Non confondiamo Ilva con Alitalia

Alitalia, Ilva, Mediobanca: tre icone del capitalismo italiano in prima linea in questi giorni. Per molti, le loro vicende sono il simbolo della decadenza italiana odierna. In realtà, nel caso di Mediobanca non c’è alcuna decadenza apparente; negli altri due è una decadenza che viene da molto lontano. Ma non intendo dare l’ennesima opinione non richiesta e non informata sui piani industriali di queste tre aziende.

Mi limito a offrire alcuni spunti di riflessione.

1) C’è un liberismo ideologico che è indifferente al risvolto umano delle crisi aziendali: non per una malvagità intrinseca dei suoi esponenti, ma per una precisa scelta metodologica. Ed anche, alcune volte, per comodità: un’azienda va male?

Lasciamola fallire, senza bisogno di informarci sui dettagli. È un approccio sbagliato, e un liberismo che, almeno in Italia, si condanna all’irrilevanza.

La disoccupazione e la perdita di lavoro sono tragedie immani, che hanno risvolti economici e spesso relazionali tragici su intere famiglie. Ma proprio per questo andare all’estremo opposto e salvare tutto e tutti è altrettanto sbagliato.

Purtroppo, la realtà spesso ci impone delle scelte dolorose, perché per salvare un posto di lavoro in un’azienda con grande esposizione mediatica rischiamo di distruggerne due in piccole aziende di cui nessuno parla, o di condannare tre giovani a una disoccupazione permanente. Non c’è un algoritmo preciso che guidi questa scelta: ci sono aspetti economici, umani e anche, inutile negarlo, politici.

È una questione di realismo e di ragionevolezza.

In base a questi criteri i casi di Ilva e Alitalia sono molto diversi. Per l’Ilva non c’è un modo ragionevole e realistico di evitare un intervento dello Stato, che si decida di chiuderla o di continuare. Il caso di Alitalia invece supera abbondantemente qualsiasi ragionevole test di irragionevolezza. Alitalia ha avuto trent’anni per raddrizzarsi; ha avuto aiuti di ogni genere; si sono tentate tutte le soluzioni. Niente ha mai funzionato.

Non si può continuare a scommettere sui miracoli con i soldi del contribuente. Soprattutto perché i soldi del contribuente sono serviti spesso ad aggravare il problema, puntellando le pretese sindacali di categorie già molto ben pagate invece che indurle alla ragione. È venuto il momento di dire: basta.

2) E qui interviene la difesa dell’italianità, che però quasi sempre è puro pregiudizio ideologico, o frutto di cattiva informazione. Una questione di prestigio?

Esattamente il contrario: non c’è nulla di cui vantarsi nell’esibire al mondo un servizio scadente a costi altissimi (comprese le tasse per ripianare le perdite) solo per dipingere i timoni degli aerei di rosso bianco e verde. Una questione di servizi? Se una rotta è profittevole il posto di Alitalia sarà occupato da un’altra compagnia in un nanosecondo; se non lo è, non vedo perché io debba pagare più tasse per permettere a poche persone di volare da Roma a Los Angeles senza scalo. Una questione strategica? Davvero c’è chi crede che Alitalia debba rimanere italiana per spostare le truppe o per convertire gli aerei in bombardieri a lungo raggio in caso di guerra?

3) In altri casi la difesa ad oltranza dell’italianità è frutto di cattiva informazione. Supponiamo che uno straniero voglia impossessarsi di Unicredit. Ha due modi per farlo. Il primo è vendere a sua volta una azienda o un po’ di case o un po’ di titoli di stato stranieri: in questo caso Unicredit diventa straniera ma l’Italia si impossessa di un po’ del resto del mondo. La differenza è solo che la “perdita” di Unicredit fa più notizia.

