Han Yuchen, Tibet, splendore e purezza

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Entriamo dentro l’altopiano del Tibet a passi misurati, ammirando i suoi incredibili paesaggi dove si muovono e ci osservano donne, uomini e bambini dai volti espressivi, con  la pelle segnata dal sole e dal vento. Una luce sorge dal fondo dei dipinti, quasi un palcoscenico o il fondale di una distesa marina che fa risplendere i luoghi e illumina i visi, permettendoci di  afferrare una verità umana più profonda che si coniuga con la ricerca di spiritualità. HAN YUCHEN, TIBET, SPLENDORE E PUREZZA è la mostra che dal 14 luglio noi potremmo “attraversare” nelle sale di Palazzo Bonaparte a Roma, assaporando la sensazione di poter conoscere dal vivo le persone e gli spazi dell’altopiano, denominato tetto del mondo per  la sua altitudine media  di  4900 metri sul livello del mare. Meta di tantissimi occidentali, questa regione incanta il nostro immaginario. Potremmo solo ricordare  il viaggio dell’esploratrice francese Alexandra David- Néel che, nei primi anni del Novecento, abbandonò una carriera di successo come cantante lirica, e sopportò situazioni vicine al limite della sopravvivenza per poter raggiungere Lhasa, la capitale della regione. L’artista cinese Han Yuchen che ci riporta con le sue creazioni l’incanto di questa terra aveva perso la possibilità di iscriversi all’Accademia Centrale di Belle Arti, a causa delle particolari circostanze politiche in Cina e per ragioni familiari. Negli anni 70’, dopo una brillante, anche se dura carriera come direttore di un grosso centro commerciale, si riavvicina alla pittura dopo aver visto i dipinti ad olio del famoso pittore cinese Dong Xiwen e di Chen Danqing. Egli scrive e racconta, anche a voce: “ nel 2006, quando misi piede per la prima volta sul suolo tibetano, la maestosa bellezza delle montagne e dei fiumi e la gentilezza e la purezza della gente del luogo mi hanno emozionato e fatto provare così tante sensazioni che ho pensato che il Tibet fosse l’anima dell’umanità che stavo cercando, e che il Tibet fosse la fonte inesauribile della mia creazione.” L’artista che vive attualmente ad Handan, nel nord della Cina, è proprietario anche di una galleria d’arte di quasi 10.000 mq che comprende nel suo patrimonio un centinaio di dipinti del XIX secolo, in particolare di Millet, Corot, Goya, ma fra cui troviamo anche opere di pittori italiani.  Alla fine dell’Ottocento la pittura ad olio venne introdotta in Cina  ed è diventata oggi la principale forma d’arte del paese. “Palazzo Bonaparte, con questa rassegna dedicata al Maestro Han Yuchen, illustre rappresentante del  Realismo cinese, continua a valorizzare nei suoi splendidi saloni”, come spiega, Iole Siena, Presidente del Gruppo Arthemisia, “il  dialogo fra Oriente ed Occidente e  fra presente e passato”. La pandemia ha ritardato l’inaugurazione inizialmente prevista nel 2020. La mostra si  divide in tre sezioni indicate come Paesaggi, Ritratti e Spiritualità e comprende quaranta opere di grandi dimensioni che sono espressione del profondo legame morale e spirituale che lega l’artista alla regione autonoma della Cina. “La natura del suo Tibet”, spiega la curatrice  Nicolina Bianchi, non è, o meglio non è solo un luogo dove l’ambiente naturale viene illustrato in una sua esclusiva piacevolezza. Quei tratti dell’altopiano sono colti nella loro primitiva bellezza, nella loro radiosa architettura, ma anche nella loro severità aridità. La vegetazione disegna una topografia a volte brulla e rigorosa, ma il sorriso nascosto della Ragazza con la sciarpa o quello innocente, puro, di Nyima, pur tradendo sacrificio e fatica, infondono serenità e quasi addolciscono la natura selvaggia che li circonda e le ampie prospettive desertiche”. Sono luoghi incontaminati dalla potente colonizzazione dell’uomo tecnologico. Nel quadro“La