Renzi, premier "esperto" di educazione linguistica?!?

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Come è possibile (e auspicabile) insegnare Italiano oggi?”. Il recente intervento alla Leopolda del Capo di Governo Matteo Renzi sulla necessità di tornare a dettati e riassunti nella scuola elementare ha suscitato accanto a numerosi consensi un nutrito coro di critiche. Da segnalare,fra le voci critiche, quella apparsa sulla rivista online “Insegnare” a firma del direttore Mario Ambel. (www.insegnareoggi.org). Il direttore della rivista del Cidi, proprio nella sua qualità di insegnante e di formatore, rimprovera la legittimità dell’intervento, istituzionale e politica, in primo luogo, oltre che ideologica e pedagogica. In poche parole, proprio per il suo ruolo, il premier avrebbe dovuto limitarsi a chiedere risultati più efficaci nell’insegnamento dell’italiano, senza fornire indicazioni didattiche (su cui non è certamente competente), che sono frutto di una visione tradizionale e poco scientifica dell’insegnamento (“ideologia passatista e pensiero unico da bar dello sport”, la definisce Ambel).

Pensiamo all’aspetto più propriamente pedagogico. Il dettato e il riassunto - come vanno ripetendo da decenni le associazioni professionali che si occupano di educazione linguistica (Cidi, Giscel, Lend) – sono “procedure linguistico-cognitive” molto serie, pertanto richiedono “elevate competenze scientifiche e metodologiche” da parte degli insegnanti, se non vogliamo ridurle a fruste pratiche immotivate, ripetitive e, pertanto, inefficaci. Anzi, di più. Come già ai tempi di don Milani, esse diventano nella scuola strumento di selezione dei ragazzi socialmente e linguisticamente più svantaggiati. Pensiamo solo alla pratica del dettato nelle attuali classi multilingui, con una lingua di studio come l’italiano molto diversa da quella materna (con tutte le difficoltà fonetiche implicate), un italiano appreso molto spesso nelle sue varianti regionali e quindi ben lontano nell’uso quotidiano dal modello standard e scritto, a cui fanno riferimento i dettati. Quante e quali ostacoli pone ad una sua efficace realizzazione!

Soffermiamoci sul riassunto. Come la parafrasi, è una delle forme di riscrittura, che hanno come condizione di partenza la lettura e la comprensione dei testi. Attività queste, non certo scontate, che vanno insegnate attraverso un opportuno percorso di “metacognizione”, cioè di riflessione da parte di chi apprende sui processi attivati durante la lettura. Se poi aggiungiamo l’altro versante del riassunto, cioè la scrittura a partire da testi di altri, si potrà intuire anche senza essere degli specialisti, la complessità di ciò che viene chiesto ai nostri figli a partire dalla scuola elementare fino alla prova finale dell’Esame di Stato, quella definita come Articolo e Saggio Breve.

In un recente Convegno tenutosi a Torino, sui temi dell’Educazione Linguistica Democratica, Gabriele Pallotti ricordava la riforma dell’Esame di Stato nel 1999, quando con altri propose per la Prima Prova la “scrittura documentata”, per liberare i maturandi dalla “fatica di trovare le cose da dire” su argomenti di attualità sociale, scientifica e tecnologica. In realtà, tale scrittura si è trasformata in una ‘copiatura mutilata’ del dossier ministeriale. Per questo a Scienze della Formazione di Reggio Emilia si sono avviati percorsi di “scrittura documentata” nella scuola primaria. A partire da stimoli visivi, come una sequenza cinematografica narrativa (tratta da un film di Harry Potter)i bambini, suddivisi in gruppi, dividono il racconto cinematografico in pezzi, lo titolano, lo confrontano con gli altri e, infine, riscrivono la scena del film sulla base di una scaletta. La riscrittura a partire dalle sequenze viene infine sottoposta ad una revisione tra pari, su singoli aspetti (punteggiatura, capoversi, lessico, tempi verbali, ecc.).  Gli esempi di tali percorsi mostrati dal professore hanno dimostrato che prepararsi alla scrittura significa allenarsi ad operazioni cognitive che si possono apprendere fin dall’ infanzia: dal pensiero di gruppo a quello individuale (raccogliere idee, metterle in fila, organizzarle), per arrivare alla scrittura vera e propria (fare diverse versioni, abituarsi a revisionare e migliorarsi da soli e con i compagni). Dall’agire concreto al pensiero astratto. Il tutto, infatti, avviene attraverso un lavoro manuale di taglia e incolla: scrivere su strisce di carta, incollarle su scatole, riordinarle, usare pennarelli, ecc. Si tratta di una formazione metacognitiva, basata sulla manualità, sull’autostima, sulla collaborazione.