Il secondo modo è se l’Italia importa dal resto del mondo più di quanto esporta, cioè se ha un disavanzo di partite correnti (al netto di qualche voce minore). In questo caso deve pagare la differenza cedendo agli stranieri dei cespiti patrimoniali: delle case, dei titoli di stato, o appunto, un pezzo di Unicredit. Negli ultimi anni le partite correnti italiani sono però in avanzo, e negli ultimi trenta hanno oscillato tra modesti attivi e modesti passivi.

Poiché non capiscono questo principio di contabilità nazionale, in tanti gridano alla perdita di italianità quando Parmalat viene ceduta ai francesi o Ilva agli indiani o Italo agli americani o Alitalia (forse) ai tedeschi; ma dimenticano che allo stesso tempo Fincantieri acquista Stx e Fiat acquista Chrysler.

Spesso si obietta che gli stranieri sono furbi, e comprano le nostre aziende pregiate a prezzi di realizzo. Nessuno però ha mai spiegato concretamente come Francia e Germania si uniscano in una cospirazione per costringerci a vendere sotto il prezzo “giusto”.

4) Poi c’è il caso più incomprensibile di tutti, un’azienda italiana (Unicredit) che vende azioni di un’altra azienda italiana (Mediobanca) e il M5S presenta una interrogazione sulla tutela degli interessi finanziari italiani. Ci sono solo due modi per razionalizzare un’azione così inspiegabile: una abissale ignoranza, o un pregiudizio medioevale, perché l’amministratore delegato di Unicredit è francese.

Queste due ipotesi, non la perdita di italianità, dovrebbero veramente spaventarci.

Roberto Perotti - la Repubblica  9 novembre 2019

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La Ferrari vola a Detroit, il Belpaese affonda

Sarà bene considerare che il caso-Fiat diventa presto una lezione per tutti, a cominciare dal governo e da chi dice di sostenere le riforme: in un Paese che non cresce, che non investe sulle imprese, che è lento nelle riforme e soffocato dalla burocazia e dal fisco, la perdita dell'ultima vera grande impresa industriale rischia di accelerare in modo irreversibile quel declino industriale e tecnologico che ci emargina dall'Europa e mette in fuga le nostre risorse migliori. Così Alessandro Plateroti su Il Sole 24 Ore.

L'addio di Marchionne all'Italia, un monito per il governo

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La Fiat ha davvero acquistato la Chrysler?

La Fiat ha davvero acquistato la Chrysler?. La Fiat ha festeggiato a Piazza Affari con uno splendido + 16,4%. Se sono rose fioriranno, dicono gli scettici. E in effetti c'è da meravigliarsi per questo straordinario risultato. L'azienda va male. Da anni non riesce a convincere il mercato che acquistare automobili Fiat è un affare. Sembra che gli italiani non concordino e preferiscano rivolgersi ad altri marchi. In controtendenza gli indici azionari. L'exploit di questi giorni non è è giustificato dall'andamento delle vendite. Poi, un particolare. La Fiat compra dalla Veba le azioni con i soldi della Chrysler! Qualcosa non torna. E' come se io, Tizio, comprassi una porzione di un immobile i comproprietà con Caio, con i quattrini di Caio. Sergio Marchionne viene comunemente definito un genio, ma la Chrysler l'ha salvata con i soldi dei contribuenti americani (un grazie a Barack Obama che glieli ha generosamente regalati). Adesso l'a.d. di Fiat-Chrysler rileva tutto il pacchetto restante delle azioni della Chrysler con i soldi della ... Chrysler. In Italia ci si preoccupa della sorte degli stabilimenti sul territorio. I sindacati si dicono preoccupati e aspettano risposte dalla proprietà. Si ha un fondato timore che il cuore dell'azienda non resti a Torino. Ma è evidente che Marchionne sceglierà Detroit. Perché sono gli americani che lo pretenderanno. E a ragione. Perché i soldi per questa operazione sono sonanti dollari americani.

Marco Ilapi - 3 gennaio 2014

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