Pastorella” le greggi di capre bianche nella luce del loro manto  sembrano  stemperarsi nei toni marroni della terra: un terreno di cui riconosciamo gli accidenti, fatti di tanti sassolini che si nascondono, quasi metafore degli intoppi del percorso umano. Il turchese del fazzoletto con cui  la  giovane avvolge il capo e i fiori colorati sulla camicia  conducono  il nostro  sguardo sui suoi passi che, seppure lenti e faticosi sembrano, come l’azzurro, promettere altro, forse  la  pace o ancora  l’infinito. Nel quadro “I verdi pascoli”, il disegno e le sfumature di tonalità dei piani retrostanti già sembrano preannunciare l’arrivo di una mandria di neri yak: il verde  diventa  lo scenario dove essi ci appaiono nella loro monumentalità e forza dopo la discesa. La consistenza materica dei loro mantelli, anch’essi segnati dalla fatica,  e alcuni dei loro musi bianchi, con lo sguardo vivo, mentre osservano noi spettatori, creano un filo diretto con la nostra sensibilità. Una poesia dell’Universo che si svela nell’ambiente, negli animali e nelle persone senza fratture. Compaiono paesaggi innevati o assolati, dove protagoniste sono spesso le donne, a volte giovani altre con molti anni, con le loro gerle sulle spalle. Molte ci mostrano i loro sorrisi e il loro sguardo fiero. E poi ci sono i monaci, le donne devote, i pellegrinaggi, le processioni religiose e le tante scene dove un’umanità si concentra, come nei grandi affreschi cinquecenteschi, per raccontare episodi di vita quotidiana, come possiamo ammirare nel “Gioco degli anelli”. Sono scene quasi d’altri tempi, rimaste intatte come gioielli dentro una teca che ha saputo svolgere in maniera egregia la sua funzione protettiva. Gabriele Simongini, anch’egli curatore dell’esposizione riferisce a proposito dell’artista: “ per lui il Tibet è una sorta di patria dell’anima, perduta ed originaria, da ritrovare. Il suo è un realismo etico che intende offrire un modello ideale e forse utopistico per una vita più semplice e spirituale”. Le sue opere saranno visibili a Palazzo Bonaparte fino al 4 settembre 2022.  

Patrizia Lazzarin, 15 luglio 2022      

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Jago come Michelangelo ed è già una rock star

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L'immagine della Venere di Jago, pseudonimo di Jacopo Cardillo, lo scultore italiano che ha tratto il suo nome d'arte dalla cruda tragedia shakespeariana di Otello, ci riporta alla fragilità, simile a quella di un bicchiere di cristallo, dell'essere umano. Ci confrontiamo con una figura androgina, senza capelli, con gli arti inferiori ingrossati come ad una persona a cui difetta una buona circolazione, le vene che emergono sulle tozze mani come canali, i seni nudi protetti dalle braccia ed un tappeto di rughe che disegnano sul corpo e, soprattutto sul viso, la mappa di una vita ed i suoi racconti più faticosi. La scultura ci fa scordare subito, in maniera repentina, la bellezza a cui si associa normalmente il nome di Venere. Cosa vuole narrare Jago che recupera il gusto dell'arte antica e rinascimentale per farne veicolo di riflessioni sul valore dell'essere umano? Pezzi o meglio cubi di argilla e di marmo servono come sostegno a questa diversa Venere che si trasforma in Natura, costruita di pelle, arterie, cuore e soprattutto di sentimenti come quelli che nascono dall'osservazione delle opere dell'artista. Le sue sculture possiedono un linguaggio capace di superare l'effimero e la staticità per comunicare con immediatezza ed efficacia, riuscendo ad arrivare sino ai giovani. Palazzo Bonaparte, nel centro di Roma, ospita da oggi, 12 marzo fino al 3 luglio un'esposizione a lui dedicata, curata da Maria Teresa Benedetti e con documentazione storico-critica di Vittorio Sgarbi. La mostra intitolata JAGO. The Exhibition è prodotta ed organizzata da Arthemisia con la collaborazione