L’illusione di essere sovrani

I movimenti neo nazionalisti (detti sovranisti) europei non sono tutti uguali. Lasciando da parte il caso di quelli dei Paesi ex comunisti (che hanno speciali caratteristiche), si può però dire che i neo nazionalisti europeo-occidentali debbano tutti fare i conti con un dilemma: come rispettare le promesse elettorali senza portare i rispettivi Paesi alla rovina? I loro successi dipendono dal fatto che promettono soluzioni per problemi dei quali gli establishment hanno a lungo negato l’esistenza. Rispondono a domande di protezione, promettono di porre fine a diffuse paure. Molti elettori apprezzano chi fornisce loro un capro espiatorio (la globalizzazione, l’Europa, la Germania) a cui imputare i disagi economici presenti o che promette di metterli al riparo dagli effetti di migrazioni senza corrispondenti integrazioni. Elettori che sommando insicurezza economica, disagio per gli accelerati cambiamenti del paesaggio culturale dovuti all’immigrazione, e qualche volta anche insicurezza fisica, rispondono entusiasticamente a chi offre loro politiche antimigranti. Per inciso, è falso che queste paure siano artificialmente create dai suddetti movimenti. Quasi mai i politici creano qualcosa. È però vero che quelle paure vengono amplificate. Del resto, la politica è anche questo: cavalcare paure (di ogni tipo) è parte integrante di ciò che hanno sempre fatto i politici di tutte le tendenze.

Il problema però è che la risposta neo-nazionalista a queste paure è un’ offerta di «autarchia» (ciò che i neo-nazionalisti chiamano «recupero della sovranità nazionale») che funziona come richiamo elettorale quando essi sono all’opposizione ma che perde credibilità quando vanno al governo. Perché a quel punto devono fare i conti con la dura realtà. La realtà è che gli stati nazionali europei «non hanno più il fisico», non hanno le risorse per dedicarsi a baldorie sovraniste. E difatti il neonazionalista parla di recuperare la sovranità nazionale (contro l’Europa ) ma è disponibile a fare del proprio Paese un satellite della Russia. Una volta giunti al governo, inoltre, i neo-nazionalisti scoprono che non possono sbarazzarsi dei vincoli europei. Ciò diventa oggetto di recriminazione ideologica: nella versione illiberale della democrazia propria di questi movimenti, nulla deve ostacolare la «sovranità popolare» il volere del «popolo» (il quale, naturalmente, non esiste: è un’astrazione che sta a indicare un’occasionale maggioranza relativa di elettori) . Se il suddetto popolo si è espresso votando i neo-nazionalisti, qualunque ostacolo alla sua volontà è un’ intollerabile cospirazione anti-democratica ordita da poteri forti: di questi tempi, la classe dirigente tedesca è, fuori dalla Germania, il più gettonato fra i poteri forti che tramano e cospirano. Consideriamo il caso della Lega e osservi"mo il modo in cui ha fin qui collegato la costruzione del consenso interno e i rapporti con il mondo esterno all’Italia. Preciso che non mi occupo di altri aspetti (ad esempio, la questione delle tasse ) che pure contribuiscono a spiegare i suoi successi. La variante salviniana del neo-nazionalismo ha mostrato di avere un punto di forza e due punti di debolezza. Il punto di forza riguarda le posizioni di Salvini sull’immigrazione. Riscuote grandi consensi. È aiutato in ciò dai suoi oppositori: non solo gli oppositori politici ma anche una parte della Chiesa cattolica e degli apparati amministrativi e giudiziari. Anziché elaborare una politica dell’immigrazione diversa da quella di Salvini ma in grado di dare una risposta alle paure degli elettori che guardano a lui, i suddetti oppositori sembrano solo capaci di balbettare «accoglienza, accoglienza»: come se il Vangelo, anziché essere, per chi ci crede, il nutrimento spirituale in grado di avvicinare gli uomini a Dio e tra di loro, fosse riducibile a un testo legislativo sull’immigrazione (per giunta monco e parziale: preoccupato di tutelare quelli che arrivano e indifferente a coloro che dovrebbero accoglierli). Con oppositori così, almeno fin quando si tratta di competizione elettorale, Salvini è in una botte di ferro (anche se poi, se e quando tornerà al governo, dovrà di nuovo fronteggiare le difficoltà che ha già incontrato la sua politica dell’immigrazione). Se l’immigrazione è un punto di forza, i punti di debolezza riguardano i rapporti con l’Europa e con la Russia. Date le sue evidenti capacità non è possibile che Salvini non abbia capito che, senza cambiamenti radicali, la sua eventuale futura azione di governo si scontrerà con difficoltà e opposizioni fortissime. Non sarebbero pochi a contrastare la svolta illiberale del Paese connessa a un allentamento dei rapporti con l’Europa e a un rafforzamento di quelli con la Russia: se Salvini continuerà, come una volta dichiarò , a sentirsi più «a casa sua» a Mosca che a Bruxelles noi saremo sicuramente nei guai ma forse nei guai ci finirà anche lui. Salvini ha certamente capito che la vera ragione per cui è nato il governo Conte 2 è dovuto al fatto che i 5 Stelle andarono a Canossa (e lui no): votarono nel Parlamento europeo a favore del nuovo Presidente della Commissione. Sembra avere capito che le velleità antieuro degli sfasciacarrozze che un tempo tanto apprezzava non possono portarlo da nessuna parte. Per inciso, dato che la politica è fatta da uomini e donne in carne ed ossa, sarebbe rassicurante per tutti se Salvini, comprendendo che il solito bravo Giancarlo Giorgetti da solo non basta, si circondasse di collaboratori, per esempio economisti, non pregiudizialmente antieuropei, impegnati a cambiare ciò che non va nell’Unione ma tenendosi alla larga da quelli che vogliono distruggerla. Alcuni indizi, qua e là, hanno fatto pensare che Salvini fosse pronto a cambiare gioco. Altri indizi però dicono cose diverse. Perché Salvini, ad esempio, si congratula con Vox, il movimento di estrema destra spagnolo, per il successo elettorale? Ciò fa sospettare che egli non abbia imparato la lezione, che sia pronto a riproporre quella politica antieuropea che ha danneggiato il Paese all’epoca del primo governo Conte. Ci sono nodi, insomma, che Salvini non ha ancora sciolto. Se non lo farà, forse vincerà comunque le prossime elezioni. Ma saranno guai per tutti. Il motivo è chiaro: è l’impossibilità di essere sovranisti.

