Goya e Caravaggio, due rivoluzioni a confronto

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“Goya e Caravaggio: verità e ribellione”. L’artista spagnolo e il pittore italiano vengono accostati nella Pinacoteca dei Musei Capitolini di Roma, per un confronto che  evidenzia i punti di contatto della loro ricerca pittorica. Similare è il punto di partenza. Entrambi hanno voluto osservare il mondo “vero”  e farne il soggetto dei loro dipinti.

Come ha osservato il critico inglese Michael Levey: se i cartoni di Goya suscitano  in noi una così forte impressione è perché il pittore rivela “una capacità di osservazione rafforzata da un’apparente ingenuità. Questa ingenuità avrà effetti più temibili della più violenta  passione ….”

Il parasole di Goya, uno dei suoi più bei cartoni, come Il Mercante di Vasellame o Le fioraie, sarà in mostra vicino al quadro la Buona Ventura di Caravaggio. Goya, giunto a Madrid, era rimasto affascinato dalla vita brillante e pittoresca dei giovani del popolo e dai loro svaghi. Il cartone è uno splendido olio su tela come tutti i sessantatre che egli eseguirà per la realizzazione degli arazzi per conto della Manifattura Reale di Santa Barbara negli anni dal 1777 al 1792.

Il Parasole, in particolare,  era uno dei cartoni destinati al ciclo di arazzi commissionati a Goya nel 1774 per decorare la sala da pranzo del Palazzo del Pardo a Madrid, la residenza di caccia dei principi delle Asturie. Il turchese del corpetto, il verde del parasole e il giallo della gonna della fanciulla catturano i nostri occhi allo stesso modo dell’atmosfera luminosa della scena dove i due giovani appaiono nella freschezza e con la malizia ingenua della loro gioventù.

Quell’aria tipica  dei cieli di Tiepolo sembra aver preso forma in questo dipinto e da qui le figure dei due ragazzi sembrano emergere quasi con caparbietà. La luminosità del paesaggio madrileno con le sue verdi colline è trasparente e il luogo ci appare magico. Nel gioco di luci, il volto della donna risalta della luce riflessa del parasole, mentre il viso della figura maschile riceve la luce diretta del sole.

Anche Caravaggio fu un maestro del luminismo soprattutto quando dalla pittura in chiaro passò a ringagliardire gli scuri. Da quel momento  abbandonerà i soggetti profani e dipingerà solo scene sacre. In questo secondo tempo del suo operare pittorico egli volle rendere il dramma, l’evento per via di luce ed ombra.

Il quadro della Buona Ventura è invece tra le opere certe eseguite da Caravaggio nei primi anni romani ed è datata al 1597.  L’artista lombardo quando giunse nello stato pontificio era carico della tensione riformista sostenuta dalla Chiesa del tempo che esortava alla semplicità evangelica e al ritorno alla purezza del sacro e del vero in contrapposizione ai decorativi del Manierismo. Il dipinto  è anche uno dei più importanti esempi delle novità  introdotte  dall’artista.

 I personaggi sono una zingara e un giovane cavaliere, vestiti con abiti contemporanei come si potrebbero incontrare  inoltrandosi tra i vicoli e le piazze della Roma di fine Cinquecento. Riusciamo a immaginare il contesto grazie ad una luce che rende reale lo spazio. I colori bianco,  marrone caldo e il nero si alternano negli abiti dei due creando un gioco dialettico che sembra riproporre quello degli sguardi e dei gesti. Caravaggio mette in scena la realtà come essa può apparire  ai nostri occhi e la pittura si avvale  delle leggi dell’ottica per essere verosimile.

 La Buona Ventura  è  anche un’allegoria morale: un insegnamento che tiene in considerazione i nuovi principi controriformistici di  semplificazione della rappresentazione evangelica. Qui vediamo una  giovane ragazza seducente che, accampando  il pretesto di leggere il futuro al cavaliere, gli afferra la mano e, con un gesto rapido, gli sfila l’anello dall’anulare destro. Il racconto pittorico invita a non farsi ingannare dall’apparenza delle cose  e a fare attenzione  alla seduzione dei falsi profeti.

I due dipinti si potranno ammirare insieme dal 12 gennaio al 25 febbraio 2024.  Questa opportunità è il risultato della politica culturale di scambi di opere d’arte avviata da tempo dalla Sovrintendenza Capitolina con importanti istituzioni museali italiane e internazionali. Il museo prestatore è il Museo Nazionale del Prado che ha concesso il dipinto di Goya in cambio  de “L’Anima Beata” di Guido Reni, prestato in occasione della mostra “Guido Reni” al Museo Nazionale del Prado dal  28 marzo  al 9 luglio 2023.

