La scuola si riprende la parola

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È tempo di nuove scelte. La scuola vive, riflette e interagisce con la crisi profonda che investe le nuove
generazioni. La guerra in Ucraina, nel cuore dell’Europa, cancella 70 anni di pace e di relazioni aperte tra l’Europa e la Russia. Nulla sarà più come prima nelle relazioni internazionali, nel rapporto con genti e culture di altri Paesi, ed è ancora debole e incerto il ruolo che la Comunità europea dovrebbe al più presto assumere per essere soggetto decisivo per conquistare la tregua delle armi e l’avvio di una prospettiva di pace.
La guerra rischia anche di frenare l’impegno verso una svolta nel rapporto tra le persone e la natura. Tutti sanno che non c’è un secondo tempo per impedire la catastrofe climatica, eppure, anche a causa della guerra e delle speculazioni del mercato, c’è un evidente tentativo di rallentare ogni processo significativo verso una svolta profonda per una nuova ecologia, rivendicata con forza dai giovani.
La crisi economica e un modello produttivo che punta tutto sull’uso a termine della forza lavoro, e non sulla qualità e durata dello stesso, aggravano ulteriormente le prospettive per milioni di giovani. In questo contesto la scuola vive in una condizione di abbandono che dura da tempo.
Ora, alla crisi delle politiche di riforma, si aggiunge una deriva preoccupante, in particolare il rischio di una svolta dirigista e neo-conservatrice.
Una scuola che si appella alla centralità del merito, dei talenti da valorizzare è una scuola subalterna al modello di impresa e al mercato.
Una scuola che riflette anche la crisi della partecipazione alla vita politica e sociale del Paese. Nel post pandemia, il piano di riforme e finanziamenti previsti dal PNRR poteva essere l’occasione per investire in partecipazione, soprattutto dei giovani. Ma non è andata così.
Da tempo, le radici che hanno alimentato per lunghe stagioni gli organi collegiali della scuola, sono oramai essiccate. La mancata partecipazione dei cittadini alla vita politica si riflette duramente anche sulla realtà scolastica. La scuola scivola verso un progressivo isolamento che rischia di spingerla a chiudersi in se stessa, nelle fortezze di lunga durata della burocrazia, delle carte, dei procedimenti.
Le relazioni interne alla scuola si impoveriscono in dinamiche prevalentemente individuali, esposte al rischio di derive autoritative se non, talvolta, autoritarie.
Un’intera stagione che ha visto protagonista una parte significativa del mondo della scuola, che ha scommesso sull’autonomia conquistata alla fine degli anni ’90, tende a rifluire di fronte all’avanzare di queste derive. In questa condizione di debolezza, i rischi che il progetto governativo di autonomia differenziata possa affermarsi nella indifferenza del Paese e degli stessi lavoratori della scuola vanno scongiurati.
La scuola, infatti, vedrebbe minacciata quella funzione fondamentale che le è stata assegnata dalla Costituzione: concorrere alla costruzione e diffusione della cittadinanza, del civismo, della solidarietà, della formazione unitaria delle nuove generazioni per un Paese unito e indivisibile. Valori incedibili a qualsivoglia localismo. Il mondo della scuola deve respingere questo progetto e in questa fase deve in primoluogo contare sulle proprie forze. Deve riprendersi la parola. Le associazioni professionali della scuola AIMC, CIDI, MCE, PROTEO FARE SAPERE ritengono che ciò sia oggi possibile rilanciando dall’interno della scuola un nuovo processo partecipativo che faccia perno in primo luogo sui docenti e i dirigenti scolastici, sulla loro capacità di riconquistarsi un ruolo centrale per il futuro della scuola e dei suoi esiti, formativi e sociali. I docenti protagonisti di una nuova stagione di innovazione e cambiamento con l’obiettivo di conquistare e praticare nuovi spazi di autonomia, di pratica della ricerca didattica, di organizzazione del lavoro, di ricostruzione di una relazione forte con il territorio e i suoi soggetti, in collaborazione e sinergia con il Sindacato, le RSU e gli Organi Collegiali d’istituto.
Un movimento che ridia fiducia anche a genitori e studenti per un progetto condiviso di formazione delle nuove generazioni; un movimento che chiami tutte le istituzioni e soggetti del territorio a costruire percorsi ed esperienze di nuova ricerca didattica e pedagogica.
La scuola pubblica in Italia, fin dalle origini (1859) ha assunto e svolto un ruolo insostituibile per l’unificazione del Paese. La costruzione di una cittadinanza e appartenenza diffusa ha trovato, dopo la tragediadel fascismo e nella nostra Carta Costituzionale, i principi fondamentali per realizzare
in ogni luogo del Paese il diritto all’istruzione per almeno otto anni, poi diventati dieci. Un diritto pertanto universale che non può essere alterato da logiche campanilistiche o centralistiche.
La formazione delle nuove generazioni reclama una competenza esclusiva dello Stato nelle norme generali dell’istruzione. Questa dimensione nazionale del “sistema di istruzione, formazione e lavoro” (art.8 DPR 275/99) non tollera ipotesi di centralismo regionalista e non tollera pratiche di centralismo ministeriale come avviene ormai da troppi anni.
Lungo questa strada l’autonomia scolastica rischia di esaurire ogni sua potenzialità per il cambiamento del sistema. I segnali pericolosi di ripiegamento, chiusura, autoreferenzialità indicano la gravità della crisi. Se la scuola perde il suo rapporto con la società, non ha futuro.
Per queste ragioni, non solo vanno sconfitte ipotesi regressive di autonomia differenziata, ma è necessario attivare al più presto politiche capaci di riaprire, a tutti i livelli, una nuova dimensione orizzontale del sistema di istruzione. A cinquant’anni dall’istituzione degli Organi Collegiali, vanno ridefiniti nuovi spazi di partecipazione, di programmazione ai vari livelli territoriali, da quello regionale a quello comunale, in cui i diversi soggetti della società ritrovino un interesse condiviso per il miglioramento di un bene comune da cui dipende in buona parte il futuro del Paese.

