La libertà secondo Trump

Quindici anni fa, nelle vesti di esperto in antisemitismo del Comitato ebraico americano, sono stato il primo ad abbozzare quella che all’epoca fu chiamata la «definizione operativa dell’antisemitismo», creata perlopiù per permettere a chi raccoglieva dati in Europa, di sapere che cosa includere e che cosa escludere. Così facendo, l’antisemitismo avrebbe potuto essere tenuto sotto controllo meglio e ovunque, al di là di ogni confine.

Nelle intenzioni, non era previsto che dovesse diventare un parametro di istigazione all’odio nei campus universitari, eppure, poco tempo fa, ciò è quanto si è trasformato in realtà in seguito a un ordine esecutivo firmato dal presidente Usa Donald Trump.

Il suo provvedimento è un attacco diretto alla libertà accademica e alla libertà di parola e non danneggerà soltanto i sostenitori filopalestinesi, ma anche gli studenti ebrei e le facoltà, oltre alle università stesse. Il problema non sta tanto nel fatto che l’ordine esecutivo parla di protezione degli studenti ebrei in conformità all’articolo VI del Civil Rights Act (la Legge sui diritti civili).

Nel 2010 il ministero della Pubblica istruzione ha precisato che ebrei, sikh e musulmani (intesi come gruppi etnici) possono presentare reclamo in caso di intimidazione, sopruso e discriminazione appellandosi a questo articolo.

Sono stato favorevole a questa precisazione e ho presentato con successo una denuncia a nome di alcuni studenti liceali ebrei bullizzati e addirittura presi a calci (in occasione di un "Kick a Jew Day", un giorno nel quale "prendere a calci un ebreo").

A partire dal 2010, tuttavia, alcuni gruppi ebraici di destra hanno utilizzato la "definizione operativa" – che riportava alcuni casi riguardanti Israele (per esempio ritenere colpevoli tutti gli ebrei dell’operato di Israele, e negare agli ebrei il diritto all’autodeterminazione) – e hanno deciso di utilizzarla come arma nelle cause che fanno riferimento all’articolo VI.

Mentre alcune cause riguardavano comportamenti, perlopiù le dichiarazioni deploravano oratori, temi assegnati e proteste che, a loro dire, violavano la definizione.

Perse tutte le cause, quegli stessi gruppi hanno chiesto all’Università della California di adottare la definizione e di applicarla nei suoi campus.

Quando hanno fallito, si sono rivolti al Congresso e, quando anche quel tentativo è andato a vuoto, al presidente.

Come hanno chiarito i propugnatori dell’ordine esecutivo, come la "Zionist organization of America" (Organizzazione sionista d’America), secondo loro l’adozione della definizione «funge da copertura per molti abusi contro gli ebrei […] guidati spesso da […] Students for Justice in Palestine che, tra altre cose, […] incita all’intifada [ed] esecra Israele».

Per quanto io sia in disaccordo con Sjp, bisogna ammettere che ha il diritto di fare "appelli": questa si chiama libertà di parola.

Se state pensando che qui non si tratta di mettere un bavaglio alla libertà di espressione politica, provate a prendere in considerazione un’analogia.

Non esiste una definizione di razzismo contro i neri che possa essere applicata con validità di legge quando si discute una causa relativa all’articolo VI.

Se doveste metterne a punto una, includereste il fatto di contrastare una discriminazione? Vi opporreste alla rimozione delle statue dedicate ai Confederati? Jared Kushner, genero del presidente e suo consigliere particolare, ha scritto sul New York Times

che la definizione «chiarisce [che] l’antisionismo è antisemitismo». Io sono sionista ma, in un campus universitario dove si va per approfondire le idee, gli antisionisti hanno diritto a esprimersi in totale libertà. Immagino che se Kushner o io fossimo nati in una famiglia palestinese sfollata nel 1948, avremmo una visione completamente diversa del sionismo, e non perché denigriamo gli ebrei o ipotizziamo che siano autori di una cospirazione contro il genere umano. Perdipiù, all’interno della stessa comunità ebraica è in corso un acceso dibattito per capire se essere ebrei implichi il fatto di essere sionisti. Ignoro se sia possibile dare una risposta valida a questa domanda, ma il fatto che in pratica il governo stia dando la risposta al posto nostro dovrebbe incutere timore in tutti gli ebrei.

