L’esempio in Europa

A qualunque costo! Che cosa sarebbe accaduto all’euro se nel luglio 2012 Mario Draghi, anziché dire che la Banca centrale europea avrebbe difeso l’euro «costi quel che costi», avesse annunciato un numero, una quantità anche immensa di acquisti di titoli pubblici? I mercati lo avrebbero messo alla prova e, speso quell’ammontare, alla Bce non sarebbero rimaste che due strade: perdere la propria reputazione e andare oltre il limite che aveva annunciato, oppure abbandonare l’euro. Qualunque strada avesse scelto, la moneta unica non ci sarebbe più. Analogo è oggi il problema di come usare il bilancio pubblico per far fronte all’epidemia del Covid-19. È sbagliato partire da un numero massimo di tagli di tasse e aumenti di spesa. Non sappiamo di quale intervento ci sarà bisogno per arginare l’effetto dell’epidemia sull’economia. Quando rallenterà la diffusione del contagio? Dovranno essere estese le zone rosse? Quanti Paesi, e quanto a lungo, proibiranno ai nostri imprenditori di viaggiare, frequentare le fiere, incontrare i clienti? Nessuno oggi lo sa. Il governo ha già annunciato misure per 3,6 miliardi di euro. Basteranno? Probabilmente no anche nelle ipotesi più ottimiste. Come si può pensare che un intervento che vale lo 0,2 per cento del Pil riesca ad arginare uno choc che ha fermato interi settori, dal turismo alle fiere, e intere province? Come nell’esempio della difesa dell’euro non bisogna annunciare un numero, ma un obiettivo irrinunciabile. Innanzitutto, costi quel che costi, medici e ospedali devono essere posti in condizione di funzionare. Si chieda ai primari dei reparti di che cosa hanno bisogno e gli venga concesso nel più breve tempo possibile. I dipendenti di imprese che a causa dell’epidemia hanno visto svanire gli ordini devono essere protetti, che godano dei benefici della Cassa integrazione o no, che abbiano contratti a tempo definito o a tempo indeterminato. Idem per gli autonomi la cui attività non sia nella forma di una società a responsabilità limitata. Le tasse dovranno intanto essere rinviate nelle zone rosse e gialle, poi si vedrà. Le imprese non devono fallire a causa dell’epidemia: ciò significa ampia liquidità per far fronte alla caduta della produzione. In altre parole occorre evit"re che allo choc all’offerta, causato dall’interruzione delle catene produttive (ad esempio perché il fornitore cinese di un pezzo essenziale non produce più), si sommi uno choc alla domanda, causato dalla caduta dei consumi privati, costi quel che costi. La politica economica non è in grado di riparare uno choc all’offerta, ma di impedire che ad esso si sommi una caduta della domanda, questo sì. Gli Stati Uniti lunedì scorso hanno messo in campo la Banca centrale annunciando un taglio dei tassi di interesse. È stato un intervento contro-producente perché nessuno crede che con tassi di interesse ormai vicino a zero (o addirittura negativi nell’area dell’euro) la politica monetaria sia lo strumento da usare. Mi aspetto che a breve il presidente Trump annunci un grande programma fiscale, un intervento sulle tasse, simile nella dimensione a quello messo in campo da Barack Obama nella primavera del 2009 e che valeva quasi 5 punti di Pil. Nell’eurozona un simile intervento dovrebbe e"sere deciso dall’unione europea. Ma purtroppo siamo ancora lontani da poter attuare una politica fiscale comune. Il commissario europeo Paolo Gentiloni nell’intervista di ieri al Corriere ha fatto chiaramente intendere che Bruxelles non bloccherà interventi giustificati dalla gravità dello choc. Ma devono essere interventi realistici e mirati alla difesa e al rilancio dell’economia. Infine dovremmo ricordarci che le crisi offrono anche opportunità spesso non disponibili in tempi normali. Il piano fiscale straordinario che il governo si appresta ad annunciare dovrebbe essere accompagnato da qualche intervento strutturale. La Cassa integrazione in deroga potrebbe essere estesa stabilmente a tutti. C’è la difficoltà che alcuni lavoratori oggi non pagano il contributo che finanzia la Cassa. Si potrebbe pensare a una fase straordinaria in cui essi accedono ai benefici della Cassa anche senza avervi contribuito, seguita da un ritorno alla normalità in cui cominciano a pagare i contributi. Ma il punto che tutti hanno diritto alla Cassa potrebbe essere acquisito. Rispondere alla crisi significa non solo difendersi ma anche puntare lo sguardo più avanti. I tanti progetti di semplificazione finiti nei cassetti dei ministeri potrebbero essere resuscitati. Nelle difficoltà di queste settimane si è capito quanto sia importante poter lavorare a distanza, dalle scuole, alle università, alle imprese. Per le aziende, e non solo, questo si chiama «industria 4.0». Approfittare dell’emergenza per dare al Paese il segnale del quale ha bisogno: «Siamo pronti, a qualunque costo» a reggere alla crisi e, soprattutto, a ripartire.