Patrizia Lazzarin, 12 gennaio 2024

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Il sacro e la natura. Guido Reni a Roma

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Guido Reni, uno dei più grandi pittori del nostro Seicento, è stato l’interprete di un classicismo che coglie l’ispirazione creativa dal mondo antico, ma è anche  capace di  osservare la “Natura”, in linea con la pittura di Caravaggio, con un approccio che  reinterpreta la lezione dei suoi contemporanei, e guarda al Nord, in particolare alla pittura fiamminga, per la realizzazione dei suoi paesaggi. La sua opera La Danza Campestre, dipinta nel 1605, durante il suo primo soggiorno romano, ed il suo singolare recupero che dal 2020 la riporta nel patrimonio della Galleria Borghese è la ragione principale, o meglio l’occasione che ha trainato il progetto  della mostra che si è aperta nel museo della capitale, all’inizio del mese di marzo. Il bellissimo accostamento di azzurri e  blu non fa da semplice sfondo alla rappresentazione della scena di danza che è il tema  dell’opera. “L’occasione singolare di un ballo fra signori e contadini, in una radura alle pendici di una montagna, costituisce l’anello mancante nell’invenzione della pittura di paesaggio”, scrive Anna Coliva, nel suo intervento nel catalogo della rassegna, edito da Marsilio. La novità consiste proprio nel nitore cromatico che individua la cifra stilistica di Reni e la sua visione del mondo attraverso l’arte. Una cromia la cui purezza e lucentezza  struttura e da forza compositiva alla scena. All’interno della pittura emiliana di paesaggio che fa riferimento a Niccolò dell’Abate e si arricchisce della rivoluzione dei Carracci negli anni 80’ del Cinquecento, La Danza Campestre di Guido Reni diventa un paesaggio autonomo che non si avvale della Storia con la s maiuscola per avere un suo significato. Alla stessa maniera, nel  suo Paesaggio con scherzi di  amorini, dove si muovono piccoli bimbi con gli archi di Cupido, intenti a giocare e a combinare scherzi, risplende un azzurro brillante sia nelle sfumature del cielo, sia nelle colline sullo sfondo e sulla superficie d’acqua in primo piano, mentre nella restante parte del quadro dominano le fronde di un verde intenso dell’albero che vediamo sulla sinistra. Gli echi risuonano quasi matericamente della pittura coeva del fiammingo Paul Bril, come in Paesaggio con pastori o Paesaggio con approdo. L’aria acquista un suo respiro e diventa  luogo di vita. L’esposizione Guido Reni a Roma. Il Sacro e la Natura curata da Francesca Cappelletti, a più di trent’anni in Italia dall’ultima mostra del pittore, ricostruisce i primi anni della sua presenza nella capitale, il suo percorso artistico che si misura con l’antico ed il Rinascimento, ma guarda anche alla lezione Caravaggio e alla sua maniera di intendere il “naturale”. La sua attività viene messa poi in relazione con i committenti: Paolo Emilio Sfondrato, Antonio Maria Gallo, Ottavio Costa e Pietro Aldobrandini. “Egli arriva a Roma per curiosità e per cercare nuove occasioni”, come spiega la curatrice Francesca Cappelletti, “ma sull’onda di una carriera brillante in patria. Era un pittore che già sapeva troppo, come pare dicesse di lui Annibale Carracci, e che a Roma resta un isolato di grande successo.” La sfida o meglio il punto di partenza degli studi precedenti l’esposizione  sono stati  quelli di comprendere cosa, l’artista  ha dato e cosa invece ha lasciato a Roma  e naturalmente alla visita della mostra si accompagnerà un itinerario dei luoghi dove si possono ritrovare altre opere di Guido Reni. Le grandi pale religiose che possiamo vedere al piano terra, nel grande salone d’ingresso, riportano la nostra attenzione sulla capacità da parte dell’autore di confrontarsi con l’arte sacra, anche a seguito delle riflessioni dell’arcivescovo di Bologna, Gabriele Paleotti che si ispiravano al clima della Controriforma. Nel suo modo di dipingere egli preferisce guardare a Raffaello invece che ai veneti, come aveva già individuato Malvasia. Nei grandi quadri: la Crocifissione di San Pietro, la Trinità con la Madonna di Loreto e il committente Antonio Maria Gallo, il Martirio di Santa Caterina d’Alessandria e il Martirio di Santa Cecilia, egli riesce a toccare l’animo dello spettatore attraverso la bellezza e la potenza di figure perfette, ma che non intendono essere accattivanti. Questo lo capiamo  chiaramente, nell’opera Lot e le figlie, priva di qualsiasi allusione o compiacimento erotico, che caratterizzano di solito i dipinti su questo tema. Il corpo delle due donne possiede il plasticismo tornito delle figure del secondo periodo romano del Reni e si avvicinano alle fanciulle della volta del Casino dell’Aurora che egli  dipinge, con lo stesso gioco  di sguardi e gesti che si incrociano. Le due giovani si materializzano in  forme scultoree nella tridimensionalità con cui si muovono nel contempo nello spazio. I prestiti di opere  di importanti altre gallerie, che ammiriamo nella rassegna che rimarrà aperta fino al 22 maggio, ci permettono poi di spaziare sul tema del paesaggio e di approfondire le  relazioni e gli  scambi artistici fra i pittori del periodo.

Patrizia Lazzarin, 9 marzo 2022

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