I nostri servizi segreti su Immuni

Mentre molti Paesi a livello globale stanno studiando le misure tecnologiche per far fronte all’emergenza sanitaria attraverso lo sviluppo di applicazioni per il contact tracing, la discussione politica su Immuni, la piattaforma che sta realizzando Bending Spoons dopo essersi aggiudicata il bando del ministero dell’Innovazione, ha assunto toni da ultima spiaggia. Al punto che si sono addirittura mossi i servizi segreti dei Paesi interessati, facendo filtrare su agenzie e quotidiani legittime preoccupazioni rispetto alla gestione dei dati che verranno raccolti. Il commento di Giovanna Predoni su Lettera 43.

L'Immuni della discordia, i cinesi possono spiarci

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Come l’Italia può fare la sua parte nella competizione fiscale

Adesso in Bending Spoons, startup milanese che si occuperà su incarico del governo italiano di tracciamento del “Covid19, a lavorare sono centinaia, ma qualche anno fa erano una manciata di giovanissimi, tra cui degli italiani, che avevamo cominciato a creare app durante il loro Erasmus in Danimarca. Nel 2015 questi ragazzi, all’epoca ventenni, si sono stabiliti a Milano, invece che a Londra come spesso accade, spinti delle misure di attrazione di capitale umano e startup che l’Italia si era data. Bending Spoons è oggi una PMI Innovativa ed è una realtà tra quelle di maggior successo mondiale nel mondo delle app. Questa storia, molto conosciuta nel mondo del digital, spiega bene come delle politichepro crescita e pro sviluppo siano fondamentali per attirare talenti, capitale umano e quindi business. L’Italia per attrarre persone ad alto potenziale in questi ultimi anni ha fatto molto e si è adeguata alle normative che ci sono in diversi paesi europei, però si può sempre migliorare e si potrebbe pensare, anche per aiutare la fase di ripartenza post Covid-19, a due interventi. Il primo potenziando e semplificando l’uso dei visti per startupper e investitori. E poi si potrebbe migliorare il regime di tassazione per i titolari di pensioni estere se decidono di trasferirsi in Italia. Il regime esiste già, ma nella formulazione attuale prevede che si debba eleggere residenza in una piccola cittadina nel Sud Italia. Una limitazione che non rende questa norma sufficientemente competitiva di fronte a diverse normative simili di altri paesi europei. Aggiungere qualche migliaio di contribuenti ad alto reddito in Italia ha una valenza strategica, anche ai fini del gettito; in Italia chi dichiara più di 300.000 euro sono circa 35.000 persone (lo 0,1 per cento dei contribuenti). E a proposito di competizione fiscale tra Stati – ed è da sottolineare – nessuna delle normative “pro attrazione” approvate in Italia in questi anni è menzionata nella relazione finale sui reati finanziari, l’evasione e l’elusione fiscale che il Parlamento europeo ha adottato, in sessione plenaria, nel marzo del 2019. La relazione sottolinea l’urgente necessità di una riforma fiscale per rafforzare la lotta contro i crimini finanziari e la pianificazione fiscale aggressiva e, tra altre cose, rileva che sette paesi dell’UE (Belgio, Cipro, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo, Malta e Olanda) facilitano una pianificazione fiscale aggressiva. L’Italia non è citata – giustamente – perché le norme italiane di competizione fiscale sono pensate per situazioni che abbinano al vantaggio fiscale una vera sostanza economica o un effettivo trasferimento in Italia e prevedono, come regola, lo scambio di informazioni fiscali tra Paesi. Come scrive bene (e con esempi concreti) Andrea Silvestri ne “Il fisco che vorrei” (Franco Angeli) la competizione fiscale, quando all’interno di rapporti in buona fede tra contribuenti e Stati e tra Stati è un elemento di dinamicità necessario in un mercato così grande come quello europeo; anche all’interno degli Stati Uniti c’è una qualche forma di competizione fiscale tra Stati. Rendere competitivo il nostro paese nel attrarre business (e mantenere in Italia gli headquarters) deve essere quindi una ossessione del governo. L’economia del futuro sarà sempre più legata alla tecnologia e alla ricerca, e bisogna premiare, quindi, chi investe in questi settori. Un esempio di partecipazione, intelligente efair, alla competizione per attrarre investimenti qualificati in ricerca e innovazione è il piano Industria 4.0, che ha sicuramente rappresentato un cambio di passo in Italia nelle politiche di attrazione a vantaggio delle imprese. Soprattutto nella sua fase di lancio e prima che un intervento di ridimensionamento, miope a parere di chi scrive, producesse un rallentamento sul recupero delgapdi investimenti e di produttività che si stava materializzando. Industria 4.0 grazie a misure incentivanti sugli investimenti più qualificati in ricerca, brevetti, proprietà intellettuale ha permesso di abbassare iltax ratedi imprese che investono in attività ad alto rischio nel nostro Paese. Queste misure insieme al credito di imposta alla ricerca e sviluppo (R&S), al super e iper-ammortamento, piuttosto che ilpatent boxo la già citata normativa su startup e PMI innovative, hanno reso l’Italia competitiva permettendole di scavalcare diverse posizioni negli indici di attrattività internazionale. In Italia, come visto sopra per le persone fisiche, anche gli incentivi fiscali alle imprese sono stati indirizzati verso situazioni reali e attività economiche concrete, non si è cercato di dare copertura a schemi elusivi o senza sostanza. Così purtroppo non è sempre in Europa. Uno dei casi più noti è quello dell’Olanda. Divenuta famosa per i generosi accordi concessi dal fisco locale a favore di una serie di strutture fiscalmente aggressive e prive di sostanza economica. Basti ricordare l’uso della loro normativa volta ad attrarre marchi e brevetti concedendo una tassazione di estremo favore senza alcun controllo sull’effettivo trasferimento di attività economiche sottostanti (laboratori, attività di ricerca, spese). Oppure il così detto “Dutch Sandwich” conosciuto a livello mondiale perché utilizzato da moltibigdell’economia digitale. Questa struttura prevedeva l’utilizzo di una società intermedia olandese (da cui, appunto, il nome di “sandwich”) per veicolare un flusso di pagamenti provenienti da uno Stato UE. Questa società intermedia era per lo più priva di qualunque sostanza economica (personale, uffici etc.), ma il suo utilizzo consentiva di evitare la tassazione che lo Stato UE da cui venivano pagati i flussi avrebbe imposto se i pagamenti fossero stati effettuati direttamente nei confronti dell’effettivo beneficiario, tipicamente una società residente in un paradiso fiscale. Per i contribuenti, quindi, un grande risparmio fiscale a fronte di un piccolo costo in termini di imposta olandese, grazie appunto al generoso accordo con il fisco locale. Per gli altri Stati come l’Italia, invece, una significativa perdita di gettito. Per l’Unione Europea nel suo complesso, un danno netto, perché a fronte del piccolo maggior introito fiscale dell’Olanda gli altri Stati subivano perdite di gran lunga più elevate. Nel mondo si assiste da molti anni a una competizione tra Stati anche sul piano fiscale, e non avrebbe senso che l’Italia non partecipi; avere delle norme di attrazione che funzionano bene e hanno successo, nel pieno rispetto competizione leale tra stati e con adeguati scambi di informazione, è l’unico modo che il nostro paese ha per poter incidere in Europa quando si parla di questi temi. Il punto di arrivo è che si realizzi, in un paio di lustri, una fiscalità europea più coordinata ed omogenea.

Stefano Firpo e Andrea Tavecchio – Il Foglio – 22 aprile 2020

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