Questo, sì, è un buon esempio di percorso per arrivare poi alle varie forme di “riscrittura”, fra cui, appunto, il riassunto, non liquidabile con un suggerimento volante, più simile ad uno slogan populista che ad un suggerimento fattivo per il miglioramento della scuola italiana (ci vuole ben altro …).

Clara Manca - Cidi - Torino - 8 gennaio 2016

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Un convegno a Roma: si può fare una scuola per tutti?

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Via a riflessioni e piste di lavoro per la scuola italiana. Le lezioni sono ricominciate da pochi giorni. Le scuole sono in subbuglio per la nuova Legge 107. Docenti e dirigenti impegnati in collegi, gruppi di lavoro e gruppi di studio … Che senso ha parlare di una Giornata di Studio, svoltasi  a Roma il 9 Settembre scorso e dedicata all’Educazione linguistica, per di più “democratica”?

E’ presto detto, se pensiamo alle graduatorie internazionali in cui l’Italia non è messa bene, se conosciamo il fenomeno dell’analfebitismo “di ritorno”, se  alle superiori si registra ancora una dispersione scolastica del 20%.

Il Seminario’ infatti,  è stato organizzato per riflettere su un documento preparato 40 anni fa  dal GISCEL (Gruppo di Intervento e di Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica), ”Le Dieci Tesi per un’Educazione linguistica democratica”, che si proponeva di superare l’alto tasso di mortalità scolastica e di avvicinare le pratiche educative alle nuove teorie linguistiche e pedagogiche. A differenza della pedagogia linguistica tradizionale, che imponeva un modello di lingua ( “Si dice così…”) da imitare, le Dieci Tesi sostenevano: “Si può dire così, e così, e così … secondo le situazioni”. 

 Tre linguisti prestigiosi come Tullio De Mauro, Lorenzo Renzi (fra gli autori deldocumento) e Maria Luisa Altieri Biagi ne hanno tracciato un profilo: attenzione a tutti gli aspetti del linguaggio (iconico, matematico, corporeo…) e alle molteplici varietà della lingua in situazione,  studio del lessico e delle varietà della lingua nel tempo e nello spazio, superamento della centralità della lingua scritta a favore dell’oralità, considerazione per le differenti situazioni linguistiche e sociali di partenza degli alunni, necessità di una riflessione grammaticale esplicita ma “costruttiva” e non “impositiva” secondo un modello unico, nella consapevolezza del “potere della lingua”, condizione della concettualizzazione, e insieme mezzo di espressione delle emozioni e strumento di comunicazione e mezzo di azione.

Qualcosa è cambiato da allora, visto che almeno la scuola primaria ha azzerato la dispersione, per l’inclusione di tutti: i Nuovi Programmi della scuola media (1979), oggi apprezzati anche dalla Commissione europea, i Programmi per la Scuola Elementare del 1985, frutto anche del contributo di varie associazioni di insegnanti, hanno accolto al loro interno alcuni dei principi fondanti delle Tesi.

Diversi i punti di contatto di tali associazione, nelle parole dei docenti intervenuti alla Giornata di Studio.