Angelo Panebianco – Corriere della Sera – 19 novembre 2019

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Giorgetti, la mossa per non governare sulle macerie

L'idea che così la Lega possa conquistare «il centro della politica». Con Conte sempre più giù e Salvini sempre più su, a un passo e mezzo da palazzo Chigi, che senso ha proporre un «tavolo» alla maggioranza sui nodi più intricati del Paese? Secondo Giorgetti ha senso, perché «non si governa sulle macerie».

Quando l’ex sottosegretario alla Presidenza si trasforma in un grillo parlante, al leader del Carroccio viene sempre istintivo prendere un martello. E così ha fatto anche stavolta, dopo aver ascoltato l’offerta pubblica di accordo avanzata ai rivali dal compagno di partito, che pure aveva precisato di muoversi «senza l’autorizzazione di Matteo». Se non fosse che anche stavolta Salvini non ha affondato il colpo, siccome riconosce a Giorgetti un’autonomia di pensiero che non mira a ledere il rapporto di lealtà con il capo. Semmai la sua visione sullo stato delle cose è funzionale all’obiettivo della Lega, per evitare di trovarsi nel prossimo futuro a dover gestire una «vittoria mutilata».

Perché «qui tutti fanno i fenomeni e nessuno si occupa del sistema nazionale», ha spiegato l’uomo che parla con Draghi: «La Fiat se n’è andata. Arcelor Mittal sta per farlo. Le imprese italiane ormai faticano persino a esportare. La grande finanza internazionale sembra volerci mollare. Lo spread sta risalendo. Fra tre mesi vanno in scadenza miliardi di obbligazioni delle più grandi aziende di Stato, e non oso pensare cosa accadrebbe se quelle obbligazioni non venissero rinnovate. Insomma, qui viene giù tutto», e il rischio in prospettiva è di vincere le elezioni mentre nel frattempo si è perso il Paese.

Ecco cosa ha indotto Giorgetti a parlare «senza essere autorizzato». L’apertura sulle riforme è stato un modo per lanciare un segnale all’esterno e anche per tenere un piede nel campo di Agramante interno, per evitare — per esempio — che la maggioranza scriva la legge elettorale con intento punitivo nei riguardi del Carroccio. «Mettere in sicurezza il sistema» è una mossa che consente di «mettere a reddito il consenso del partito», perché — proprio per la forza che oggi esprime — la Lega deve dimostrare davanti all’opinione pubblica di avere «senso di responsabilità».