Con questi valori e finalità le associazioni professionali propongono agli operatore della scuola l’istituzione a livello di singolo istituto e in modo capillare sul territorio nazionale di un patto di impegno unitario per costituire nelle scuole “Tavoli interassociativi per il rilancio dell’Autonomia scolastica e di una nuova organizzazione del lavoro”. A tal fine, avviano un percorso che prevede una conferenza nazionale entro la
conclusione dell’anno scolastico e una iniziativa nazionale alla ripresa del prossimo per diffondere questa nuova dimensione associativa e rinsaldare i valori costituzionali che devono tornare al centro delle politiche per l’istruzione e la formazione delle nuove generazioni.

Clara Manca – 2 giugno 2023

 

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Con De Mauro sui sentieri dell'educazione linguistica

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L’insegnamento della lingua italiana può essere visto come un viaggio lungo, complicato, pieno di sorprese, ma anche di difficoltà improvvise e di ostacoli …. Ecco, allora, la necessità di trovare una guida, sicura ed esperta, pronta a suggerirti  i percorsi migliori, studiati e sperimentati, ad affiancarti … quando a non battere i sentieri prima di te. Per molti insegnanti, questo è stato il professor Tullio De Mauro, scomparso da poco più di un mese.

Forse proprio per questo, il mondo dell’educazione linguistica democratica -  illustri  linguisti e docenti universitari, accanto a maestri, professori, educatori e associazioni, coinvolti da anni in sperimentazioni e attività di autoaggiornamento -  si è ricompattato di recente. Infatti, una lettera firmata da 600 docenti universitari , inviata al Ministro e alla stampa, ha risvegliato il dibattito sulle carenze linguistiche degli studenti italiani. A questo appello si è aggiunto poco dopo un articolo di Ernesto Galli della Loggia sul “Corriere della Sera”,  il quale  addirittura imputa allo stesso De Mauro, e alle sue posizioni “radicali” contro la pedagogia linguistica tradizionale, lo sfascio linguistico dei giovani, come del resto hanno fatto il prof. Giorgio Ragazzini  (del “Gruppo di Firenze per una scuola del merito e della responsabilità”) o il giornalista Spartaco Pupo.

Dove ricercarne le cause, quali interventi proporre? E qui una valanga di interventi e prese di posizione sui media.

