Klimt, la Secessione e l’Italia. Il mito della Modernità

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A Roma, a Palazzo Braschi, ricompare uno dei miti della nostra Modernità. Klimt, la Secessione e l’Italia,  la rassegna che è stata inaugurata in questi giorni nella capitale romana, restituisce, attraverso le opere, gli oggetti, le forme e i colori, la forza ed il fascino di un’epoca e la genialità di un gruppo di artisti  ed architetti che hanno saputo rovesciare la concezione dell’arte, ma anche  dell’abitare i luoghi. L’occasione della mostra nasce dall’intenzione di  ricordare le relazioni del pittore viennese con l’Italia e i suoi influssi sulla nostra arte figurativa.  Klimt   partecipa  due volte alle Biennali veneziane: nel 1899, nella sala austriaca, e nel 1910 con un’interessante mostra personale e poi, nel 1911  all’Esposizione internazionale di Belle Arti a Roma. Felice Casorati, Vittorio Zecchin e Galileo Chini ebbero modo di vedere i suoi capolavori. Klimt è il pittore del nuovo, della modernità che sceglie o meglio libera la “Nuda Veritas” che reca nelle sue mani uno specchio, come appare nel disegno, poi trasformato in opera pittorica, che venne pubblicato nel 1898 sulla rivista Ver Sacrum. La Giurisprudenza, uno dei tre Quadri delle Facoltà, commissionati dall’Università di Vienna, che assieme alla Medicina e alla Filosofia fu oggetto di grande attenzione da parte della critica italiana, fu esposto a Roma nel 1911. La mostra apertasi in questi giorni a palazzo Braschi,  ha permesso per la prima volta, la ricostruzione dei  colori  di questi tre dipinti, andati distrutti nel 1945 e di cui rimanevano solo le fotografie in bianco e nero, utilizzando il machine learning e l’intelligenza artificiale. Klimt nacque  nell’anno 1862, a Baumgarten, in quello che era allora uno dei sobborghi di Vienna. Da pochissimi anni l’imperatore Francesco Giuseppe aveva fatto demolire le vecchie mura della capitale e aveva fatto costruire una doppia strada anulare alberata, lungo la quale vennero edificati  palazzi, ciascuno di essi, con lo stile più idoneo alla sua funzione. Lungo la Ringstrasse, accanto ai numerosissimi caffè che sono uno dei volti caratteristici di Vienna, capitale cosmopolita di un impero multietnico, sorsero allora ispirandosi allo storicismo, il Municipio neogotico, il Parlamento neogreco, altri edifici come l’Opera e l’Università neorinascimentali e  ancora i due musei  di Storia dell’arte e di Storia naturale che si ispirarono al classicismo francese. L’architetto Otto Wagner e il pittore Gustav Klimt, coinvolti entrambi in questo processo di costruzione e di decorazione, saranno fra i principali artefici di quella rottura siglata dalla Secessione di Vienna nel 1897, che chiedeva il rinnovamento dell’arte superando proprio gli accademismi e i revival del momento. La scritta in caratteri d’oro: “al tempo la sua arte, all’arte la sua libertà”, che compare sul padiglione a Karlsplatz, realizzato dall’architetto Josef Maria Olbrich e inaugurato nel 1898, è il manifesto del gruppo e segna il distacco dalla retorica dello storicismo. Questo tempio dell’arte, che è oggi un capolavoro dell’architettura Jugendstil viennese, fu teatro di grandi mostre di artisti invitati dall’estero, fra i quali lo scultore Auguste Rodin, i simbolisti belgi e quelli italiani, Giovanni Segantini e i paesaggisti moderni russi e scandinavi. Vienna diventava così una vetrina dell’avanguardia europea.  Il Museo Belvedere di Vienna, La Klimt Foundation, tra i più importanti musei al mondo a custodire l’eredità artistica klimtiana, e  collezioni pubbliche e private come la Neue Galerie Graz sono fra i prestatori delle oltre duecento opere che comprendono dipinti, sculture, disegni e manifesti d’epoca che possiamo ammirare  ora in mostra.  

