Villa Bassi, l’arte dentro e fuori il tempo ordinario

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Villa Bassi Rathgeb, un edificio della metà del 500' che sorge nel verde di un parco nel comune di Abano Terme, poco distante da Villa Dondi dell'Orologio, la cui omonima famiglia fu proprietaria anche di questa antica dimora, si anima di un dialogo fitto di rimandi fra le sue pareti affrescate con storie del mito e le opere esposte, appartenute alle raccolte d'arte di due collezionisti lombardi vissuti a cavallo dell'Ottocento e del Novecento: Roberto Bassi Rathgeb e Giuseppe Merlini. Seicento-Novecento: Da Magnasco a Fontana la mostra che è in corso e che rimarrà aperta fino al 5 aprile 2021 affianca e mette a confronto la collezione donata da Roberto Bassi Rathgeb che era legato al Comune di Abano Terme per lunga familiarità con questi luoghi e le cui opere interessano soprattutto il periodo lombardo compreso fra il Seicento e l'Ottocento, e la collezione di arte contemporanea di Giuseppe Merlini. Merlini iniziò intorno agli anni 60' a raccogliere opere dei grandi protagonisti della stagione del 900', diventati ormai icone consacrate del nostro patrimonio figurativo e si appassionò alle espressioni artistiche delle nuove correnti del dopoguerra, mostrando particolare attenzione per la pittura Analitica emersa negli anni 70'. Grazie a questa geniale comparazione sembra ricrearsi nelle sale della villa l'atmosfera che apparteneva un tempo a questo territorio collinare dove si uniscono la bellezza dei paesaggi naturali alla passione intellettuale di molti suoi frequentatori. Il leit motiv è l'armonia di linee e colori che sembrano danzare davanti ai nostri occhi per la piacevolezza del nostro sentire e che al tempo stesso sanno raccontare vicende e correnti artistiche che hanno caratterizzato con la loro impronta ed il loro stile epoche storiche dense di cambiamenti. Quando ci capita di citare alcuni artisti, da Giorgio Morandi a Evaristo Baschenis, da Amedeo Modigliani ad Adolfo Wildt, da Gino Severini a Lorenzo Viani, da Lucio Fontana a Piero Dorazio o Enrico Castellani, da Giorgio De Chirico a Renato Guttuso, da Alessandro Magnasco a Filippo de Pisis, i nostri neuroni ricevono veloci sollecitazioni e si formulano nella nostra mente pensieri che ricostruiscono visioni che ricompongono tasselli dei nostri amati ricordi. Gli accostamenti dei quadri e delle sculture di questi autori e di molti altri in mostra entrano negli spazi della villa per innestare in quei luoghi una linfa vitale e rendere abitabili dal visitatore e vicine quelle sale dipinte con affreschi che contengono paesaggi e favole che ancora incantano per la loro poesia. Passo dopo passo, dentro ogni camera del palazzo antico facciamo conoscenza del Bello, questa categoria o meglio percezione del nostro vivere che induce alla positività e a guardare in modo favorevole quello che ci circonda, come accade nella prima sala di Apollo e Dafne, dove la luce che entra dalle finestre illumina il forte piano realizzato da un maestro viennese dell'Ottocento. Appesa alle pareti possiamo ammirare la tavolozza accesa di Darsena, un quadro di Alfredo Chighine, un pittore che nella materia pittorica condensa anche la sua esperienza di scultore. E dentro una nicchia, vicino alla finestra, leggiamo lo stupore nei grandi occhi sgranati delLa Maddalena con la pelliccia di Giuliano Vangi dove ogni aspetto è fonte di curiosità: dalle mani e i piedi alle superfici levigate o ricche di piccoli anfratti come la pelliccia che avvolge la figura. La mostra curata dalla storica dell'arte Virginia Baradel e promossa dal Comune di Abano Terme si articola in tre sezioni che mettono insieme il genere del Paesaggio, del Ritratto e della Natura morta. Si tinge di toni romantici la sala dove compaiono le farfalle di Claudio Parmiggiani su una grande superficie bianca. Esse richiamano le ali degli elfi del dipinto di Alois Nigg che si era ispirato al Sogno di una mezza estate di Shakespeare nelle figure dei due amanti. Di seguito i paesaggi invernali di Francesco Fidanza e l'opera di Valentino Vago sembrano continuare in tempi e luoghi diversi la ricerca sulla luce, dall'azzurro al bianco e viceversa, dalla foschia alla visione. Nella sala di Mercurio ed Argo, Le bagnanti di Fausto Pirandello dove si mescolano le lezioni, nelle linee e nel colore, del cubismo e del fauvismo, interpretano un soggetto caro alla letteratura artistica che ha nel quadro omonimo di Cezanne una pietra miliare e che è stata fonte di ispirazione anche per l'altro quadro dello stesso soggetto di Ennio Morlotti, presente in mostra. L'accensione del colore, espressione di una materia che sembra plasmarsi e rigenerarsi si trasforma nel vitalismo di tocchi di luce che quasi sembrano ubriacarci nel dipinto Natura Selvatica di Renato Birolli. Dello stesso autore Donna e luna si affianca in una sala alla moglie di Picasso di Enrico Baj, opera che nonostante il gusto della scomposizione sa impreziosire il volto di Dora Maar, la compagna dell'artista spagnolo. Il volto rosso coperto da un capello giallo striato della moglie Mimise di Renato Guttuso mantiene salde le forme pur nel riaffiorare della tentazione della frammentazione cubista. Ci colpisce il quadro La signora col Crisantemo di Lorenzo Viani che si lega alla corrente dell'Espressionismo e dove il viso sembra diventare teschio, mentre ci cattura l'eleganza barocca della Bagnante di Giorgio de Chirico che mostra con naturalezza la sua avvenenza. Proseguono il racconto le Nature morte di Giorgio Morandi che hanno un fascino senza tempo e i paesaggi di Alessandro Magnasco come il Vecchio Mulino messo vicino al Gianicolo di Filippo De Pisis oppure Rejocing city that dwelt carelessly di Sergio Dangelo posto accanto a Composizione di Manlio Rho. Sono immagini di epoche diverse e di letture altre rispetto a quelle consuete della nostra visione del mondo. Una piccola sezione è dedicata a Gianfranco Ferroni, un pittore che ci conduce in altri luoghi, spazi quasi metafisici, dove gli oggetti sembrano essere rimasti i solitari protagonisti di un'azione che già si è svolta e che noi ci sforziamo di indovinare. Come testimonianza delle sinergie in gioco nella preparazione della mostra DA MAGNASCO A FONTANA possiamo citare la partecipazione degli studenti del quarto e quinto anno della Scuola di Conservazione e Restauro dell'Università degli Studi Carlo Bo di Urbino che hanno curato con la guida della docente Mariella Gnani l'allestimento e la conservazione delle opere negli spazi espositivi.