Il Movimento di Cooperazione Educativa (MCE) condivide, secondo i principi  della  pedagogia di Freinet , il diritto alla parola, al piacere della scrittura, alle lingue straniere e all’ imparare insieme, soprattutto ad essere ascoltati. Il  LEND (Lingua e Nuova Didattica)  propone un percorso di insegnamento integrato delle lingue, secondo gli orientamenti del Consiglio d’Europa, mediante un apprendimento “costruttivo”, attraverso l’errore e la cosiddetta “interlingua”. Linee di indirizzo  per un’educazione plurilingue, vengono anche dal CARAP (Quadro di Riferimento per gli Approcci plurali alle Lingue e alle Culture), che  mette a disposizione on line un data base di materiali didattici: uso della capacità potenziale e innata di apprendere la lingua, costruzione di capacità metacognitive, dimensione olistica,  pluralista e integrata dell’insegnamento, ecc. Un gruppo di insegnanti del CIDI (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti) sta lavorando  sulla “scrittura documentata” dell’Esame di Stato, per capire quali sono le micro-funzioni di tale tipologia di scrittura,  stabilire a quale livello scolastico collocare l’attività di ciascuna di esse, ricordando che nell’ insegnamento si deve sempre distinguere fra il processo (quindi, Unità di apprendimento, di rinforzo, di consolidamento) e il prodotto (Unità per la valutazione).  I descrittori contenuti nel Quadro Comune di Riferimento per le Lingue (QCRE), pure importanti,   si riferiscono solo alle lingue europee (questa la visione dell’associazione DILLE) e sono frutto di una visione monolingue invece che  di  un approccio veramente multiculturale. Ma, quel che è peggio,  vengono trasformati in voti nella scuola, invece di essere usati come strumento di osservazione e di rilevazione delle competenze!

Ma quale è stata la  ricaduta delle Dieci Tesi nella prassi didattica dopo tanti anni? Da un’indagine condotta dal Giscel nel 2005, risulta che su 602 insegnanti di 9 regioni il 18% aveva lette le Dieci Tesi, ma solo l’11% le conosceva. Secondo alcuni studiosi intervenuti nel dibattito, anche l’Università è stata responsabile della mancata acquisizione delle Tesi. Si pensi alla grammatica: resta “uno spregevole imbroglio” (per dirla con Pasquali, noto latinista e grecista del’900), se continua ad  essere studiata con la sua pletora di complementi, lontana dallo spirito delle Tesi e senza collegamenti con altre lingue. L’editoria scolastica  ha portato per la prima volta nelle classi  i linguaggi non verbali, le quattro abilità, il lessico, le varietà d’uso, ecc.. Non si può dire lo stesso per la didattica dell’ascolto e del parlato, nonché  per la comprensione testuale, attività tutt’oggi poco praticate. Trascurata anche la trasversalità dell’EL  o  la considerazione dell’enorme variabilità del retroterra culturale e linguistico degli apprendenti, oggi indispensabile con  l’immigrazione.

E abbiamo oggi finalmente una “scuola per tutti”, una scuola veramente “democratica” che intervenga a modificare i quadri sociali? Che non vuol dire una scuola “facile” per gli alunni e tanto meno per gli insegnanti!

Da una serie di dati (fonte, Invalsi) citati dal segretario del Giscel Alberto Sobrero  risulta che vi è ancora oggi - se pure in forme diverse dal lontano 1974 - uno stretto rapporto fra capacità scolastiche e retroterra  socio-culturale dei ragazzi. Su un campione di 40.000 studenti delle Superiori, indicatori quali il titolo di studio dei genitori e la loro attività lavorativa, la quantità di libri non scolastici in casa o la disponibilità di internet e di spazi per lo studio  si sono mostrati rivelatori: più alto è  il livello di tali indicatori, maggiori risultano i punteggi degli studenti nei test linguistici.  Benedetto Vertecchi, ha parlato di “nuove iniquità” in una società in cui la classe media va scomparendo. E a proposito delle valutazioni internazionali, sostiene che attraverso questi si rilevano solo aspetti superficiali e non l’apprendimento più profondo. Bisognerebbe, peraltro, distinguere fra rilevazione campionaria, che serve per capire e coinvolgere i soggetti, da quella censuaria (che va imponendosi oggi) volta  prevalentemente a valutare, controllare, manovrare.  Ci sarebbe bisogno di pratiche educative nuove, in cui vi sia anche la scrittura a mano per sviluppare quell’interazione fra saper fare e saperi astratti, fra mano e cervello (come ha spiegato il biologo Alberto Oliverio),  realizzata così bene nei laboratori artigianali, e oggi riapparsa nelle scuole per le élites americane (uso della lavagna, del compasso …)

