Renoir, l’alba di un nuovo classicismo

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Gli occhi  con venature di luce e dall’azzurro intenso, simile al colore dei lapislazzuli usati negli affreschi “antichi” e rinascimentali, teneri nell’umanità che lasciano trasparire, fanno da contrappunto armonico alla distesa blu che si stempera nelle  differenti tonalità del mare e del cielo, nelLa Bagnante bionda di Pierre Auguste Renoir, l’immagine simbolo della mostra che si apre oggi, a Palazzo Roverella, a Rovigo. Dalla macinazione del  lapislazzulo si ottiene un colore chiamato “oltremare”, definito nei trattati di pittura quattrocenteschi, la tinta più perfetta. Utilizzato per il manto delle Madonne e colore simbolico dei reali di Francia, il lapislazzulo è il blu per eccellenza e il più ricercato. I cieli azzurro turchese della Cappella degli Scrovegni e della Cappella Sistina beneficiano delle sfumature di questa polvere di stelle, come potremmo chiamarla per la forza luminosa che  promana. Nella Baigneuse blonde del 1882, appena nominata, compare la modella ventiduenne, Aline Charigot, futura moglie di Renoir, l’artista francese nato a Limoges nel 1841 e che noi annoveriamo nel gruppo d’avanguardia degli Impressionisti.

Ma quella Venere ideale, il cui corpo dalle forme tornite e piene esprime la bellezza della femminilità, è già l’espressione della nuova ricerca stilistica del pittore che, alla fine degli anni ’70, incomincia a porsi numerosi interrogativi e a cercare una luce diversa da quella en plein air, per riprodurre il reale che acquisisce in maniera progressiva nei suoi quadri, un carattere di universalità e atemporalità. La luce di Algeri e della penisola italiana che egli visita nel 1881  lo cattura in  un tour attraverso  luoghi ricchi di storia e  fondamentali per la sua formazione. A Venezia scoprì Carpaccio e Tiepolo, mentre Tiziano e Veronese li aveva già studiati al Louvre. A Roma fu invece colpito dagli affreschi nelle Stanze Vaticane di Raffaello e dal suo Trionfo di Galatea nella villa Farnesina e una lezione importante per il suo percorso artistico è sicuramente la visita di Napoli e al suo museo archeologico. Lo affascinarono il sole sul mare di Capri e di  Sorrento  e le pitture di Pompei. Si matura un’aspirazione classicista, che già era in nuce nella sua formazione e background, e che l’aveva portato ad apprezzare, nel tempo in cui era solamente un “dipintore” su ceramica,  artisti esponenti del rococò, come Jean Honorè Fragonard e Antoine Watteau, ma che prende forma,  negli anni successivi, nel suo apprezzamento per Jean August Dominique Ingres.

Nel 1883 egli legge un libro che sicuramente è fonte di  nuove idee e ricerche formali. Si tratta della traduzione, di Victor Mottez, allievo di Ingres, del trecentesco Libro dell’arte di Cennino Cennini,  di cui egli scriverà addirittura la prefazione per la nuova edizione del testo avvenuta nel 1910. Tra insegnamenti su pennelli, leganti e colori in Cennini, Renoir trova l’ispirazione  per ripensare alle finalità della sua arte e al modo di rendere le sue aspettative. Metterà ad esempio, in un primo tempo, in discussione la bontà dell’uso dell’olio, ma soprattutto, anticipando per alcuni aspetti la volontà di Giorgio de Chirico di ribadire la necessità di un rappel a l’ordre, o se vogliamo  di un ritorno al mestiere, modificherà il proprio stile in senso classico rivolgendo i propri sforzi verso la cura del disegno e la nitidezza delle linee. Ecco allora che le figure dei suoi quadri diventano piene, solide come  le  sculture nel tramonto della sua vita illustrano in modo particolarmente efficace, ma che intuiamo a colpo d’occhio, anche dal confronto  della Bagnante che si asciuga i capelli del 1890 e della  Donna che si asciuga degli anni 1912-14, opere entrambe visibili in rassegna a Rovigo.