I “600” firmatari suggeriscono soluzioni al problema, basate sul merito, la selezione, il controllo … quasi un ritorno al buon tempo antico. Tra gli altri tre tipi di intervento: una revisione delle Indicazioni Nazionali (che hanno sostituito i vecchi “Programmi” per il primo ciclo) – troppo lasse a loro dire -; un aumento delle verifiche nazionali periodiche, al fine di controllare gli apprendimenti; una presenza nelle prove di uscita da un ciclo scolastico di docenti della scuola di grado successivo (es.: di scuola superiore per esami di terza media).

Difficile riassumere qui le numerose obiezioni a tali “soluzioni”, che però si possono raccogliere in tre filoni principali.

1. La difesa del “professore emerito”, come si può evincere dalla stessa Circolare del Miur, che ha risvegliato il livore dell’opinionista del quotidiano di via Solferino. Tullio De Mauro è stato uno dei più illustri linguisti del panorama italiano: storico, glottologo, socio-linguista, lessicografo (si pensi solo ai suoi Dizionari …), ha speso parte della sua vita ad occuparsi di scuola. “Non uno di meno” era uno dei suoi impegni, perché la scuola non lasciasse indietro nessuno, debole o svantaggiato che fosse, ma desse a tutti  il diritto ad un uso corretto e consapevole della lingua, grazie ad un rinnovamento della didattica e ad un serio impegno e ad uno studio continuo da parte degli insegnanti.  Anzi, oltre ad affiancare i docenti e a confrontarsi con loro nelle associazioni  professionali (il Giscel, da lui fondato, insieme al  Cidi e al Lend), a partire dalle Dieci Tesi per un’educazione linguistica democratica (di oltre 40 anni fa), più di recente si era occupato del cosiddetto “analfabetismo di ritorno”, che sta colpendo una buona fetta della popolazione adulta.

2. La validità delle Indicazioni Nazionali nel delineare il quadro di competenze in uscita dalla scuola del primo ciclo e nel fornire anche esempi di percorsi e applicazioni di tali principi. A  sostegno di tale affermazione, due constatazioni: la scuola primaria resta nelle indagini internazionali una delle meglio posizionate; la persistenza di un errore grossolano presso la classe docente (sotteso in parte anche alle  Linee Guida per i Licei), che il percorso di apprendimento della lingua si concluda con la scuola dell’obbligo, mentre tale processo non deve terminare  con l’Università, anzi dovrebbe continuare per tutta la vita.

3. La mancata formazione iniziale e quella in itinere della classe docente, nella maggior parte dei casi abbandonata a se stessa. Come ha scritto Mario Ambel in “Insegnare”: “In realtà le Tesi per un’educazione linguistica democratica hanno fatto breccia in gruppi assai ristretti di docenti, spesso confinati in scuole e situazioni di frontiera, il tempo pieno della scuola di base o gli istituti professionali, dove ci si misurava davvero con la difficoltà di insegnare e apprendere l’uso adeguato della lingua. Mentre nel resto della scuola italiana hanno continuato a trionfare un insegnamento della lingua di stampo grammaticista, anche se sempre meno efficace, e l’analisi logica (ritagliata sull’apprendimento del latino)”.

Sarebbe invece opportuno riflettere maggiormente sulla natura delle difficoltà incontrate dagli studenti nelle prove Invalsi e , contemporaneamente, sulla reale conoscenza e applicazione delle Indicazioni Nazionali  nelle nostre aule scolastiche. Così come è urgente da parte di chi si occupa di educazione tout court (quindi, istituzioni politiche comprese) una maggiore attenzione  alle trasformazioni dei mezzi di comunicazione di massa e, più in generale, a quelle originate da una società sempre più complessa e multiculturale.

Clara Manca, Cidi, Torino

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Insegnare logora? Forse no!