di Jago Art Studi. Se si andassero a cercare le possibili ispirazioni della Venere di Jago, come dicevamo, simile ad un'anziana donna, vedremo che non potremmo paragonarla ad una delle tante copie romane della Vecchia ubriaca di Mirone di Tebe o alla nota Vecchia di Giorgione, ma essa possiede l'intensità di espressione che la avvicina all'opera con lo stesso nome dello scultore croato del 900' Ivan Meštrović e al Nudo di vecchia contadina di Maria Elisa Boglino, artista di origini danesi che trascorse la sua vita in Italia, tra Palermo e Roma. La fragilità della carne è la stessa, ma non ci impaurisce. Dentro quella materia pulsa la vita. Le forme si modificano, ma l'umanità resiste e si rivela nella sua tenacia e al tempo stesso nella sua morbidezza. Jago, pur giovanissimo. è già un artista di successo. Nel 2009 a 24 anni, su suggerimento di Maria Teresa Benedetti era stato selezionato da Vittorio Sgarbi per partecipare alla cinquantaquattresima edizione della Biennale di Venezia dove aveva esposto il busto in marmo di Papa Benedetto XVI che gli valse il premio delle Accademie Pontificie, consegnatogli nel 2010 dal cardinale Ravasi. Dopo il 2016, anno della sua prima mostra personale a Roma, ha vissuto e lavorato in Italia, Cina ed America. È stato professore ospite alla New York Academy of Art, dove ha tenuto nel 2018 una master class e diverse lezioni. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali tra cui nel 2013 il premio Gala de l'Art di Monte Carlo, il premio Pio Catel nel 2015, il Premio del pubblico Arte Fiera nel 2017 e nello stesso anno l'investitura come Mastro della Pietra al MarmoMacc. Egli ama scavare, dentro il mondo e dentro le cose, come quando recupera i sassi del fiume per ritrovarci al loro interno nuove immagini. Cosi si racconta "mi considero un uomo e uno scultore del mio tempo. Utilizzo il marmo come materiale nobile legato alla tradizione, ma tratto temi fondamentali dell'epoca in cui vivo. Il legame col mondo è fortissimo. Guardo a ciò che mi circonda, gli do forma e lo condivido." Excalibur, nome che ci riporta alle storie medievali di re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda, è il sasso che contiene il kalašnikov: un'arma, strumento di violenza. Dove inizia e finisce l'ideale cavalleresco e dove comincia o cessa l'aggressione: uno slittamento di piani e di valori che suggerisce, non senza ironia, più risposte possibili. E poi "è simbolica", come scrive la curatrice, "la nudità del pontefice in Habemus Hominem, sigillo di un gesto di radicale spoliazione. Il corpo di Papa Benedetto XVI risulta denudato, il volto sorride con L'immagine della Venere di Jago, pseudonimo di Jacopo Cardillo, lo scultore italiano che ha tratto il suo nome d'arte dalla cruda tragedia shakespeariana di Otello, ci riporta alla fragilità, simile a quella di un bicchiere di cristallo, dell'essere umano. Ci confrontiamo con una figura androgina, senza capelli, con gli arti inferiori ingrossati come ad una persona a cui difetta una buona circolazione, le vene che emergono sulle tozze mani come canali, i seni nudi protetti dalle braccia ed un tappeto di rughe che disegnano sul corpo e, soprattutto sul viso, la mappa di una vita ed i suoi racconti più faticosi. La scultura ci fa scordare subito, in maniera repentina, la bellezza a cui si associa normalmente il nome di Venere. Cosa vuole narrare Jago che recupera il gusto dell'arte antica e rinascimentale per farne veicolo di riflessioni sul valore dell'essere umano? Pezzi o meglio cubi di argilla e di marmo servono come sostegno a questa diversa Venere che si trasforma in Natura, costruita di pelle, arterie, cuore e soprattutto di sentimenti come quelli che nascono dall'osservazione delle opere dell'artista. Le sue sculture possiedono un linguaggio capace di superare l'effimero e la staticità per comunicare con immediatezza ed