Patrizia Lazzarin – 19 ottobre 2020

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Oltre il visibile, De Chirico a Milano, a Palazzo Reale

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Cavalli in una stanza e sulla  riva del mare, destrieri che si solidificano in pietra  bianca o grigia, costruiti con schegge di gesso e di marmo. Cavalli  liberi  a volte e prigionieri in altre, nella natura  e fra le pareti di un edificio, vivi o  pietrificati, ma senza occhi. E’ questo un  particolare comune ad uno dei soggetti  che più affascinano nella mostra dedicata a Giorgio de Chirico  che si è aperta  il 25 settembre a Milano  a Palazzo Reale. La capacità visionaria di questo pittore trova un’espressione bellissima, luminosa e stimolante attraverso le immagini di  animali, simbolo eterno di libertà che siamo abituati a vedere, nella nostra mente, muoversi su vaste praterie. L’arte  in De Chirico è una ricerca sapiente che si svolge  durante tutta la sua vita. E’  un voler guardare oltre, al di là del visibile. Pittura la sua spesso, se non sempre, autobiografica per i tanti rimandi alla propria  vicenda esistenziale a cominciare da uno dei primi quadri che vediamo in mostra La partenza degli Argonauti del 1909. In esso racconta, trasfigurandolo con l’ausilio del mito,  il suo abbandono e quello del fratello Alberto della terra greca dopo la morte del padre ingegnere.  La storia di Giasone e Polluce alla ricerca del vello d’oro è solo l’inizio di quel viaggio che attraverso le favole del mito   affonda le  radici nell’antichità   e finisce per svelare sentimenti e pensieri dell’artista che si nutrono di filosofia, di letteratura e d’arte.  Friedrich Nietzsche è stato  il suo amato  filosofo, Arnold Böcklin il pittore simbolista con  cui ha condiviso  le atmosfere  agli inizi del suo percorso artistico. Certamente la vasta cultura  dell’artista non si esaurisce qui, se pensiamo al suo recupero della lezione giottesca e di Piero Della Francesca nei dipinti che lo hanno reso famoso e al tempo stesso l’hanno definito intrigante. Una vena di provocazione più o meno sottile  attraversa l’intera  l’opera di Giorgio de Chirico che distende  davanti ai nostri  occhi piazze vuote popolate da  architetture che misurano esse stesse lo spazio, geometrie in primis  che recuperano il significato originario di questa scienza: misura della terra, ossia  del luogo in cui  viviamo. O forse non viviamo più. La piazza simbolo di socialità ribalta il suo significato di momento d’incontro. Nessuno o solo qualche statua  e manichino riempiono di nuovi significati quegli spazi.  Nell’olio del Metropolitan Museum of Art di New York Arianna abbandonata da Teseo e sposa di Dioniso, giace solida nel suo manto di pietra, a lato dello spazio vuoto, sola. Gli sbuffi di un treno in lontananza e le vele bianche dalla parte opposta si coniugano nel definire il sentimento del luogo. Sentiamo brividi di freddo percorrere le nostre membra mentre osserviamo il quadro e mentalmente attraversiamo quella piazza.  Il Grande Metafisico, l’inventore  di una nuova avanguardia, assai originale, diversa da quella cubista o futurista, con i suoi Manichini di legno svela in questa mostra, come ha dichiarato il curatore Luca Massimo Barbero durante la conferenza stampa, anche  la sontuosità pittorica degli anni Venti e Trenta che spesso scontenta la critica ufficiale.  Pittore conteso soprattutto discusso, fino al culmine di una causa contro la Biennale del 1948, nell’esposizione aperta fino al 19 gennaio 2020 si sono condensati nuovi studi che ne rivelano attraverso i cento capolavori presenti in mostra giunti da musei milanesi, ma anche da istituti museali internazionali e da collezioni private la ricchezza e al tempo stesso la varietà della pittura di De Chirico. Il suo voler farci guardare oltre è una sfida anche per le nuove generazioni come ha fatto notare l’assessore alla Cultura del Comune di Milano, Filippo del CornoLo scopo di questa mostra è anche quello di far conoscere questo artista ai giovani  e di