Certo, Salvini se l’è legata al dito con Conte e con Di Maio, e freme per prendersi la rivincita dopo agosto. Ma nei ragionamenti di Giorgetti l’idea bipartisan di realizzare una governance non sarebbe un aiuto agli avversari, se il Carroccio avesse in quel contesto un ruolo da protagonista. In termini di posizionamento, piuttosto, «consentirebbe al nostro partito di conquistare il centro della politica». E non ci sarebbe accredito migliore — a suo giudizio — verso l’elettorato e anche verso l’establishment, che guarda al leader leghista con sospetto se non con ostilità.

Perché la tesi «tanto vinco anche l’Emilia-Romagna» potrebbe non bastare se i nodi della crisi di sistema finissero per strangolare il Paese. Ed è evidente come la situazione sia «drammatica», e che le urne — da sole — non sanerebbero i problemi. Che poi Giorgetti alla storia delle elezioni anticipate non ci crede, o meglio non ci crede fino in fondo: sì, vede Conte azzoppato, vede l’operazione dentro i Cinquestelle a fare a meno di Di Maio, vede le difficoltà del Pd e la voglia matta di Zingaretti di tornare al voto senza però intestarsi la crisi di governo: «Ma anche se il governo cascasse, e lo voglio vedere, chi può esser certo che si andrebbe alle elezioni?».

Oltre non va Giorgetti, nei suoi colloqui, se non altro per non essere tacciato di eresia: già si è spinto ai limiti con la proposta del «tavolo» sulle riforme. Però è stato chiaro nel partito quando ha accennato al tema della «centralità» politica. Conquistare tutte le regionali di qui in avanti è obiettivo ambizioso quanto utile al disegno nazionale del Carroccio, ma l’ex sottosegretario ormai è vecchio del Palazzo, e la storia è piena di macchine da guerra che si sono ingrippate a un passo e mezzo dal traguardo. Vincere è fondamentale per «rientrare a Palazzo Chigi dal portone principale», come dice Salvini. Giorgetti vuole solo evitare rischi, perché poi «sulle macerie non si governa».

Francesco Verderami – Corriere della Sera – 16 novembre 2019

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Il buff del pokerista Salvini

Matteo Salvini, leader della Lega, l’ha combinata grossa. Ha dimostrato l’incapacità di comprendere l’istante giusto per staccare la spina che era il giorno dopo l’esito straordinario del voto alle elezioni europee. Il capitano si era persuaso che il premier Giuseppe Conte si sarebbe dimesso non appena lui glielo avrebbe chiesto. Ma così non è stato.

In politica non puoi mai pretendere di essere un  leader infallibile. Mentre è più facile dimostrarsi  di dimostrarsi piuttosto incapace. Ti illudi e pensi di poter fregare tutti. In un attimo rischi di non azzeccare una mossa vincente. Matteo dovrebbe umilmente chiedere informazioni all’ex presidente de consiglioe ed ex segretario dem Matteo Renzi.

Salvini è da anni sulla cresta dell'onda. I consensi sono passati dal 4% al 34. Un successo strabiliante.  E’ fin troppo evidente che si è montato la testa e non sembra disposto ad ascoltare più nessuno. Nemmeno il fido Giorgetti. Per Matteo Salvini è arrivato il momento critico. All’interno suo partito incominciano a prendere le distanze da sue le ultime mosse del segretario. Il mito del capo invincibile si è frantumato sulla riviera romagnola in questo caldo sole d’agosto. Le probabilità che il leader leghista esca con le ossa rotte dalla crisi da lui stesso scatenata sono aumentate. Salvini, dopo aver infilato una serie di successi, uno dietro l'altro, da qualche tempo le sta sbagliando tutte o quasi.

Ha sottovalutato il residente del consiglio Giuseppe Conte. In cuor suo Salvini era arciconvinto che il professore - catapultato da una cattedra universitaria a Palazzo Chigi quasi per caso - avrebbe accettato senza protestare la sua richiesta di dimettersi da capo del’esecutivo, aprendo immediatamente la corsa verso le elezioni politiche anticipate. Ha commesso un grosso, grossissimo, errore. Dopo un anno e mezzo a capo del governo, invitato ai summit mondiali alla pari di Trump e Putin, Conte non è più l'oscuro notaio del patto tra Salvini e Di Maio, ma si crede veramente il presidente del Consiglio italiano. In più è un avvocato, quindi di cavilli e regolamenti ci campa, ed è proprio nella gabbia di paletti costituzionali e parlamentari che ha intrappolato Salvini.