efficacia, riuscendo ad arrivare sino ai giovani. Palazzo Bonaparte, nel centro di Roma, ospita da oggi, 12 marzo fino al 3 luglio un'esposizione a lui dedicata, curata da Maria Teresa Benedetti e con documentazione storico-critica di Vittorio Sgarbi. La mostra intitolata JAGO. The Exhibition è prodotta ed organizzata da Arthemisia con la collaborazione di Jago Art Studi. Se si andassero a cercare le possibili ispirazioni della Venere di Jago, come dicevamo, simile ad un'anziana donna, vedremo che non potremmo paragonarla ad una delle tante copie romane della Vecchia ubriaca di Mirone di Tebe o alla nota Vecchia di Giorgione, ma essa possiede l'intensità di espressione che la avvicina all'opera con lo stesso nome dello scultore croato del 900' Ivan Meštrović e al Nudo di vecchia contadina di Maria Elisa Boglino, artista di origini danesi che trascorse la sua vita in Italia, tra Palermo e Roma. La fragilità della carne è la stessa, ma non ci impaurisce. Dentro quella materia pulsa la vita. Le forme si modificano, ma l'umanità resiste e si rivela nella sua tenacia e al tempo stesso nella sua morbidezza. Jago, pur giovanissimo. è già un artista di successo. Nel 2009 a 24 anni, su suggerimento di Maria Teresa Benedetti era stato selezionato da Vittorio Sgarbi per partecipare alla cinquantaquattresima edizione della Biennale di Venezia dove aveva esposto il busto in marmo di Papa Benedetto XVI che gli valse il premio delle Accademie Pontificie, consegnatogli nel 2010 dal cardinale Ravasi. Dopo il 2016, anno della sua prima mostra personale a Roma, ha vissuto e lavorato in Italia, Cina ed America. È stato professore ospite alla New York Academy of Art, dove ha tenuto nel 2018 una master class e diverse lezioni. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali tra cui nel 2013 il premio Gala de l'Art di Monte Carlo, il premio Pio Catel nel 2015, il Premio del pubblico Arte Fiera nel 2017 e nello stesso anno l'investitura come Mastro della Pietra al MarmoMacc. Egli ama scavare, dentro il mondo e dentro le cose, come quando recupera i sassi del fiume per ritrovarci al loro interno nuove immagini. Cosi si racconta "mi considero un uomo e uno scultore del mio tempo. Utilizzo il marmo come materiale nobile legato alla tradizione, ma tratto temi fondamentali dell'epoca in cui vivo. Il legame col mondo è fortissimo. Guardo a ciò che mi circonda, gli do forma e lo condivido." Excalibur, nome che ci riporta alle storie medievali di re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda, è il sasso che contiene il kalašnikov: un'arma, strumento di violenza. Dove inizia e finisce l'ideale cavalleresco e dove comincia o cessa l'aggressione: uno slittamento di piani e di valori che suggerisce, non senza ironia, più risposte possibili. E poi "è simbolica", come scrive la curatrice, "la nudità del pontefice in Habemus Hominem, sigillo di un gesto di radicale spoliazione. Il corpo di Papa Benedetto XVI risulta denudato, il volto sorride con inedita dolcezza, il busto emaciato fa emergere l'umanità creaturale di chi è tornato a essere uomo. Occhi nuovi hanno sostituito le antiche orbite cave, testimoniando la sicurezza in un destino salvifico. Una metamorfosi dolorosa, ma necessaria è consegnata anche alle scorie racchiuse in una teca accanto al busto." Pietà e il Figlio Velato sono altri volti, ma soprattutto il dolore dell'uomo moderno che sentiamo accanto a noi, ancora oggi, dentro le guerre che insanguinano i nostri continenti, lasciandoci soli e inermi. The First Baby è un piccolo feto scolpito nel marmo affidato alle cure dell'astronauta Luca Parmitano e portato nello spazio nel 2019. Tornato sulla Terra l'anno successivo esso proietta l'uomo verso la grandezza e l'infinito dell'Universo. E vorremmo pensare verso il Futuro.

Patrizia Lazzarin, 12 marzo 2022


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