facilitare un loro contatto diretto con l’opera d’arte. Fra le molte città dove il pittore  ha vissuto sicuramente lo aveva ispirato Ferrara: la città dei duchi d’Este che aveva ospitato gli artisti  visionari Ercole de’ Roberti e Cosmè Tura  e che con le sue vie e ampie arterie e i palazzi dal rigore geometrico aveva  stimolato la sua vena fantastica. Nel Saluto dell’amico lontano,  di quegli anni, ricompare l’occhio, quello che a partire dal 1918 egli invitava a vedere in ogni cosa. Il presidente della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, Paolo Picozza, ha mostrato tutta la sua meraviglia per gli esiti di questa mostra su De Chirico. Un’esposizione, questa, come ha sottolineato il direttore di Palazzo Reale, Domenico Piraina,  che si è arricchita di costanti approfondimenti critici e che quindi rispetto alla grande antologica sull’artista a Palazzo Reale nel 1970 e a quella del 1987 dedicata in maniera specifica agli anni Venti della sua arte, riconduce la complessiva opera dell’artista entro coordinate più corrette e giustificate dal punto di vista storico e documentale. Nelle linee programmatiche di Palazzo Reale anche l’idea di proporre un autore che testimoniasse, come già fatto con Rubens, Ingres, Picassoil significato del mito nella cultura occidentale. Ecco dunque che un artista come Giorgio de Chirico  non poteva mancare. Corazze con cavaliere, quasi di sapore ariostesco dipinto negli anni Quaranta sembra riprodurre nell’immacolata cittadina arroccata sul colle echi di atmosfere cavalleresche: miti di mondi d’altri tempi.  Il figliol prodigo, opera del 1922 e   anche  icona  della mostra e  Ettore ed Andromaca del 1923 racchiudono due temi essenziali del pensiero e dell’espressione di De Chirico: gli affetti importanti e il modo di relazionarsi  con essi. Ettore è quasi un manichino, Andromaca e il padre si stanno trasformando in pietra, una materia che sembra avere a tratti ancora la morbidezza di un mantello. Una sostanza che sembra solidificare l’essenza e la bellezza di chi amiamo nell’eternità ma al tempo stesso indicare lo spessore o la natura dell’animo umano. La pietra diventa anche quella summa di minerali in cui si trasforma il  pittore-poeta nell’Autoritratto del 1924/25 di collezione privata,   dove    la pelle della mano si mostra  come  creta bagnata. La storia di  Giorgio de Chirico è ancora colore, quelle tinte che hanno  la forza dell’antica pittura veneta come nell’Autoritratto nel parco eseguito nel 1959. Quei toni accesi che egli usa per ironizzare e anche, per svolgere un filo che ci conduce a guardarlo  proiettato in un lontano Seicento. Viaggio nella storia ma anche meditazione su di essa. Una Storia a volte riesumata, masticata come le rovine di propilei, templi e statue greche nel ventre dell’Archeologo, metafora di un passato non elaborato e faticoso o invito a riappropriarsi in maniera adeguata dell’antico? Rebus ed interrogativi riempiono le tele del pittore dove l’intensità del colore avvolge e allo stesso tempo indica con le sue sfumature le tonalità di un uomo e quelle di tanti periodi storici, da fine Ottocento agli ultimi anni  70’ del 900’. Nel catalogo pubblicato da  Marsilio Electa, come anche nell’esposizione,  il curatore Luca Massimo Barbero propone confronti fra i soggetti e le immagini dechirichiane, ossia degli inciampi per esprimere la  metafisica del quotidiano nella pittura dell’artista. Molti i saggi di approfondimento come quelli di Cristina Beltrami, di Giovanni Casini, di Andrea Cortellessa e quelli della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico. La mostra, che ha come principale sponsor M&G Investment, termina con  l’ottava sala dedicata alla Neometafisica che chiarisce la forza concettuale dell’ultima produzione dell’artista originario di Volos nella Tessaglia e che rappresenta una sintesi del suo pensiero.                                                                                

Patrizia Lazzarin, 25 settembre 2019

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