                Quali risposte si possono dare allora alla scuola? Fra le tante, una risposta  da parte della saggia ed  esperta Altieri Biagi, un piccolo prontuario per il “buon insegnante”, che può affiancare degnamente le Tesi del Giscel:

- gli insegnanti devono studiare e avere una cultura più globale (molte letture, ma anche cinema e altro);

- gli insegnanti devono mostrare disponibilità; essere pronti a cambiare, ad adeguarsi secondo le classi;

- gli insegnanti devono soprattutto ascoltare: nelle nostre aule i professori parlano troppo!

In conclusione, una giornata non solo di celebrazione ma anche di riflessione, con tanti stimoli, da cui è emersa la necessità di un cambiamento della scuola, che sta diventando sempre più trasmissiva e centrata sull’insegnante , verso l’operatività, la laboratorialità e l’inclusione.

Allora, è auspicabile che la diffusione delle Dieci Tesi, sia un “vademecum inossidabile” per formare nuove generazioni di insegnanti.

Clara Manca - Cidi - Torino - 20 settembre 2015

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Giscel, si incrociano le lame

Nel 1989 ero insegnante a Stresa.

Stresa è una località del Lago Maggiore che conserva un'atmosfera che confina con la memoria, quella del turismo  primonovecentesco. A quel tempo erano i russi a trovare ristoro sulle sdraio degli eleganti "Les Iles Borromées" e "Regina Palace". La rivoluzione d'Ottobre era ancora lontana. Ma Stresa è anche una località famosa per il suo centro congressi e fu così che mi inventai promotore di un incontro italo-francese di sociolinguistica e, un anno dopo, del convegno nazionale del Giscel sul parlato e l'ascolto. Quella del Giscel è una sigla che, ai più, evoca il nome di una crema per le mani ma che, nella realtà, significa qualcosa di molto più impegnativo: Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell'Educazione Linguistica! Io ne ero entrato a far parte nel 1983, quando ancora ero studente universitario. Erano tempi di grande entusiasmo: sulla pelle bruciava ancora un'educazione liceale fondata sulle fumosità dei Sapegno, dei Salinari, dei Pazzaglia. Si sentiva la necessità di pragmatismo, di analisi più immanenti al discorso letterario: si cercava, in altre parole, la testualità. E le "10 Tesi" sull'educazione linguistica elaborate da Tullio De Mauro, e divenute poi fondamento del Giscel, parevano ben assecondare questo desiderio. Ricordo un fatto curioso e nello stesso tempo significativo: ero entrato a far parte della segreteria nazionale dell'associazione e nessuno, neppure il sottoscritto, se ne era accorto! Tanto forte era la voglia di "fare", quanto scarsa l'attenzione alle cariche e alla burocrazia.

Torniamo dunque a Stresa. Dopo i due convegni sopra citati era successo un fatto: un gruppo di docenti di Verbania aveva espresso il desiderio di approfondire il tema del linguaggio. Le riunioni avvenivano nella biblioteca di Villa Olimpia, gentilmente messa a disposizione dal Comune: nasceva così il Giscel Piemonte. I primi anni di storia del gruppo erano fatti di ricerche, partecipazione a convegni e seminari, accesi dibattiti. Dell'équipe facevano parte anche Davide Scalmani e Martino Beltrani che avevano contribuito al lavoro di riflessione introducendo temi di carattere filosofico e antropologico, soprattutto in riferimento all'epistemologia della complessità. Per molti di noi, me compreso, fu una scoperta: la possibilità di considerare il linguaggio non solo da un punto di vista strumentale e funzionale ma anche come espressione dell'essere umano, ci affascinava. "Noi non usiamo il linguaggio, viviamo nel linguaggio": con queste parole amavamo riassumere il nostro pensiero.