Francesco Giavazzi – Corriere della Sera – 5 marzo 2020

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Dopo le sbruffonate, Trump comincia una fase più seria contro il Covid-19

“Quando ci date un vaccino?”. L’Amministrazione Trump è passata alla fase due della reazione all’epidemia di coronavirus in America. Non minimizza più, fa pressione per ottenere un vaccino (ma è troppo presto) e per ottenere più kit per fare i test (ne arriveranno mezzo milione, ma non ci sono abbastanza laboratori). Il governo pensa anche di usare un fondo nazionale accantonato per fare fronte alle catastrofi per pagare le cure mediche ai 27 milioni di americani che non sono assicurati. La ratio è che i non-assicurati potrebbero essere tentati di evitare costose spese mediche e spargere con maggiore velocità il contagio. La Casa Bianca ha anche centralizzato tutto quello che riguarda la comunicazione, per evitare l’effetto panico e le sue conseguenze. E pensare che fino a venerdì scorso Trump diceva che il contagio era una bufala messa in giro dai democratici per vincere le elezioni. Ora ci sono circa cento infetti e sei morti, destinati in modo inevitabile a crescere. 

L’Amministrazione Trump è entrata nella seconda fase della crisi da coronavirus. La prima è durata pochi giorni ed era quella della minimizzazione del rischio. Il presidente durante un comizio venerdì sera nella Carolina del sud aveva descritto l’epidemia come una bufala molto pubblicizzata dai democratici per danneggiarlo – il giorno dopo c’è stato il primo decesso – e otto giorni fa aveva twittato che “tutto è sotto controllo”. Non poteva durare, perché il numero di contagiati americani cresce secondo la progressione matematica che abbiamo imparato a conoscere in Italia e per ora ha superato il centinaio – sparsi fra diversi focolai. La Borsa la settimana scorsa ha dato segni di panico con le perdite peggiori dal 2008 perché non era molto convinta dalle rassicurazioni del governo. Come hanno spiegato alcuni esperti al Washington Post, il virus è in territorio americano da almeno sei settimane, quindi da gennaio, e adesso è soltanto questione di scoprire dove salteranno fuori i raggruppamenti più pericolosi – o più veloci a espandersi – di ammalati. L’Amministrazione ieri ha detto che entro la settimana avrà a disposizione mezzo milione di kit per fare i test, ma il numero di laboratori che possono analizzare i risultati è sempre quello quindi c’è un collo di bottiglia. E’ probabile che più aumenteranno i test fatti e più aumenterà il numero di contagiati.

Ora siamo quindi alla seconda fase della crisi. Il Wall Street Journal dice che si sta pensando di usare i fondi accantonati in caso di disastro nazionale per pagare ospedali e medici ai 27 milioni di americani non assicurati – è una misura che potrebbe rallentare il contagio, perché i non assicurati in caso contrario potrebbero evitare gli ospedali per paura di dover pagare le spese mediche. In pratica si tratterebbe di un allargamento eccezionale della copertura sanitaria: il sogno di Bernie Sanders, fatto però da Trump (e soltanto per il coronavirus). La comunicazione della Casa Bianca è cambiata di colpo, non minimizza più, e tutti i messaggi e le dichiarazioni che riguardano l’epidemia di coronavirus devono prima passare dalla nuova task force contro il virus guidata dal vicepresidente americano Mike Pence. 