Ha trattato i Cinque Stelle come un partito che vale la metà della Lega. Corrisponde al vero che alle europee il movimento etero-diretto da Grillo (Beppe) e Casaleggio (Davide) ha dimezzato quasi i consensi, mentre la Lega li ha raddoppiati, ma alla Camera ed al Senato i penta stellati hanno quote di parlamentari fotografati al marzo 2018, quando il M5s era il primo partito italiano. Infatti il gruppo parlamentare M5s è il più numeroso, e nel pallottoliere di una crisi di governo sono soltanto quelli i numeri che contano.

Altro ancora. Matteo Salvini non ha considerato che in questo parlamento esistono pure altre forze politiche. Il Partito democratico. Forza Italia. E’ dal punto di vista della nostra carta costituzionale fin troppo elementare che i partiti oggi all’opposizione (come il Pd di Nicola Zingaretti, appunto) di cambiare repentinamente posizione sul M5S che, dal leader leghista, è stato accusato di remare contro questo esecutivo, tanto da pretendere la fine dell’esperienza del governo gialloverde, possano aspirare a rientrare nel gioco democratico per la riconquista di Palazzo Chigi. Il Pd sta per cogliere l'incredibile opportunità di passare dalla minoranza alla maggioranza di governo e magari starci fino a fine legislatura. Uno smacco per Matteo Salvini. Una sconfitta che fa male. Però, a dire il vero, ha gestito la partita in modo maldestro. Voleva la flat tax, la tassa piatta. Non l’ha ottenuta. Voleva il federalismo differenziato per Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. E si è in alto mare. Di burrasca. Perché i grillini si sono opposti con tutte le loro forze. Volevano riaprire tutti i cantieri e si sono ritrovati un Danilo Toninelli che ha opposto ostacoli su ostacoli. Dal lato dei pentastellati, un po’ troppo, per la verità, vituperati dal Matteo lumbard, Luigi Di Maio e soci pur di evitare lo scioglimento delle Camere, l'addio ai benefit fin qui goduti, come cadreghe ministeriali e altro, legittimamente cercano di opporsi alla richiesta salviniana della resa dei conti (bisogna riflettere sul fatto che fino a poche settimane fa, l’idillio a Palazzo Chigi fra Matteo e Luigi appariva senza neppure una lieve ombra: il contratto reggeva). E’ chiaro che un ritorno alle urne in tempi ravvicinati avrebbe recato al M5S danni incommensurabili, per l’unica comprensibile reazione era barricarsi sulle loro posizioni, pretendere un chiarimento subito le comunicazioni del presidente del consiglio martedì 20 e vedere un po’ l’atteggiamento dei leghisti. Sfiduceranno Conte? Il professore andrà al Quirinae a rimettere il mandato? E se sì, cosa farà il presidente Mattarella? La situazione è molto complicata. La pretesa di Salvini: tolgo la fiducia a Conte così si vota, si è rivelata sbagliata.

Anche Giancarlo Giorgetti si è lamentato per come il capitano ha gestito la crisi che lui stesso ha scatenato.  Non di aver rotto con i pentastellati, ma di averlo fatto tardi e nel momento sbagliato. La spina andava staccata subito dopo le elezioni europee. I rapporti di forza tra Lega e M5s si erano ribaltati. Non ci sarebbe stato l'alibi della scadenza della finanziaria ,si sarebbe aperta la finestra del voto in modo più semplice. Matteo Salvini ha aspettato, passando le successive settimane a litigare con i grillini ma smentendo a ripetizione l'intenzione di voler rompere il contratto con i Cinque Stelle. Fino a cambiare repentinamente linea ad agosto, dopo aver «scoperto» che il M5s è No-Tav. Un fatto che sapevano anche le pietre della Val di Susa.

In più non ha ritirato la delegazione di ministri leghisti. Operazione che gli avrebbe garantito due cose poter rivendicare davanti al popolo di aver rinunciato alle «poltrone»; ma soprattutto avrebbe tagliato le gambe al governo Conte costringendolo a presentarsi dimissionario al Quirinale. Ennesima superficialità riguarda anche i rapporti con il Quirinale. Salvini riteneva che il capo dello Stato avrebbe limitato a prendere atto della sue decisione di chiudere con i grillini per andare al voto? La mossa di dire ok al taglio dei parlamentari ma poi subito al voto» (tra l'altro dopo aver detto che era solo un alibi per allungare i tempi), non ha fatto altro che irritare il Quirinale per la forzatura. L'ultimo e più tragico errore, però, sarebbe quello di fare una seconda svolta e tornare da Di Maio. A quel punto oltre a perdere la possibilità delle elezioni, la Lega rischierebbe di perdere la faccia. Se questo è uno statista...

Marco Ilapi, 18 agosto 2019

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