La strada intrapresa permetteva di vedere la realtà da una nuova angolazione, un punto di vista che impietosamente metteva a fuoco le debolezza del nostro sistema educativo: nel neopuritanesimo dilagante delle certificazioni di qualità e della deriva aziendalista della scuola italiana, il linguaggio appariva qualcosa di freddo, asettico nella sua oggettività. Potevamo constatare come non vi fosse alcun spazio per gli sguardi e le parole con cui ciascuno di noi, soggettivamente, vede il mondo e interagisce con esso. Scrivemmo allora un articolo dal titolo "Le riforme che stritolano il linguaggio" nel quale si affermava che l'alternanza delle compagini governative lasciava pressoché immutati i problemi dell'educazione al linguaggio, sempre più compressi da logiche imprenditoriali e soffocati dal pernicioso meccanismo prerequisiti-interventi "in entrata"-prestazioni "in uscita". Con orrore vedevamo i nostri studenti trasformarsi in quelle "macchine banali" di cui parlava Heinz Von Foerster. Naturalmente quell'articolo  non poteva accontentare i riformisti e neppure i conservatori: le critiche arrivavano da ogni parte.

Il nostro gruppo iniziava ad essere visto con preoccupazione e quando pubblicammo un articolo per analizzare criticamente le "10 tesi" di De Mauro a trent'anni di distanza dalla loro pubblicazione, le cose peggiorarono drasticamente. In quell'articolo, elaborato da un gruppo di nove persone, si cercava di evidenziare i meriti storici di quel documento ma si diceva anche che, dopo trent'anni, la scuola era cambiata e che, conseguentemente, alcune di quelle "tesi" andavano riviste. L'articolo uscì nonostante il tentativo, da parte di ignoti, di bloccarne la pubblicazione; alcuni mesi dopo, il direttore della rivista responsabile del misfatto mi informò che, avendo ricevuto pressioni "dall'esterno", non avrebbe in futuro potuto pubblicare più nulla che ci appartenesse.

Era logico chiedersi cosa potesse creare tanto imbarazzo: considerare la soggettività nel linguaggio significa mettere in correlazione gli studi linguistici con quelli antropologici, fatto che si scontra con l'analiticità disciplinare e l'attuale separazione degli studi universitari. Non solo: la frammentazione degli insegnamenti corrisponde ormai oggi ad aree di privilegio (potere, gestione di appalti e commissioni, visibilità, ecc.) che vengono difese tenacemente. Ma in quanti educatori che si pongono come unico obiettivo quello di migliorare la condizione dei ragazzi che studiano, non potevamo tenere in considerazione tutto questo. E ancora oggi, che abbiamo fondato il Centro di Ricerche sul Linguaggio e l'Educazione, riteniamo sia stato giusto così: contribuire senza condizionamenti a far sì che i giovani abbiano una migliore educazione, è questo un buon obiettivo per cui impegnarsi.

Questo libro comprende una serie di racconti-saggio la cui coerenza è assicurata da quella visione antropologica del linguaggio che in tanti anni abbiamo costruito: parlano, questi racconti, delle parole della vita ma anche di come si possa vivere dentro le parole.

Agostino Roncallo

                                                                   Il quaderno della vita

Il quaderno della vita: un quaderno a righe per chi ama correre e con i margini, per non schiantarsi contro il bordo della pagina, a quadretti per gli insicuri alla ricerca di forme e di certezze, un quaderno a pagine bianche per chi non vuole barriere...

Una sera di molti anni fa il mare di fronte a S.Giuliano d'Albaro era costellato di tante, piccole, luci di lampare che illuminavano i legni della barca e l'acqua intorno. C'era il caldo di un'estate che a Genova si prolunga fino a intralciare l'arrivo dell'autunno e la bonaccia, che zittiva il brontolio indisciplinato dell'acqua sugli scogli. Albaro è la collina di Genova, da lassù i Fieschi e i Doria, le famiglie che detenevano il potere, potevano guardare dall'alto le mura della città e l'ingresso di Porta Soprana illuminato da fuochi.