Renoir innamorato di una bellezza che aspira all’eternità, nei suoi seimila dipinti realizzati in sessanta anni di vita, morirà infatti nel 1919, ci restituirà, nelle forme materiche dei fiori delle sue nature morte, nei paesaggi con boschi, prati, case e superfici marine e  nei corpi nudi di donne simili a Veneri, la gioia di vivere che nasce dalla contemplazione dell’armonia e della piacevolezza del visibile. La classicità mediterranea  lo guida, come abbiamo visto,  anche  negli ultimi anni di vita, quando  colpito  dall’artrite deformante egli  sarà la mente e lo scalpello degli ultimi ritocchi dell’opera scultorea Venus Victrix, la dea che tiene nelle mani il pomo della vittoria assegnatale da Paride. La scultura modellata nel giugno del 1914 dall’assistente catalano Richard Guaino, allievo di Aristide Maillol e rifinita da Renoir, esprime una monumentalità serena e maestosa. Nell’esposizione potremmo ammirare l’opera precedente a questa: la Piccola Venere in piedi poiché sulla prima pende da poco il dubbio di una sua provenienza problematica. La mostra di Rovigo, promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, con il sostegno di Intesa Sanpaolo e la produzione di Silvana Editoriale, ha la curatela di Paolo Bolpagni.

 Il confronto con le opere di Giorgio De Chirico e quello fra i dipinti impressionisti di Renoir e quelli degli italiani a Parigi, durante la stagione impressionista, offrono nuove chiavi di conoscenza dell’arte del pittore francese. Il rimando e i legami fra le espressioni artistiche italiane e quelle del paese d’oltralpe sono, come si ha occasione di capire durante la visita, un filo conduttore, un leit motiv dell’esposizione. I paesaggi di Renoir sono posti accanto a quelle di pittori della generazione successiva, quali Carlo Carrà, Arturo Tosi e Enrico Paulucci e il paragone si rinnova con i quadri che raffigurano fiori, soprattutto degli autori sopra citati, a cui si unisce Filippo de Pisis.  Una rassegna che unisce passato lontano e vicino come quando accosta Renoir  a Romanino e Rubens. Si conclude  con Armando Spadini, cantore dell’infanzia e degli affetti familiari, definito da Giorgio de Chirico, un Renoir italiano. Nel 1936 il famoso regista Jean Renoir, figlio secondogenito di Pierre Auguste, diresse un breve film di circa quaranta minuti ambientato nella seconda metà dell’Ottocento, dal titolo Una gita in campagna. Nelle sue inquadrature ritroviamo, come avremo occasione di comprendere nell’ultima sala della mostra, le scene e le atmosfere della pittura del padre, grazie al restauro di alcuni spezzoni della versione originale del film che reca sottotitoli in italiano. A Rovigo avremmo l’occasione di  ammirare accanto ai grandi maestri del passato a cui Renoir si ispiro, quarantasette sue opere provenienti da diversi musei europei.

Patrizia Lazzari, 25 febbraio 2023

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Palazzo Maffei: sulle tracce di Virginia Woolf

