacchetto di regole e di incentivi per i nostri imprenditori e per quelli stranieri». Fabio Martini – La Stampa – 16 marzo 2020
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Quirinale 2013, i franchi tiratori affossano Prodi

Nell'aprile del 2013, nelle elezioni per il Colle, l'ex segretario dei democratici Pierluigi Bersani, dopo aver fatto ritirare Marini, sta precipitosamente convergendo anche lui su Prodi. Confida oggi Marini: «La rapidità con la quale Bersani ha lanciato Prodi, senza preparare troppo la candidatura, si spiega in un modo solo: provò a giocare d’anticipo perché temeva una candidatura di D’Alema a quel punto vincente». Una ricostruzione postuma che si incastra perfettamente con l’altro colpo di scena di quella notte: D’Alema fa sapere di essere pronto a sfidare Prodi. A scrutinio segreto! Scontro lacerante ma vero tra i duellanti di un ventennio. Nel cuore della notte vengono preparate le schede per la mattina successiva. La ricostruzione di Fabio Martini su La Stampa.

Quirinale 2013, chi ha pugnalato Prodi

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