Quella sera, chiunque fosse sceso per una crosa verso S.Giuliano, avrebbe di certo sentito una musica lontana e l'eco di una danza nell'aria e avrebbe rivolto lo sguardo verso un illuminato palazzotto, all'interno del quale Eleonora, moglie di Fiesco, era appena uscita dal ballo sbattendo rumorosamente la porta. Togliendosi la maschera che portava in viso, si era buttata su una sedia: diciottenne pallida e diafana, anche stavolta era vestita di nero. Rosa e Arabella, le sue cameriere, erano subito accorse, sconvolte: una civetta nota in tutta la città, una certa Giulia, aveva mostrato occhi suadenti al marito che, per tutta risposta, aveva baciato a lungo il suo braccio nudo. Del resto il Fiesco, conte di Lavagna, era un ventitreenne bello e amabilmente maestoso, dotato di una cortigiana arrendevolezza. Giulia invece, alta e formosa, superba e un po' civetta, aveva un modo bizzarro di essere bella, una di quelle bellezze abbaglianti ma non seducenti, l'espressione del viso ironica e gli occhi maligni.

Giulia era consapevole dell'allettante lusinga che i suoi occhi potevano sprigionare e sapeva anche che il Fiesco ne avrebbe inteso il significato; avrebbe senza dubbio potuto rifiutare l'offerta e non baciare il suo braccio, ma l'avrebbe inteso. Chi invia un segno, sia questo un gesto o una parola, vive in esso, e Giulia viveva nei suoi sguardi e nelle sue parole.

"Conte buonasera..."

Il Fiesco, destinatario di quel segno, colpito da esso, si muoveva intontito, irrigidito come uomo in estasi, come se il mondo ai suoi occhi non esistesse più e lui, insieme a Giulia, nuotasse leggero nell'aria. Scaraventato in aria dalle parole, fluttuante nell'aria come un foglio di carta leggero, strappato al quaderno della vita: un quaderno a righe per chi ama correre e con i margini, per non schiantarsi contro il bordo della pagina, a quadretti per gli insicuri alla ricerca di forme e di certezze, un quaderno a pagine bianche per chi non vuole barriere. Se siamo nelle nostre parole, la nostra vita è in questo quaderno.

"Prendete la cosa per ciò che è effettivamente!... una galanteria." disse Rosa. "Galanteria?" - ribatté inviperita Eleonora - "E l'insistente occhieggiare di lei? E da parte di lui l'ansioso seguire le sue tracce? Eh, bimba mia, che non hai ancora amato, non venire a farmi distinzioni tra amore e galanteria!". Rosa si trovò a questo punto a cercar di dover rimediare alla situazione: "Tanto meglio, madonna! Perdere un marito vuol dire trovare dieci cicisbei." Il rimedio è peggiore del male e in questo caso il linguaggio si rivela una medicina inefficace: Rosa non riesce ad attenuare la collera di Eleonora facendo slittare il significato di "amore" in quello di "galanteria" e neppure risulterà consolatoria la prospettiva di acquisire "dieci cicisbei". Infatti, il grado di irritazione di Eleonora aumentò: "Perdere? Chi parla di perdere? Un breve sussulto di sensualità e io già avrei perduto Fiesco, mio marito? Vattene, vipera! Non venirmi più davanti! Uno scherzo innocente, ecco... sì, una galanteria... Non è così, mia affettuosa Arabella?". "Sì, certamente è così." rispose quest'ultima. Arabella finisce così per confermare ad Eleonora che si tratta di una semplice "galanteria", la stessa spiegazione che quest'ultima aveva poco prima rifiutato a Rosa.

Le nostre parole non si portano dietro un significato come se questo fosse dato loro in prestito una volta per tutte. Rosa dice che quello tra Giulia e il Fiesco non é amore ma una galanteria? Ma... l'insistente occhieggiare di lei? Eleonora non è d'accordo, non può essere una semplice galanteria o forse sì, forse lo era, vero Arabella? Le parole fluttuano, trascinate dalla corrente del nostro pensiero, come su una dolce ile flottante, come la lettera di un'insegna al neon difettosa, che s'accende e si spegne. Ci capita di dover voltar pagina, per cercare nuove parole, che tuttavia non si assomiglieranno mai. Ogni parola è differente, siamo: differenti. Eleonora ha scrittura nervosa che riflette il suo carattere, il tratto della sua penna salta oltre i margini delle pagine del suo quaderno, Rosa e Arabella hanno invece una scrittura più timida, le vocali "a" e "o" contratte in piccoli, invisibili, cerchi.