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Un luogo di delizie per lo spirito e la mente è il seicentesco Palazzo Maffei nel centro storico di Verona. Il suo affaccio su Piazza delle Erbe è uno sguardo sul presente e sul passato: nell’oggi, fra la gente che affolla le sue sale, le piazze e le vie tutt’intorno, nei secoli trascorsi per merito della sua architettura che, nella sua maestosità ed eleganza, richiama i fasti e la teatralità del barocco. E proprio guardando dalla terrazza, dove si arriva dopo aver visitato le collezioni d’arte del primo e del secondo piano, in cui la contemporaneità e l’antico affabulano in un dialogo  fatto di rimandi e di significati, che i nostri occhi rapiti dalle file delle finestre dei palazzi che formano una corolla e da un cielo che sembra avvicinarsi ai rossi tetti di tegole, colgono il senso della meraviglia che nasce da un’affascinante scoperta. Il paesaggio naturale appare legato ai palazzi della città, mentre sullo sfondo una luna del tardo pomeriggio autunnale, brilla nella sua lucentezza bianco-argentea. Viaggiando fra le opere, con la musica che proviene dalle cuffie che da poco abbiamo indossato, seguiamo i passi di una  danzatrice lungo le sale. Sul suo filo di Arianna, simbolicamente steso, percepiamo la bellezza dell’arte che in mille forme si presenta. Il libro, Una stanza tutta per se di Virginia Woolf è la trama su cui la coreografa Camilla Monga tesse, in maniera libera, i suoi fili e le sue mosse fatti di lievi passi  e veloci movimenti che abbracciano il mondo di cose meravigliose che la circonda. Le note che provengono dalle cuffie sono invenzioni di Federica Furlani che  prende ispirazione dalle riflessioni del primo grande compositore ambientalista Raymond Murray Schafer e da Brian Eno. Ammiriamo le opere, soli, anche se accanto ad altri, in una percezione molto particolare che ci fa avvicinare al senso della potenza della creazione. Una stanza tutta per se e cinquecento sterline annue di rendita sono le condizioni minime per una donna che scrive,  raccontava nel suo libro Virginia. Un luogo dove essa possa, senza remore, esprimere la sua intelligenza. Nella libera interpretazione andata in scena a Palazzo Maffei l’energia creatrice degli artisti che, sulle pareti restituiscono una loro visione del mondo, entrava in relazione con i presenti, ora anch’essi registi di una nuova storia di pensiero e di immaginazione. Le pareti restituivano brani della vitalità dell’essere che straordinariamente rimanevano, anche se possedevano un antico linguaggio, leggibili e vicini. Statue greco-romane, dipinti cinquecenteschi, sculture novecentesche, quadri di futuristi, scene sacre e opere cinetiche, solo per citare alcuni stili  e generi, si posano sugli spazi pieni di luce,  come se il tempo fosse saltato, per restituire a noi valori senza limiti di spazio e cronologia. Ogni espressione si completava nell’insieme, mentre le dita della danzatrice mostravano alla fine della coreografia, una delle frasi simbolo del palazzo: l’Arte è la forma più alta della speranza: un aforisma del pittore Gerhard Richter. Incisioni, miniature, disegni, libri antichi, maioliche, bronzi, avori, oggetti di uso quotidiano, come  mobilio e manufatti decorativi e affreschi completano l’excursus nella casa-museo. La Collezione Carlon, qui raccolta, venne iniziata più di cinquant’anni fa. Ogni suo luogo definisce coordinate di forme, colori e significati che  azionano come una molla la nostra immaginazione. L’interesse per la storia artistica veronese si evidenzia nelle opere, fra gli altri, di Altichiero e Liberale da Verona, Bonifacio de’ Pitati, Antonio e Giovanni Badile, Felice Brusasorci, Antonio Balestra e Giambettino Cignaroli. Nella prima sala, capolavori della pittura veronese, tra la fine del XV e l’inizio del XVII secolo, si ammirano accanto a manufatti tardogotici di pregevole fattura e a preziose tele di tema mitologico che si ispirano alle Metamorfosi di Ovidio, alla Teogonia di Esiodo e alle gesta dei poemi omerici. Nella stanza dei Mirabilia i fondi oro di epoca trecentesca e quattrocentesca alludono a uno spazio oltre il visibile come  i tagli sulla tela rossa di Lucio Fontana che ricercano la terza dimensione spaziale. Accanto ai fogli miniati del XIII e del XIV secolo appaiono sulle parete  affreschi di paesaggi con architetture. Ci sono  i panorami e gli sguardi  sulla Verona del Seicento come nella Veduta dell’Adige nei pressi di San Giorgio in Braida dell’olandese Gaspar van Wittel o l’immagine di Piazza delle erbe di Giovanni Boldini, riletta in chiave Belle Époque. Nell’Antiquarium che ricorda le origini del palazzo Maffei, edificato sui resti del Capitolium, il tempio romano del I secolo dopo Cristo, i manufatti lapidei con raffinate decorazioni a punta di trapano a violino sono accostati alla statua di Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, e al Testimone di Mimmo Paladino. Qui la limpidezza dei materiali e delle linee sembra acquistare voce silenziosa, mentre sulle pareti ci guardano i Gladiatori di De Chirico. E’ una sinfonia di colori, dove il bianco e l’avorio condensano l’essenza e la forza dell’esistere. Incontriamo nella passeggiata opere inedite delle avanguardie storiche come il quadro: Canal Grande a Venezia di Umberto Boccioni.  Particolare attenzione viene riservata al Movimento del Futurismo, attraverso le opere dei suoi  principali  “firmatari, o se vogliamo protagonisti: Giacomo Balla, Gino Severini, Carlo Carrà e naturalmente Boccioni. Ci sono i colori di Modigliani, di Casorati, Schifano e  Warhol, in un viaggio dal Realismo Magico alla Pop Art. Ci muoviamo  dalla pittura informale di Georges Mathieu all’astrattista Carla Accardi, da Alberto Burri, a Piero Manzoni e Enrico Castellani che, negli anni Cinquanta e Sessanta  esprimono nuovi valori  nati  dalla consapevolezza di essere una generazione scampata agli orrori della guerra. Nel percorso tra realismo e astrazione sostiamo con stupore davanti al surrealista Renè Magritte, all’incredibile Renato Guttuso e a Pablo Picasso per immergerci infine nelle grandi tele di Emilio Vedova, Piero Dorazio e Giuseppe Santomaso. Si pone attenzione anche  alle creazioni di figure d’artisti più giovani come Chiara Dynys, Leandro Erlich, Giuseppe Gallo, Dan Roosegaarde e Arcangelo Sassolino. L’allestimento museale ha avuto la direzione della storica dell’arte Gabriella Belli.

Patrizia Lazzarin, 7 novembre 2022

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