Il vero scopo dell’ordine esecutivo del presidente non è ribaltare gli equilibri in un numero esiguo di cause relative all’articolo VI, bensì avere un effetto raggelante. Il Zoa e altri gruppi contrasteranno fortemente i discorsi politici con i quali sono in disaccordo e minacceranno di intentare cause legali. Temo che adesso gli amministratori possano avere una forte motivazione a mettere il bavaglio al discorso politico per paura di contenziosi, o quanto meno a condannarlo.

Temo che le facoltà – che possono insegnare la vita degli ebrei nella Polonia del XIX secolo o nel moderno Israele con la stessa facilità – probabilmente riterranno più sicuro optare per la prima.

Temo che gli studenti e i gruppi ebraici filo-Israele, che giustamente si lamentano non appena viene insultato un occasionale oratore filo-Israele, si possano fare la reputazione di quelli che usano strumenti di Stato per mettere il bavaglio ai loro avversari politici.

L’antisemitismo è un problema reale, ma troppo spesso la gente, sia della destra politica sia della sinistra politica, lascia correre se una persona ha una visione "giusta" di Israele.

Dal punto di vista storico, l’antisemitismo attecchisce e prospera quando le autorità alimentano la capacità umana di definire un "noi" e un "loro", e ovunque l’integrità delle istituzioni e delle convenzioni democratiche (per esempio la libertà di parola) sia sotto attacco.

Invece di patrocinare le raggelanti espressioni che gli ebrei filo-Israele trovano irritanti, invece di riservare critiche soltanto tiepide (se mai le riservano) a un presidente che usa ripetutamente cliché antisemiti, perché i funzionari ebrei presenti alla firma dell’ordine esecutivo di Trump non gli hanno rammentato che l’anno scorso – quando ha stigmatizzato gli immigrati chiamandoli "invasori" – un tale Robert Bowers è entrato nella sinagoga di Pittsburgh, perché credeva che dietro a questa "invasione" di gente di colore ci fossero gli ebrei desiderosi di complottare contro i bianchi, e ha massacrato undici di noi?

Kenneth Stern – la Repubblica – 27 gennaio 2020

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Educare alla memoria

  • Pubblicato in Cultura

Educare alla prevenzione dei crimini contro l’umanità. La proposta di istituire una Giornata della Memoria da celebrare nelle scuole d'Europa è frutto del lavoro compiuto dal Consiglio d'Europa nell'ambito dell'insegnamento della storia del XX secolo. Lo studio del Novecento deve necessariamente affrontare anche la questione della promozione dei diritti umani e della democrazia. Infatti, i crimini contro l'umanità sono da considerare, insieme alle due guerre mondiali, alle dittature ed al pericolo latente di un'apocalisse nucleare, una delle tragiche caratteristiche della storia d'Europa nel XX secolo. Il Consiglio d'Europa ha proposto un'operazione di stimolo della memoria, per tener vivo il ricordo di quei crimini: una rivisitazione storica non fine a se stessa, ma finalizzata per comprendere la necessità di promuovere il rispetto dei diritti umani, la tolleranza ed il dialogo. Sulla base di questo lavoro, ed in occasione della Conferenza ministeriale di Cracovia nel 2000 e del Seminario ministeriale di Strasburgo nell’ottobre del 2002, i ministri della pubblica istruzione degli Stati membri del Consiglio d'Europa hanno deciso di istituire, in stretta collaborazione con il Consiglio d'Europa, una “Giornata della memoria”, da celebrare in tutti gli istituti scolastici degli Stati membri a partire dal 2003 e secondo le modalità e priorità stabilite dai singoli paesi.

In qualità di Stato membro del Consiglio d'Europa, la Svizzera ha partecipato alle due conferenze ministeriali, approvando la decisione di organizzare una “Giornata della memoria”. La data stabilita è quella del 27 gennaio, nel ricordo del giorno in cui avvenne la liberazione degli sventurati prigionieri del campo di concentramento di Auschwitz da parte dei soldati dell'Armata Rossa nel 1945. Nelle scuole svizzere, questa giornata è stata celebrata per la prima volta il 27 gennaio 2004. Una celebrazione che ha lo scopo di rinnovare la memoria su queste pagine particolarmente dolorose della storia d'Europa e di suscitare una riflessione su antisemitismo, antirazzismo e sul significato della tolleranza e del rispetto dei diritti umani.