"I miei domestici! Il postiglione!" Giulia uscì irritata dalla festa e Fiesco la inseguì, affannosamente: "Contessa dove volete andare? Che intendete fare? Capisco come sia stato imperdonabile il comportamento di mia moglie, andarsene così... buttando a terra la sedia e voltando la schiena a lei che sedeva a tavola...". Giulia abbozzò allora un sorriso compiaciuto: "E' forse colpa mia se il conte suo marito ha gli occhi?". "La grave colpa della vostra bellezza - rispose il conte - è che io non abbia occhi che per voi. Il mio amore è un eroe abbastanza ardito da rompere le barriere della gerarchia e da spiccare il volo verso il sole accecante della vostra maestà". "Niente complimenti, conte; tutte le bugie avanzano sulle stampelle zoppicando. La sua lingua infatti mi porta in cielo, mentre il suo cuore continua a palpitare per un'altra donna" rispose Giulia. A questo punto il Fiesco si strappò di dosso il ritratto di Eleonora che portava appeso ad un nastro azzurro e lo porse a Giulia dicendo: "Sarebbe meglio dire, madonna, che il mio cuore batte di malavoglia e non desidera che disfarsene; ponete su questa la vostra immagine e vi sarà facile distruggere l'idolo". Giulia si nascose subito in seno l'immagine, molto lieta di questo fatto, e subito gli porse al collo la propria, cosa che fece infuocare l'animo del conte: " Giulia mi ama! Giulia! Non invidio più nessun immortale! Questa notte è una festa degna degli dei e la gioia deve celebrare il suo capolavoro. Il nettare scorra sui pavimenti, la musica svegli la mezzanotte dal suo plumbeo sonno, mille lampade accese offuschino il sole del mattino... Sia gioia universale e la bacchica danza faccia rovinare sotto il suo turbine il regno dei morti!".

Nel palazzo del Fiesco, chi quella sera avesse aperto la tenda centrale del salone avrebbe visto una gran sala illuminata e molte maschere danzanti. L'euforia del Fiesco nasce dalle parole di Giulia, le parole che portano in cielo. Sono le parole che si incidono in noi, che sentiamo sulla pelle, quelle dal gusto persistente, dal retrogusto insistente, le parole che amiamo, da cui non ci stacchiamo, che porteremo con noi in bauli pieni di quaderni, i quaderni della vita.

Ci sono tre anime nelle parole del Fiesco di Eleonora, in questa loro storia tormentata: tre modi di essere, dolorosamente, nella vita e nella parola.

La prima anima unisce e divide, la fragilità dell'unione tra Eleonora e il Fiesco Eleonora è la stessa di due parole unite dal "senso comune": sulle nostre labbra ogni parola appare diversa. Ci disperiamo sempre per questo, vorremmo ogni volta ritrovarci in un mondo condiviso. Si battono i pugni sul tavolo, si strappano i capelli: perché non ci capiamo?

La seconda anima avvicina e allontana. Eleonora si avvicina ad Arabella solo perché ha confermato la supposizione secondo la quale il comportamento del marito altro non sarebbe che una banale galanteria: ci si incontra intorno al significato di una semplice parola, come intorno ad un tavolo, ci si stringe le mani.

La terza anima concorda e discorda. Il procedere in accordo può portare gioia, felicità, al contrario i disaccordi sono fatti di sofferenza. Nel primo caso le parole saranno appassionate, come quelle che colpiscono e fanno volare il povero Fiesco.

Sono le parole che si incidono in noi, che sentiamo sulla pelle, quelle dal gusto persistente, dal retrogusto insistente, le parole che amiamo, da cui non ci stacchiamo,

che porteremo con noi, in baùli pieni di quaderni, i quaderni della vita...

Agostino Roncallo

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