Intanto lui stesso è incappato in un incidente, perché venerdì è andato in un’accademia militare a Sarasota, in Florida, a stringere le mani ai cadetti ma uno di loro (non presente) è in quarantena per possibile contagio e quindi ci si è chiesti se c’è la possibilità di una trasmissione dai cadetti al vicepresidente. Sembra da escludere, perché ieri Pence è andato al Congresso per parlare sia con i repubblicani sia con i democratici, vuole che la politica risponda in modo bipartisan e trasmetta l’idea di un paese unito. I democratici vogliono alzare assieme ai repubblicani i due miliardi e mezzo di dollari del pacchetto anti-epidemia promesso da Trump a sette miliardi di dollari perché considerano la cifra insufficiente e continuano a essere molto critici contro il presidente. Loro lo accusano di avere sottovalutato la situazione, lui risponde che fanno così soltanto perché sono in campagna elettorale. 

Il controllo più stretto sulla comunicazione da parte della Casa Bianca è la ragione che spiega perché uno degli esperti più rispettati del paese, Anthony Fauci, capo dell’Istituto per lo studi delle malattie infettive e consigliere della Casa Bianca da decenni, non potrebbe più secondo il New York Times fare dichiarazioni dirette ai giornalisti a meno che prima non chieda il permesso (lui smentisce che sia così). Anche i comandanti dei contingenti di soldati americani all’estero – e molti sono in paesi a rischio, come l’Italia e la Corea del sud – devono coordinarsi con il governo prima di prendere misure drastiche. Il significato di queste disposizioni è chiaro: l’Amministrazione vuole mantenere il controllo dei messaggi che arrivano agli americani in tempo di epidemia perché pensa che sia uno dei campi più importanti da sorvegliare. Teme l’effetto panico e le sue conseguenze. Anche perché le previsioni non sono per nulla buone. Proprio l’esperto Fauci in un’intervista a Politico di ieri dice che si aspetta un impatto grave della malattia sugli americani, “un giorno ci gireremo indietro e penseremo a questi giorni e diremo: ce la siamo vista davvero brutta”. Inoltre smentisce che il vaccino sarà trovato in tempi brevi: “Ci vorrà almeno un anno o anche diciotto mesi, non è possibile ottenerlo prima”. Lunedì il presidente Trump aveva fatto un incontro con le case farmaceutiche per prepararsi alla crisi. In pratica si è trasformato in una richiesta singola e pressante.

In questa seconda fase di gestione della crisi il governo americano ha anche vietato l’ingresso nel paese a chi è stato in Iran negli ultimi 14 giorni – perché è un paese dove il numero degli infetti è altissimo – e chiede di non recarsi nelle zone di Italia e Corea. Trump nei giorni scorsi aveva invitato la Federal Reserve a tagliare i tassi di interesse e ieri è successo, la Fed ha tagliato il costo del denaro di mezzo punto e non succedeva dal 2008, ma il presidente ha detto di non essere ancora soddisfatto.

A New York, quindi dalla parte opposta del paese rispetto al focolaio principale nello stato di Washington, è stato trovato un secondo caso, dopo la donna appena arrivata dall’Iran e risultata positiva al test. Il governatore dello stato di New York, Mario Cuomo, vuole modificare la legge per obbligare i datori di lavoro a pagare ai dipendenti assenti per malattia oppure in quarantena. La legge, oltre a proteggere di più i lavoratori, ha una sua ratio contro il virus perché si teme che le persone nascondano di essere malate per non perdere giornate di lavoro e quindi facilitino la diffusione del virus.

Daniele Raineri - Il Foglio - 4 marzo 2020

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