Frida Kalho e Diego Rivera

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Come una brezza o una spirale d’aria leggera si muovono  le nostre emozioni e i nostri pensieri, mentre osserviamo le tante immagini e i volti raffigurati che ci restituiscono i colori e l’anima degli artisti e amanti Frida Kahlo e Diego Rivera. Ci raccontano, insieme, la temperie culturale del Messico a partire  dalla  Rivoluzione del 1910, mentre il pennello e l’obiettivo di differenti pittori e fotografi condensano e parlano di  gusti, progetti e passioni di un’epoca e di un luogo intrisi di idealità. La rassegna che si è inaugurata oggi al Centro Culturale Altinate San Gaetano, a Padova, dal titolo Frida Kahlo e Diego Rivera e che reca il sottotitolo La Collezione Gelman, ci permette di ammirare le opere di due figure d’artisti che hanno con il loro linguaggio modificato la storia dell’arte pittorica, ma narra anche la vicenda di due collezionisti che hanno saputo cogliere la bellezza e l’invenzione e ne hanno fatto tesoro. All’inizio del percorso espositivo, sulle pareti, spiccano i volti di Natasha e Jacques Gelman. Jacques era un famoso regista che aveva consolidato negli anni Trenta la propria fortuna producendo i film di Mario Moreno, l’attore che vestendo i panni di Cantinflas, era definito il Charles Chaplin dell’America Latina. Assieme alla bellissima moglie Natasha si era appassionato alle espressioni del modernismo messicano e avevano acquistato le opere di tale movimento e non solo. In Messico, dopo la rivoluzione, l’arte come la conosciamo dai murales di Diego Rivera, David Alfano Siqueiros e Josè Clemente Orozco, fu considerata didattica alla formazione di una nuova coscienza nazionale e fu indirizzata a recuperare e a riunire le arti precolombiane, le tradizioni e l’artigianato popolari e le culture rurali indigene. I viaggi all’estero degli artisti come Rivera, ma anche il confronto con artisti e intellettuali stranieri che vissero, stabilmente o per brevi periodi,  in Messico creò un ambiente culturale assai vivace, come testimonia anche l’arrivo del leader dei Surrealisti Andrè Breton e  della moglie Jacqueline Lamba. Entriamo nella collezione Gelman, ma in particolare incontriamo le espressioni pittoriche e figurative dotate di un timbro particolare di altri muralisti come Carlos Mèrida e Miguel Covarrubias, anche illustratore, e poi nel mondo di intellettuali, grafici, drammaturghi, saggisti, poeti e pittori che  conosciamo con il  nome di Los Contemporàneos, gruppo cosmopolita e pluralista. Ci stupiamo osservando le immagini dell’allora giovanissimo Rufino Tamayo e di Maria Izquierdo, la prima artista messicana ad avere nel 1930 una mostra personale a New York. Frida nata nel 1907, scelse simbolicamente come data della sua nascita il 1910, l’anno della rivoluzione. Anno cruciale, di inizio di grandi cambiamenti e metamorfosi che le menti e gli animi di artisti e pensatori seppero interpretare. L’artista messicana Frida supera il suo tempo con la sua arte con cui mescola la vita. La sua è un’analisi ammirata, ma a volte spietata, sempre dentro le “pieghe”. Cosi quando vediamo il suo ritratto della collezionista Natasha che sarà una delle più grandi sostenitrici dell’opera di Frida e contribuirà in modo determinante al suo riconoscimento internazionale, il piccolo quadro sembra racchiudere nel volto non solo l’armonia dei bei tratti, fra i simboli della ricchezza, ma anche la determinazione che contraddistingueva la mecenate. Nel ritratto della stessa, di Rivera, spicca soprattutto invece la femminilità elegante che si accresce dalla presenza di mazzi di fiori di calle, fiorite sulla terra secondo la mitologia dalle gocce di latte cadute dai seni di Giunone. Nella mostra abbiamo l’occasione di ammirare alcuni degli autoritratti  di Frida che appartengono all’immaginario comune: quello con le scimmie, o sul letto con la bambola, con la treccia o in particolare l’opera icona  dell’esposizione: Diego nei miei pensieri, dove il suo viso racchiuso e illuminato da un copricapo proveniente da Tehuantepec, mostra sulla fronte un ritratto del marito. C’è poi Rivera cubista e parigino e il pittore, anche dei bambini del suo popolo, come la piccola Modesta seduta sulla sedia. Guardiamo tante foto che raccontano un Messico di ieri, ancora vivo, vediamo  monumenti di un tempo come nelle foto del padre di Frida, Karl Wilhelm, e ci catturano   le pose e gli occhi ricchi di pathos della pittrice messicana. E poi gli abiti appesi  a illuminare le sale del “museo” dei colori di un Messico del ventesimo secolo. Fino al 4 giugno 2023 la rassegna di Padova, unica tappa italiana di un tour mondiale, sarà visibile al pubblico. Essa che ha la curatela di Daniela Ferretti è stata promossa dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Padova e organizzata dalla Vergel Foundation, MondoMostre e Skira in collaborazione con l’Istituto Nacional de Bellas Artes y Literatura.