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Consapevolezza professionale, con progettazione e competenze trasversali. Si parla (anzi si straparla …) oggi di competenze, un po’ in tutti gli ambiti. In particolare nella scuola, benché persistano i voti-reinseriti recentemente anche nella scuola media- le interrogazioni programmate, la media dei voti, le assenze strategiche … Ma che vuol dire competenza? Ricordiamolo: “un insieme strutturato di conoscenze, capacità e atteggiamenti”. Un po’ difficile da coniugare con il modello tradizionale di scuola, che ancora impera in tante, troppe aule. Per questo, è degno di attenzione il tema di un convegno che si è tenuto a Torino a maggio, ad opera del Cidi (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti), una storica associazione di docenti: il Cidi, appunto. Dedicato soprattutto a insegnanti della scuola dell’infanzia e primaria, il convegno è stato il punto di arrivo di un percorso di tanti docenti impegnati a riflettere sulle Indicazioni Nazionali, che oggi dovrebbero guidare la didattica dei docenti, al posto dei vecchi programmi ministeriali più rigidi e prescrittivi. Di questi lavori si è parlato, e soprattutto sono stati condivisi i risultati, nei laboratori pomeridiani, durante i quali è stato possibile anche provare a lavorare su problemi e materiali nell’ottica di un insegnamento competente.

Se si parla di “soggetto competente” il nostro pensiero va subito allo studente, a come dovrebbe essere, senza soffermarsi invece su un’altra prospettiva: l’insegnante competente. Perché per uno studente motivato, in linea con le competenze europee, è necessario un docente “competente”, con una metodologia composita: didattica (saper progettare, osservare, documentare, aiutare, fare domande opportune, gestire l’errore), comunicativa e collaborativa, che consiste nel saper ascoltare, costruire un percorso, dare un feed-back costruttivo; gestionale (saper gestire gruppi, tempi spazi, risorse, ma anche ostacoli), riflessiva, di ricerca. Come dire, il portfolio delle competenze di un insegnante …

Come intervenire per una scuola veramente attenta al discente? Con la progettazione didattica, innanzitutto, che una volta era vista come un’arte o una dote naturale, mentre oggi, in un mondo complesso e pieno di cambiamenti continui, deve divenire una metodologia di “previsione” e di ricerca, e soprattutto modificabile in corso d’opera. Non è proprio quello che succede ordinariamente, come sembra emergere da un’indagine sul rapporto fra programmazione annuale e attività didattica in classe, con una grande separazione fra l’una e l’altra, con lezioni pensate di volta in volta senza una organizzazione dei concetti in maniera gerarchica e una loro organizzazione in una rete di relazioni.

Con apprendimento non si intendono soltanto i progressi che l’allievo compie nella singola disciplina, quanto invece le attitudini, gli abiti mentali, gli interessi che si sono venuti formando in lui. In tale direzione si muovono, appunto, le Indicazioni Nazionali, che intendono il curricolo come l’insieme di conoscenze e abilità disciplinari (curricolo attivo) ma anche di pratiche educative (curricolo implicito). Perciò, per la formazione del soggetto competente si dovrà attivare un curricolo unitario verticale, frutto dell’accordo fra insegnanti delle varie discipline su una metodologia per l’apprendimento attivo e per le competenze di cittadinanza, grazie ad un lavoro comune sulle competenze trasversali. Obiettivo ultimo è, pertanto, non quello di dare singole tecniche e competenze, ma quello di formare ogni persona sul piano cognitivo e culturale attraverso l’azione didattica.

Quanto alla valutazione si può ricordare con Mario Comoglio che la valutazione è la verifica del progetto dell’insegnante!

Che cosa è, quindi, valutabile e progettabile? Non gli apprendimenti che ci saranno realmente. Si possono solo stabilire gli obiettivi, preparando dei contesti nei quali verificare successivamente gli esiti dell’azione educativa: strategie, atteggiamenti, modalità di interazione in classe, ecc., modificabili in itinere, tradotti poi in modalità operative (il “fare” degli allievi), ripetibili e realizzabili in contesti diversi.

In conclusione, è oggi necessario introdurre nelle nostre aule un apprendimento attivo, che si basa su un presupposto: si impara facendo. L’alunno deve essere coinvolto in modo attivo in situazioni problematiche, in compiti di realtà, a partire dalla propria esperienza; lavorare in collaborazione con i compagni; riflettere sui processi (metacognizione) con un conseguente rinforzo cognitivo fino ad autovalutarsi.

Possiamo dire, per concludere, un mestiere difficile, “usurante” quello dell’insegnante, che deve prendere decisioni all’impronta, deve continuamente riflettere sul proprio lavoro (possibilmente con il gruppo “amico-critico”, deve saper cambiare prospettiva per un suo sviluppo professionale tra consapevolezza e competenze.

Clara Manca – Cidi – Torino – 23 luglio 2016

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