Tra di loro la famosissima Giuditta I, dipinta nel 1901. Nel primo decennio del Novecento Klimt simboleggia più volte l’artista dello scandalo perché osa concentrarsi in maniera ripetuta sull’erotismo femminile, soprattutto nei quadri di contenuto allegorico. La mitica eroina biblica che per salvare il suo popolo non aveva esitato a decapitare il generale assiro Oloferne, diventa nel pittore viennese la rappresentazione efficace della femme fatale. Proprio a Vienna dove i primi rappresentanti della psicoanalisi come Sigmund Freud giungono a nuove intuizioni, la rappresentazione della donna Klimtiana chiarisce il nascere di  nuovi equilibri nei rapporti fra i sessi e di un nuovo ruolo della componente femminile nella società. Eroina ed omicida allo stesso tempo, essa diventa intrigante nell’immaginario dell’epoca ed anche oggi non ci lascia indifferenti.  La ritrattistica femminile rivela la grande maestria del pittore che ritrae con l’aiuto di un gran numero di studi a matita, molte signore appartenenti alla società benestante della città e dell’elite intellettuale del paese, come le famiglie Wittgenstein, Bloch-Bauer, Lederer, Primavesi e Zuckerkand.  Si possono ammirare Signora in bianco, Amiche I (Le Sorelle) e Amalie Zuckerkandl. Nessuno dei ritratti è uguale all’altro. Sono stati anche concessi prestiti che sono davvero eccezionali, come La sposa, che per la prima volta lascia la Klimt Foundation, e Ritratto di Signora  rubato nel 1997 dalla Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi di Piacenza e recuperato misteriosamente nel 2019.  Intorno al 1900 Klimt si dedicherà anche  al tema del paesaggio. In estate il pittore si recava per lunghi periodi assieme alla sua compagna Emilie Flöge e alla sua famiglia preferibilmente nella regione dei laghi del Salzkammergut dell’Alta Austria. Nel 1913 Klimt trascorse l’estate  sul Lago di Garda nel Nord Italia.  Come molti colleghi della Secessione viennese, quali Carl Moll e Koloman Moser, condivideva la preferenza per  paesaggi raffinati e idealizzati. Klimt, la Secessione e l’Italia, una mostra promossa da Roma Culture, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, co-prodotta da Arthemisia che ne cura anche l’organizzazione con Zètema Progetto Cultura, in collaborazione con il Belvedere Museum e in cooperazione con Klimt Foundation, rimarrà aperta fino al 27 marzo 2022. Essa ha la curatela di Franz Smola, curatore del Belvedere, di Maria Vittoria Marini Clarelli, Sovrintendente Capitolina ai Beni Culturali e di  Sandra Tretter, vicedirettore della Klimt Foundation di Vienna. Comprende quattordici sezioni e fa focus accanto a Klimt  e a pittori come Carl Moll o Ernst Stöhr vicini  all’Art Noveau, su altri artisti che pur appartenenti alla Secessione  si distinguevano  per stili diversi, più vicini all’arte realistica e naturale. Nella nona sezione è protagonista il Fregio di Beethoven, l’omaggio al grande musicista, tema di una mostra al Padiglione a Karlsplatz da aprile a giugno 1902. Come scrisse anche Eva di Stefano “per la prima volta Gustav Klimt espone compiutamente la necessità dell’allegoria moderna e un nuovo modo di concepire il dipinto monumentale”. Il fregio murale lungo 34 metri e alto 2, su tre pareti, è una rappresentazione visiva della Nona sinfonia del maestro tedesco. Il fulcro dell’esposizione era una scultura di Beethoven in marmo colorato di Max Klinger, ma oltre venti artisti della Secessione, tra cui l’unica donna artista Elena Luksch-Makowsky seppero reinventare in maniera originale fregi e rilievi murali. Nel Fregio di Klimt si sono fuse suggestioni diverse: la pittura vascolare greca, quella egiziana, il segno incisivo dei pittori giapponesi Hokusai e Utamaro, la scultura africana, le maschere micenee  e gli echi di Beardsley, Toorop ed Hodler.

Patrizia Lazzarin - 30 ottobre 202 1

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