Patrizia Lazzarin, 14 febbraio 2023

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Tina Modotti. Donne, Messico e libertà

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Le parole di un canto, epico in maniera autentica, sono le fotografie  di Tina Modotti  passate alla storia ed entrate nel nostro immaginario, e che possiamo vedere nelle sale del Mudec, il Museo delle Culture, di Milano. Accade così di recuperare episodi di vita trascorsi, in mani e volti di uomini  segnati dal duro lavoro, carichi del significato di ciò che rappresenta l’esistenza, oppure nelle  donne del Messico di Tehuantepec, “la collina del giaguaro”, che nella loro bellezza e fierezza esprimono un fascino che il tempo non sembra intaccare.  Abbiamo l’occasione  di conoscere meglio l’arte di questa fotografa che nasce ad Udine nel 1896 e che, in un breve arco temporale, accumula tantissima esperienza anche grazie ad incontri con persone del jet set culturale messicano dei primi decenni del 900’: José Clemente Orozco, Diego Rivera, David Alfaro Siqueiros e Xavier Guerrero, gli autori dei grandi murales dove confluirono  ideali rivoluzionari, arte autoctona e le nuove prospettive moderniste. Tina vive e si confronta con rivoluzioni, guerre sanguinose, dittature, ingiustizie, viene a contatto con  avanguardie artistiche, movimenti filosofici e politici e conosce  un numero incredibile di artiste donne dalla personalità singolare ed anticonformista, come la pittrice Frida Khalo  o la musicista  Concha Michel  che usò la sua musica, una sorta di ballata chiamata corrido, e i suoi scritti per promuovere la condizione femminile e l’apertura dell’arte alle masse. Le  foto di Modotti  sono impregnate del suo fervore sociale ed artistico e tutta la sua vita fu animata da grandi ideali e dall’amore per la libertà.  La passione  per la fotografia si sviluppa  da giovanissima.  Frequenta fin da piccola lo studio fotografico dello zio Piero, fratello del padre. Quest’ultimo  emigra  a San Francisco e nell’annuncio pubblicitario  del 1908 che promuove la sua attività di definisce “fotografo d’arte e di vedute di tutti i generi”. Quando Tina raggiunge il padre a San Francisco, nel 1913, arriva in una città ricca di stimoli, che si prepara a inaugurare la grande esposizione internazionale “Panama-Pacifico” del 1915. Lei, che in Italia ha lasciato presto gli studi per lavorare e sostenere la famiglia, si arricchisce spiritualmente  del fervore  culturale ed artistico  della comunità italiana. Recita a teatro e ottiene ottime recensioni. La sua crescita  intellettuale ha tuttavia una svolta significativa quando nel 1918 lascia la città per seguire a Los Angeles il compagno Robo de l’Abrie Richey, pittore e poeta dallo stile di vita bohémien.  Conosce poi e frequenta  nel 1925 Dorothea Lange, la grande fotografa,  autrice dell’icona della donna emigrante, e  seguendo il suo consiglio compra una Graflex, macchina più maneggevole e precisa che le offre nuove opportunità di ripresa. La mostra curata da Biba Giacchetti, che rimarrà aperta fino al 7 novembre 2021, presenta un centinaio di fotografie dell’artista, accompagnate da documenti e filmati che disegnano il percorso umano e artistico di Modotti. Dopo la morte fulminea del compagno Robo, appena giunto in Messico nel 1922, comincia  una nuova fase della sua vita. Apre uno studio con il grande fotografo Edward Weston e riesce da subito ad affermarsi con un suo stile originale, ottenendo riconoscimenti già nelle mostre del 1924 e del 1925, dove le sue immagini dialogano da pari a pari con quelle di Weston. Nello stesso arco temporale  Tina posa per Diego Rivera, che la ritrae in diversi murales, che lei, a sua volta, documenta con la macchina fotografica. Sono anni di ricerca creativa e di passioni ed ella raggiunge pian piano un suo linguaggio inconfondibile. L’acme della sua attività creativa è compreso, fra il 1926 ed il 1929, quando  esso si alimenta del suo pensiero politico e  Tina si mette al servizio della causa messicana. Nelle sue foto si individua la lezione della cinematografia russa d’avanguardia, di Ejzenštejn e Dziga Vertov, e sarà da quest’ultimo che assorbirà “la genialità di ripresa, i movimenti di macchina, le coordinate insolite, la verità innovativa della narrazione priva di eroi, ma soprattutto la presa diretta sulla realtà”, come precisa Biba Giacchetti nel catalogo della mostra. Quelle di Tina sono immagini che sono diventate universali perché portatrici di un significato simbolico comunemente accettato. Fra queste riconosciamo il portatore di banane, le mani della lavandaia e dello zappatore:  esse stesse emblemi della fatica dell’uomo, come la figura che scompare sotto l’immenso peso del fieno. Simboli che ci lasciano quasi attoniti  a guardarli come la donna con la bandiera, dove lo stendardo diventa protagonista, astrazione che si solidifica come ghiaccio eterno,  proiezione di quel progresso che sembra mostrare i passi nella foto del campesino che legge, segnando le tappe di una rivoluzione che deve passare attraverso l’alfabetizzazione delle masse.  L’uccisione del suo nuove amore, l’esule rivoluzionario cubano, Julio Antonio Mella, con cui condividerà il credo politico e sperimenterà nuove forme di comunicazione legate alla fotografia, i fotomontaggi: una tecnica di divulgazione antesignana, che solo negli anni Cinquanta verrà codificata da testi scientifici sulla comunicazione, sancisce anche l’ultimo atto significativo nella sua parabola inventiva e l’inizio di un periodo di persecuzioni e di peregrinazioni, dopo il rifiuto dell’incarico di fotografa presso il Museo nazionale messicano. Nell’ottobre del 1930 allestisce a Mosca la sua ultima esposizione. A lei dopo la morte nel 1942, Pablo Neruda dedicherà la poesia Tina Modotti ha muerto, in difesa dell’amica, attaccata dalla stampa messicana.  Riccardo Toffoletti in Italia  riscoprirà Tina negli anni 70’ dopo un lungo oblio e, poco  dopo, la stessa cosa avverrà negli Stati Uniti.

Patrizia Lazzarin, 11 luglio 2021

 

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