La Germania, la Francia, la Svezia e la Repubblica Ceca hanno a loro volta deciso di organizzare, il 27 gennaio, la Giornata commemorativa della liberazione dei prigionieri del campo di concentramento di Auschwitz da parte delle truppe dell'Armata Rossa. Per il suo valore simbolico, tale data è risultata la più adatta per ricordare la tragedia dell'Olocausto e sensibilizzare sui crimini contro l'umanità. Alcuni paesi hanno scelto una data differente, relativa a un isodio della loro storia nazionale. L’Italia rimembra l’Olocausto il 27 Gennaio, una data significativa proposta all’inizio è stata quella del 16 Ottobrein memoria della deportazione dei romani dal ghetto ebraico nel ‘43. l'Austria ricorda l'Olocausto il 5 maggio, giorno della liberazione del campo di concentramento di Mauthausen.Bulgaria, Ungheria, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Polonia, Romania, Slovacchia, Serbia, l’ex repubblica Jugoslava di Macedonia hanno istituito il giorno della memoria della Shoah in concomitanza di eventi storici avvenuti nei rispettivi paesi durante il periodo dell’Olocausto. Ad esempio, l’Ungheria commemora il 16 Aprile, data in cui fu creato il primo ghetto a Munkas, mentre la Lituania ha scelto il 23 Settembre in memoria dello sterminio degli Ebrei nel ghetto di Vilnius nel 1943. I contenuti di una tale Giornata variano a seconda dei paesi. In alcuni, l'accento è posto sull'accoglienza prestata ai rifugiati e sugli sforzi della popolazione intesi a proteggere gli ebrei dallo sterminio (Andorra, Bulgaria, Finlandia, Grecia e Turchia). In altri, la Giornata diventa anche un momento di riflessione più generale, sulla tolleranza, sui diritti umani e sulla lotta contro il razzismo (Belgio e Francia). In Germania, l'insegnamento sull'Olocausto costituisce materia obbligatoria, che supera ampiamente i limiti imposti da una sola giornata commemorativa. Da parte sua, il Consiglio d'Europa ha così denominato il programma “Educare alla memoria. Educare alla prevenzione dei crimini contro l’umanità”.

Nei lager sono morte almeno 15 milioni di persone, di cui tra i cinque e i sei milioni erano ebrei, 500mila rom e sinti, almeno duecentomila disabili, diecimila omosessuali, 2.500 preti cattolici e altrettanti testimoni di Geova (perseguitati soprattutto per il rifiuto di prestare servizio militare), 109 pastori protestanti e 22 popi ortodossi. E poi prigionieri di guerra russi e polacchi, civili slavi e dissidenti. È l’Olocausto, la strage che ha travolto milioni di persone di nazionalità e religioni diverse.

I massacri che per dodici anni hanno percorso il continente finiscono ufficialmente il 27 gennaio 1945, quando le truppe sovietiche entrano ad Auschwitz trovando l’impensabile, o forse quello che non si era mai voluto vedere: duecentomila prigionieri ancora in vita e le tracce di 1,5 milioni di morti. Nel 2005 le Nazioni Unite hanno deciso di dedicare il 27 gennaio al ricordo dell’Olocausto e di tutte le sue vittime. Gli ebrei ne avevano già fatto una memoria di popolo celebrando la shoah, la catastrofe. Solo più recentemente anche i rom hanno strutturato una loro memoria collettiva nel porajimos, la devastazione.

Sono passati poco più di dieci anni dalla sua istituzione, eppure già si parla di logorio del giorno della memoria, lo si considera un esercizio retorico e già liso. Ma in tempi di antisemitismo e antigitanismo, di razzismo e di crisi della convivenza, in tempi in cui i testimoni viventi stanno scomparendo, il giorno della memoria non è solo una parentesi di retorica buonista: è un’occasione per interrogarsi sulle radici e sul futuro delle società europee.

Il problema è che si sta consumando ben altro: le forme, i contenuti, i linguaggi della memoria, con le sue giornate più o meno rituali. Altre memorie premono fino a confondere quel rapporto tra l’unicità della shoah e il diritto di altri stermini e genocidi a essere ugualmente ricordati.

Più ancora della conoscenza storica, la memoria impone una relazione vissuta fra il passato ricordato e il presente che ricorda. La commemorazione smette di essere un rituale e diventa memoria vissuta se quello che ci raccontiamo del passato serve a orientare il nostro agire nel presente. Il ricordo della Shoah rischia di restare relegato a un passato autoconcluso se non insegna niente a un’Europa che oggi rischia di andare in pezzi per l’incapacità di accogliere migranti e profughi. Una giornata della memoria dovrebbe servire anche a farci ricordare che l’Europa che oggi respinge i migranti è la stessa Europa che ha inventato e messo in pratica il genocidio organizzato. Non è stata la nostra barbarie, è stata la nostra cultura che ha prodotto e produce tutto questo.

Isabella De Leonardis

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